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Angioni | L’osso del cuore

Èuno sforzo disumano fare piazza pulita dell’adulto per ricordarsi del ragazzino. È uno sfinente esercizio a togliere. Una scarnificazione per arrivare al nocciolo della seconda media. Forse, una volta che hai oltrepassato il confine, è impossibile recuperare quello stato. Quella doverosa e sacrosanta sensazione di onnipotenza. Una primavera viscerale. Il bambino che sfiora l’adolescente in una danza circospetta. La scuola, lo zaino, i libri trattati malissimo, le scarpe da ginnastica, il gruppetto dei maschi sempre un po’ gobbi, le femmine con le teste inclinate in legnosi tentativi di ammiccamento. C’è molto tempo a disposizione. C’è tutto il tempo del mondo. Si cammina trascinando i piedi. L’imbarazzo e la strafottenza vanno a braccetto. Più ti emozioni, più sfotti. E viceversa. Non si gode della natura, a 12 anni. La si attraversa selvaggiamente in bicicletta. Non si corteggia la ragazza più carina della classe. Si ride per la scritta “Giulia puttana” sul muro del bagno. Non si chiede consiglio al padre, si venera l’amico che mena più forte durante la ricreazione.

Avere 12 anni è come avere un appartamento con un’immensa vetrata su tutti i paesaggi che riesci a immaginare. Devi solo scegliere quello che ti somiglia e volarci dentro. Tanto a quell’età si hanno ancora un paio di ali, se non ricordo male.

Erano gli anni 80, era il giorno di S.Valentino, e io mi aspettavo un regalo. Il primo pensiero d’amore. Arrivò un piccolo peluche rosa, brutto, dato di fretta come una palla avvelenata. E ad accompagnarlo ci fu un bacio secco, goffo, senza trasporto. Ma era il primo pensiero d’amore. E a me venne improvvisamente voglia di leccare prati, strade, cieli ed emeriti sconosciuti, per sentire tutto contemporaneamente. Da quel momento la vita avrebbe avuto un buon sapore, ne ero certa. Persino gli autogrill che puzzavano di fritto, le luci brutte degli ascensori, le tappezzerie strappate e i centri commerciali la domenica pomeriggio avrebbero trovato una loro forma di lirismo, una giustificazione per stare al mondo. Non successe. Gli autogrill continuarono ad essere anonimi e il peluche rosa lo aveva ricevuto anche una mia compagna di classe, insieme allo stesso bacio rachitico dato dallo stesso ragazzino.

 

Ma chi se ne frega. A 12 anni si scende dalla giostra della felicità, si rimane lì un attimo attoniti con lo zucchero filato in mano, e si sale subito su un’altra attrazione, senza pensarci.

Era stata una delusione piccola, perché ero piccola. Avevo avuto male ai capelli per un paio di giorni, e in bocca un sapore di fango. Pianerottoli gelati sotto i piedi anche con i calzettoni di lana. Poi ero tornata ad attraversare i corridoi della scuola con la stessa flemma di prima. C’era solo un piccolo danno che non vedeva nessuno.
Un ossicino rotto da qualche parte nel cuore. Ah, il cuore non ha ossa? Non ne sono sicura. Si rompe qualcosa di continuo laggiù, sotto il respiro. Continuate a cercare, dottori, vedrete che qualcosa salta fuori. A 12 anni si cade spesso, giocando. Ma ci si rialza sempre con ostinazione, perché non ci si fa niente. Il corpo rimbalza, è elastico, forte, invincibile. Non lo tieni nemmeno in considerazione, di farti male. Poi arriva un peluche rosa, ti tremano le gambe, abbassi le difese e si rompe qualcosa. Crack. Sei diventato grande.


Photo by Tim Marshall

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