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Canova | Reliquie e obsolescenza in economia

Perché un economista si mette a parlare di reliquie? E, soprattutto, in che senso possiamo parlare di reliquie in economia? Tempo fa lo scrittore Carlyle definì l’economia come la scienza triste, per cui siamo decisamente in tema. Scherzi a parte, il fatto è che l’economia è una disciplina che prova a dare i numeri un po’ dappertutto, anche rispetto a dimensioni della vita che, tipicamente, non faremmo fatica a definire come incommensurabili. Fino ad oggi, per esempio, in termini di qualità della vita, il modo in cui gli economisti definiscono il benessere di una persona e di una nazione è basato sul reddito e, poiché esso rappresenta la somma di tutti i redditi in un’economia, sul PIL in un dato paese. La parola PIL, prodotto interno lordo, fa parte del nostro quotidiano, volenti o nolenti: ne sentiamo parlare al telegiornale o in politica, ne leggiamo sui giornali o sui social network. Qual è il tasso di crescita del PIL in Italia? Quanti miliardi spende l’Italia in istruzione e cultura? E quanto rappresentano, in termini percentuali, a livello di PIL? Quanto vale il debito pubblico italiano? Il PIL serve a misurare il valore della produzione di un’economia e, in modo altrettanto importante, ci aiuta a capire con un numero solo quanto sia in salute l’industria di un paese o quanto un governo investa in determinati settori, quali l’istruzione o l’ambiente. E allora dove stanno le reliquie? Il fatto è che il PIL è stato pensato e creato intorno agli anni ’30 del Novecento, in un preciso momento storico: in occasione, cioè, della Grande Depressione del 1929. Serviva, allora come oggi, un indicatore, una statistica ufficiale che fosse di aiuto ai politici per poter intervenire a ragion veduta sull’economia di un paese. Il prodotto interno lordo, tuttavia, proprio per la sua data di nascita, è una misura di ricchezza che, in qualche modo, è figlia del suo tempo e di un sistema economico che, oggi, non c’è più. Allora il settore trainante era la manifattura e stimare il valore della produzione, con buona misura, significava avere le idee piuttosto chiare su quanto ricco fosse un paese. I tempi cambiano, però, e con essi cambia anche il sistema economico: in molti tra i paesi industrializzati, ormai, il settore trainante è quello dei servizi, non più quello della manifattura. Con la dematerializzazione dell’economia, e la rivoluzione digitale sta accelerando il processo di questa trasformazione, il prodotto interno lordo è una misura sempre più obsoleta. Una reliquia che, come un idolo totemico, è ancora idolatrata a livello di dibattito pubblico ma, forse, necessiterebbe di un importante ripensamento. Questo, è bene comunque dirlo, non è uno scritto per i fricchettoni della happiness agenda, portatori saggi di un messaggio che, fondato sulla multidimensionalità del benessere, punta al superamento di indicatori esclusivamente monetari come approssimazioni della qualità della vita. Per i romantici, rimandiamo direttamente a un esaustivo e citatissimo discorso di Bob Kennedy che, nel 1968, ebbe già modo di rilevare le incongruenze di una statistica come il PIL, per un verso arida e, per un altro, troppo generosa, nell’escludere o includere in un solo numero ciò che rende la vita degna di essere vissuta e ciò che, all’opposto, ci fa stare peggio.

Il fatto è che il PIL è un indicatore che sta maluccio anche, e soprattutto, se si usano argomenti di pura efficienza (da Milanese Imbruttito per intenderci) per rispondere alla domanda: come misuriamo la ricchezza di una persona e di una nazione?

Già l’Economist aveva dedicato un lungo approfondimento alle crepe che l’economia digitale ha aperto nelle mura ormai vecchiotte di una contabilità nazionale nata come espressione, e dunque misura, di un’economia strutturalmente diversa. La dematerializzazione ha portato e porta con sé un corollario spesso dimenticato: siamo sicuri che il denaro speso sia ancora l’unico metro in grado di dirci qualcosa sul livello di benessere? Gli economisti sanno bene che il problema nasce soprattutto in casi simili a quelli di un sistema fortemente digitalizzato, in cui è proprio cambiato il modo di attribuire valore a una cosa. Se un bene, infatti, ha un prezzo, il PIL è un indicatore efficace nel dirci qualcosa sul benessere individuale e sociale e, di conseguenza, è utile a misurare anche le variazioni dello stesso benessere nel tempo. Se, però, il prezzo di un bene precipita a terra fino a rasentare, e a raggiungere infine, lo zero, le cose si fanno più complesse. E come si fa a misurare il valore di un qualcosa che ha prezzo zero? Gli esempi di questo paradosso si sprecano. Già nel 1994, in un famoso studio empirico, il neo-premio Nobel per l’Economia William Nordhaus aveva messo in dubbio la capacità del denaro speso di catturare il vero potere d’acquisto di una persona, ripercorrendo la storia dei prezzi della luce, dalla candela alle lampade ad olio fino alle lampadine più recenti. La questione è letteralmente illuminante: l’esponenziale miglioramento nella nostra capacità di generare luce, con connesso straordinario aumento della qualità della vita, può essere racchiuso nel solo cambiamento dei prezzi della luce stessa nel tempo? La risposta è semplice e netta: NO. Quando il prezzo di qualcosa si abbassa, il valore di quel qualcosa potrebbe essere approssimato meglio da un’altra grandezza, che gli economisti chiamano surplus del consumatore. Il surplus del consumatore è la differenza tra il valore che si attribuisce a un oggetto/bene e il prezzo che si paga per acquistarlo. Se una fetta di sacher costa 2 euro e si sarebbe disposti a pagarne 4 per averla, il surplus è di 2 euro. Ora, il surplus del consumatore misura il valore che diamo a un bene, quando questo bene ha prezzo 0. E arriviamo al mondo digitale, il paradiso dei beni a costo (diretto) 0. La critica legittima mossa da sempre più economisti all’interno della comunità accademica è che, in un contesto in cui il prezzo dei beni scende fino a raggiungere lo 0, le variazioni di PIL non solo non catturano le nostre variazioni di benessere, ma neppure possono farlo. Di qui il fatto che, negli ultimi dieci anni, il consumo di musica delle persone è aumentato moltissimo, grazie a piattaforme digitali tra cui Spotify, mentre il fatturato delle case discografiche che vendono cd-canzoni -musica è crollato anche del 40%.

 

 

E lo stesso discorso vale per le telefonate, per la fruizione di contenuti multimediali o per l’utilizzo dei social, che ci procurano benessere o valore e della cui gratuità ci accorgiamo solo quando vengono fuori scandali tipo Cambridge Analytica. È un fatto incontestabile che persino una persona non particolarmente benestante, oggi, goda di un accesso a possibilità (videochiamate intercontinentali gratuite, accesso a cataloghi di libri, musica e altri contenuti pressoché illimitati, sistemi satellitari di rilevazione della posizione geografica real-time, etc.) che erano off limits, solo 50 anni fa, anche per i più facoltosi abitanti del pianeta. Ora, una parte sempre più ampia della nostra vita viene vissuta online: su Google, sui marketplaces per acquistare beni, sulle app di messaggistica e di condivisione di foto. E sugli altri social. Ma come si può stimare l’aumento di qualità della vita delle persone se quei beni hanno prezzo zero? Qualcuno prova a calcolare il valore dei beni e servizi digitali attraverso la moneta corrente che serve per avere accesso ad essi: il tempo. Quanto tempo dedico ai vari servizi e come posso esprimere questo tempo in forma di denaro?

Del resto, è stato lo stesso AD di Netflix a dire: “Il nostro unico competitor è il sonno”.

Un lavoro empirico molto interessante, e pubblicato come working paper recentemente, propone invece una metodologia diversa: i massive online choice experiments. Si tratta di esperimenti fatti con un gran numero di persone, che sfruttano la cornucopia di dati disponibili nel mondo digitale, per provare a stimare quel surplus del consumatore di cui parlavamo prima. E come? Be’, si prendono un bel po’ di persone, appunto, e si fa un esperimento: gli si chiede quanto denaro vorrebbero ricevere per rinunciare a un mese di Facebook e gli si dice che 1 su 200 tra essi, una volta registrata la risposta, verrà estratto e riceverà appunto il denaro richiesto, a patto che poi stia davvero un mese senza Facebook. In questo modo, si riesce ad elicitare (a far emergere) le spesso fumosissime preferenze del consumatore. E si riesce a disegnare una curva di domanda che, alla fin fine, consente di stimare il valore del bene in questione. Il valore mediano che esce dalle migliaia di osservazioni raccolte è abbastanza interessante: 37,76$. Questo significa che per il 50% dei soggetti dell’esperimento, che ha coinvolto quasi 3 mila persone, Facebook ha un valore mensile di circa 40 dollari. La ricerca presenta anche un altro test che usa dati delle Google Consumer Surveys e che, con una logica simile a quella descritta prima, arriva a produrre una sorta di classifica del valore annuale dei principali beni digitali: in cima ci sono i motori di ricerca (valutati 17,5 mila dollari), seguiti dalle mail (8 mila dollari) e dall’uso di mappe digitali (3,6 mila dollari). Youtube e altre piattaforme escono da questa stima con un valore di circa 120-240 $ all’anno. La variabilità delle stime è tale e il range dei risultati così ampio che, dai diversi numeri, è difficile poter evincere una statistica univoca affidabile. Ma la crescente disponibilità dei dati è senz’altro un incoraggiamento a servirsi di metodologie simili per modificare la contabilità nazionale (l’obiettivo ultimo è produrre una metrica che possa essere utilizzata a livello generale) e includere finalmente il valore dei beni e servizi digitali nella nostra misurazione del benessere. Così che il PIL possa godersi, dopo cent’anni di onorato servizio, il suo meritato riposo. Ovviamente, con misura.

 

 

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