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Guarini | Di piante e di larve

Intorno a un’antica casa di campagna abbandonata da molti anni, ma che da pochi mesi, grazie a nuovi abitanti, ha ritrovato un’altra vita e riscoperto antiche usanze, avviene un terribile atto predatorio. Nella fresca e fertile umidità del terreno circostante, fino a quel momento rimasto arido e compatto per lungo tempo, nell’oscurità più assoluta, vi è un minuscolo seme di cuscuta, in cerca di quest’esatto momento, ossia dell’istante perfetto, da quasi dieci anni. Caduto in passato dal fiore secco della pianta madre sulla terra arsa dal sole, ignorato da un roditore che scavava in cerca di qualche tubero e così sepolto per caso e messo a riparo dai più pericolosi passeri, ora, grazie alle arature, alle piogge e alla primavera, finalmente si gonfia e lievita. Qualcosa all’interno del granello di cuscuta cambia: un esile germoglio apre uno squarcio sulla sottile cuticola ammorbidita dall’acqua e si fa strada con disinvoltura tra zolle di terra e sassolini, tra semi di varie piante spontanee e uova di insetto, tra residui organici e granuli di concime pellettato, che per il tentacolo vegetale rappresentano soltanto un superabile ostacolo.

Il germoglio prosegue verso l’alto, verso il calore ed è determinato e affamato. Ma non di luce solare.
Nato solo, senza nemmeno una radice a dargli stabilità e sostentamento, il virgulto prosegue famelico e risoluto. Il nutrimento oleoso presente all’interno del serbatoio di carburante naturale che fino a poco tempo prima era il seme che lo aveva dato alla luce, sta per esaurirsi. La cuscuta deve trovare al più presto di che cibarsi.

Sbucato dal suolo per incontrare la luce del giorno, il germoglio inizia a fiutare l’aria e a ruotare su se stesso come il bastone di un pastore che cerca di allontanare disperatamente dall’abisso di un dirupo le sue pecore, impazzite per un incendio di stoppie.
Il ‘getto’, ormai divenuto un rampicante convolvolo, tasta il volume d’aria che lo circonda agitandosi come fosse vittima di temporanea cecità. È sgraziato, pallido come i germogli di grano tenuti al buio dai bambini per la Quaresima, solo un po’ vagamente rossiccio, privo del rigoglioso colore verde che connota le piante ricche di clorofilla. Di quest’ultima la cuscuta è naturalmente sprovvista: è un vegetale assolutamente fuori contesto rispetto alla smeraldina potenza che lo circonda.

Poco prima del risveglio del seme di cuscuta, esattamente vicino all’impervio e arido santuario di terra dove il granello aveva trovato clandestinamente ricovero, una mano umana aveva messo a dimora, dopo l’aratura del terreno, un più grosso e nero seme di ipomea, un altro convolvolo, uno stretto parente della cuscuta.

Un tempo i semi di ipomea venivano masticati in numero pari dagli sciamani e dai loro assistiti per chiedere agli dei consiglio, guarigione da malanni, liberazione da energie oscure e per avere una rivelazione sulla ‘giusta via’ attraverso sacre visioni. Ora tutto ciò non accade più: le ipomee si arrampicano su ‘spalliere’ e pergolati per regalare ai giardini e a chi vi passeggia la visione di bellissimi fiori purpurei.

Il grosso seme piatto di ipomea è stato piantato nel terreno fragrante che circonda la masseria proprio per regalare una splendida panoramica a chi lo scorge, al fine di aggiungere luce e colore tra terra e cielo.

La robusta e bianca radice e il grosso e verde germoglio di ipomea spuntano e crescono rapidamente assieme, con grande vigore. Il virgulto inizia subito ad arrotolarsi ad una canna di bambù che fa, con le altre, da colonna ad un elegante pergolato, come se fosse un giovane serpente tropicale nel mezzo della jungla nella quale è nato.

Nel frattempo la bramosia del virgulto di cuscuta è arrivata al massimo poiché la pianta sente che le forze la stanno per abbandonare: si avvia alla fine il nutrimento innato a sua disposizione. A un tratto sfiora con una viscida carezza il fusto vellutato dell’ipomea. La carezza si trasforma rapidamente in un abbraccio sinuoso, che si fa via via più passionale e soffocante. Succede, si dirà, nel giardino capita che ci si sfiori, ci si tocchi e ci si abbracci, ma il serpentino stelo di cuscuta non si limita a questo: i pori del suo liscio e pallido corpo si trasformano in verruche degne del dorso della mano di una perfida strega delle fiabe e da alcune di queste spuntano degli organi lascivi, gli austori, che, senza riti di corteggiamento né vera seduzione, penetrano l’ignara ipomea più e più volte, facendo entrare con prepotenza la punta del subdolo organo nei pori atti alla traspirazione del giovane e verde fusto.

Dalle verruche che non subiscono questa mutazione, spuntano altri steli, identici a quello dal quale sono stati generati, che avviluppano la vittima e la violano con altre protuberanze, e poi continuano ad avvilupparla con altri steli e così via.
La cuscuta si solleva da terra, poiché non ha radice e ormai il contatto diretto con la superficie di questo pianeta non serve più.

In queste condizioni e con questo furore predatore, nessuna pianta resisterebbe alla sua voracità: né la gramigna, a sua volta infestante negli orti, né una giovane quercia nei suoi primi decimetri di vita, né tantomeno un cespuglio di rose nel pieno del suo impeto vegetativo e ricco di robuste spine, perfette per allontanare predatori animali.

La malcapitata ipomea è ormai in trappola, il predatore si nutre della sua energia e usa la forza giovanile della vittima per avvilupparla sempre più, fino a nasconderla agli occhi del mondo, sotto mortifere e vampiresche spire.
L’ipomea è spacciata: le api provenienti dagli alveari posti all’ombra degli alberi di agrumi intorno alla casa non potranno più nutrirsi con il nettare dei suoi grandi fiori purpurei, ma avranno soltanto quello degli sgraziati fiorellini incolori di cuscuta. La pianta depredata, nonostante sia soverchiata quasi del tutto, non morirà.

Il giardiniere, casualmente, passeggiando lì vicino, non vedendo nessun fiore dal color magenta là dove ce ne dovrebbero essere decine, si accorge di tale abuso prima del tracollo e, zelante, non senza fatica, riesce a liberare la vittima dalla mortale fascinazione. L’uomo taglia ogni austore, centimetro dopo centimetro, sbrogliando l’intricata matassa come fa un pescatore con l’intrico della sua rete dopo che è stata travolta dall’elica del motoscafo di un vacanziere.

A questo punto l’ipomea è fiaccata, ingiallita, pallida e accartocciata. Non riesce autonomamente ad arrampicarsi sulla canna e per questo motivo l’uomo la lega al supporto con fibre di rafia, al fine di farla stare su e per farle riprendere la sua corsa in aria. Anche il troppo sole ora le fa male e il suo soccorritore le dà un po’ d’ombra con alcune foglie di palma tagliate il giorno precedente per manutenzione ordinaria del giardino. Il giardiniere intende darle lo stesso meritato ricovero dei carovanieri che nel deserto cercano le oasi e si riparano all’ombra nei caravanserragli. Intanto il terreno intorno alla pianta è nuovamente concimato con letame ben maturo, pacciamato con paglia e corteccia e innaffiato abbondantemente e regolarmente.

Solo così l’ipomea potrà recuperare l’energia vitale perduta. Sul fianco del suo verde stelo, sotto le vecchie foglie avvizzite e martoriate dalla violenza ricevuta, si gonfiano nuove gemme ascellari, che riprenderanno ad avviluppare il bastone di bambù. Dai nuovi virgulti sbucheranno presto altri tomentosi e turgidi germogli che via via si riempiranno di ampie foglie con la stessa forma dei cuori che disegnano le adolescenti innamorate sui loro diari.

Nonostante la bella stagione sia ormai avanzata, l’ipomea è tornata alla vita e si arrampica verso l’alto. È comunque difficile che riesca a fiorire.

 

CAPITOLO 2. IL PROLIFERARE DI UN’OSSESSIONE

Altrove, nel tempo, ma non lontano da quel giardino, in un terreno poco distante dal mare e destinato al pascolo delle greggi, circondato da varie piante spontanee che fioriscono e ingialliscono, un escremento di volpe si secca al sole di giugno.
La volpe in questione, pochi giorni addietro, si era imbattuta in una succulenta carcassa di capra adagiata su di un cumulo di pietre che un tempo erano una minuscola chiesetta di campagna, andata in disuso e sconsacrata. I fedeli che la frequentavano e la curavano avevano abbandonato i campi per cercare stabilità economica nelle fabbriche e nelle manifatture, rendendola così preda delle radici di un fico selvatico che crescendo l’aveva abbattuta in pochi anni. L’astuto canide passeggiava al crepuscolo, quando un appetitoso odore di morte l’aveva fatta voltare verso ovest e così aveva scorto la silhouette di due corna oblique e senza vita sull’ ammasso informe di sedimenti. Giunta sul posto, aveva potuto constatare che le gazze ladre e le larve di moscone si erano occupate delle parti molli della carogna: erano spariti gli occhi, la lingua, grosse porzioni del viso e della zona perianale. La capra aveva una lacerazione all’altezza del ventre, era come se questo fosse esploso dall’interno, e la ferita brulicava di larve carnivore e di varie specie di insetti. Grosse parti di muscolo ed alcune frattaglie erano ancora intatte e ben frollate: un’occasione assolutamente da non perdere.

La volpe azzannò avidamente la carcassa infilando la testa nel ventre squarciato, così da non avere problemi di digestione, eventualmente causati dagli irti peli della capra. Riempì velocemente lo stomaco facendo grossi bocconi di carne e interiora: si trovava all’aperto e in cima ad una piccola altura e avrebbe potuto attirare predatori come grossi rapaci o cani inselvatichiti. Doveva poi tornare presto alla sua tana, dove la aspettavano i cuccioli che avevano iniziato a svezzare.

Con i denti appuntiti, capaci anche di spezzare le trame di una rete da pollaio, la volpe tagliò ossa e tendini per portare alla fine nella tana un’intera gamba posteriore dell’animale morto come cena per i suoi volpacchiotti.
Nei giorni successivi, all’interno dell’intestino della volpe, decine di migliaia di vermi piatti, gli Echinococchi granulosi, come un’idea fissa, raggiunsero finalmente il loro obiettivo finale. Essi, infatti, all’interno di grosse cisti piene di liquido carico di sostanze irritanti, avevano infestato il corpo della capra per mesi: le si erano annidate soprattutto nel fegato e nei polmoni, l’avevano fiaccata ed indebolita finché non erano esplose per una banale incornata, consueta in un gregge di capre, uccidendo la sventurata in pochi minuti di agonia.

Le larve iniziarono a pasteggiare con tutto ciò che la volpe cacciava, ingeriva e digeriva: crebbero e si autofecondarono, segmentandosi in tre parti chiamate proglottidi, e a tempo debito l’ultima, la più lontana dal capo e carica di uova, si staccò, e venne espulsa, insieme agli escrementi, nel pascolo poco distante dal mare.

Ora quel piccolo e rinsecchito escremento passa l’estate lì, nell’arsura. Le uova al suo interno, minuscole, si rinsecchiscono insieme ad esso, rimanendo però vive.

Solo lucertole, biacchi ed insetti passeranno lì vicino e nessun essere vivente se ne curerà.

Sul finire d’agosto, però, l’aria si riempie d’umidità e grossi cumulonembi montano da nord-est. I turisti e i villeggianti che fino ad un paio di giorni prima affollavano le spiagge pochi chilometri più a sud, si ritirano nelle loro vite invernali e i pochi rimasti sono cacciati via da un tremendo acquazzone che raffredda l’aria e riempie il cuore degli umani di malinconia e nostalgia.

Il prato, teatro della vicenda, viene inondato d’acqua piovana, che risveglia i semi e le radici delle erbette tanto gradite alle greggi e discioglie l’escremento di volpe, disseminando i suoi ospiti clandestini nell’area circostante.
Nei giorni successivi continuerà a piovere, a sprazzi, e il cielo lascerà di tanto in tanto filtrare il sole, ancora intenso, attraverso le nubi grigie.

Le graminacee spontanee crescono come se fossero state coltivate nella serra di un vivaio e le piccole e granulose uova d’echinococco si aggrappano ai teneri fili d’erba.
Poco distante da lì, un pastore apre il cancello dell’ovile e sollecita le sue greggi, sia pecore che capre, ad uscire alla chiara luce dell’aurora. Tre cani da pastore controllano che nessuno degli ovini perda la strada o ne prenda una propria, o peggio ancora che uno dei capi di bestiame venga attaccato e ucciso da qualche cane randagio, non figlio smarrito di altri cani da pastore, ma cucciolo abbandonato dal padrone prima di partire per una vacanza in posti per lui esotici.

I cani, abili sentinelle, non sospettano che un eventuale predatore in agguato possa essere invisibile ai loro occhi e che possa uccidere le loro assistite solo per giungere dentro l’organismo dei guardiani.

 

 

Tra belati e scampanii la massa informe color bianco sporco del gregge, dopo aver brucato lungo stradine sterrate e aver regolato la lunghezza dei giovani rami di una siepe, che per l’eccessiva giovanile vigoria erano andati oltre la ringhiera arrugginita che delimita una proprietà, è arrivata nel pascolo di destinazione. Lì, un impercettibile uovo di echinococco, contenuto nell’escremento ormai disciolto, viene assimilato, insieme allo stelo su cui si è depositato, da un agnellone, che indifferente, continua a rosicchiare altre foglie nutrienti.

Non sa ciò che sta per accadere. Non sa che dopo un paio di settimane, senza avere alcun sintomo, le uova si schiuderanno e le larve di echinococco inizieranno a moltiplicarsi all’interno di esso in delle cisti colme di liquido velenoso.
Dopo alcuni mesi, l’agnellone, diventato nel frattempo un ariete, non sta affatto bene. La forza, che dovrebbe contraddistinguere la sua giovane età, è sostituita da un incedere claudicante, e il poderoso belato viene sostituito sempre più da un rantolo soffocato. Il pastore si rende conto che qualcosa non va in quell’ovino durante l’ultima uscita autunnale sul versante roccioso di una collina, ma in quel momento non può far nulla. Il vento gelido e umido parla, racconta che sta per arrivare una bufera di grandine e suggerisce di andare via al più presto.

Il pastore deve recuperare tutto il bestiame. Fa un fischio, un fischio particolare che vuol significare qualcosa di preciso: i cani immediatamente circondano l’intero gregge e serrano i ranghi abbaiando e talvolta mordicchiando le pecore più ostinate che hanno trovato qualche erba di loro gradimento e non ne vogliono sapere di abbandonare il gustoso boccone. Il gruppo di ovini è ora raggruppato come un plotone di soldati e si affretta a partire, abbandonando l’ariete ormai agonizzante sul fianco roccioso: la cisti idatidea inglobata nel suo polmone destro è esplosa, soffocandolo mortalmente con i suoi fluidi.

Giunge di nuovo l’inverno con il suo carico di gelida e plumbea umidità. Sulla carcassa dell’ariete sono rimasti solo pochi pezzi di muscolo imputridito. Gazze e altri corvidi, favoriti dal territorio impervio e scosceso che non consente la facile intrusione di altri predatori terrestri, hanno quasi ripulito le ossa ingiallite, strappando prima a beccate i luridi peli che un tempo erano un soffice vello, prima di arrivare alla carne secca.

Il sollazzo dei tetri spazzini alati è interrotto dall’abbaiare di una cagna sporca e magra, che correndo nella loro direzione, sfidando rovi e massi rotolanti, mette in allarme gazze e taccole e le fa volare via.

Qualche gazza tra le più grosse rimane lì tentando di salvare il pasto e il territorio, ma la cagna è davvero risoluta: è affamata e incinta, quel nutrimento le serve ad ogni costo. Ringhia e mostra le gengive, l’ultimo uccello vola via e rimane sola con quel pezzo di carne annerita.

Infatti, la cagna aveva fiutato quel boccone marcio da oltre un chilometro di distanza e si era messa a correre nella direzione di quell’odore, di quel succulento fetore, come se la preda in questione fosse ancora viva, come se dovesse essere rincorsa e abbattuta. Giunta davanti a quel salvifico ben di dio, non si sofferma né ad annusare né a mugugnare ringraziando una divinità canina, ma ingoia tutto ciò che era stato carne molle, ora callosa, in poche riprese; poi sgranocchia le ossa per ricavare prezioso nutrimento anche dal midollo. Ignara e non curante delle diaboliche proto-uova ingerite, ora è tranquilla. Per oggi, non morirà di fame.

Sentendo vicino il momento del parto, la cagna si stabilisce sotto un vecchio forno, attaccato a una casa ormai crollata, nel vano dove un tempo si custodivano le frasche e i ciocchi. Nutrendosi di ratti e altri roditori che non abbandonano mai i ruderi e i loro orti disabitati, partorisce dopo pochi giorni cinque cuccioli, dei quali in vita, dopo una settimana, ne rimarranno solo tre. Sin dalle prime cure materne, i primi allattamenti e pulizie, i piccoli contrarranno le tenie di echinococco che, anche senza un ovino sacrificale come ospitante intermedio, passano agevolmente anche da canide a canide.

Passano i mesi, lentamente tornano il clima temperato e l’abbondanza, i cuccioli crescono e sono svezzati: la madre li allontana da sé affinché possano, combattendo, trovare un loro posto nel mondo. Ma l’echinococco non li ha abbandonati: per sua natura cerca di dare meno problemi possibili al suo ospitante definitivo.

Un cagnolino della cucciolata, ormai diventato un giovane adulto, si incammina al lato di una strada asfaltata, attratto dalla catena di rifiuti lanciati dalle macchine in corsa: qualcuno di essi è addirittura commestibile. Dopo un paio di giorni di viaggio, giunge in un piccolo centro abitato da uomini. È giugno, il posto non è ancora affollato dalle migliaia di persone che arriveranno da lì ad un paio di mesi. Ci sono in giro tanti cani randagi come lui, ancora non danno abbastanza fastidio da essere scacciati o catturati. Ce ne sono anche di grossi e feroci, quindi deve stare molto attento.

I ristoranti, già in funzione, producono molta spazzatura, quindi il cibo non manca. Tornando da una scorribanda con merenda a base di scarti di pesce fritto, il piccolo cane passa davanti ad una villetta a schiera circondata da una ringhiera in ferro e oltre quella ringhiera c’è un cucciolo, un po’ più giovane di lui. Sono entrambi maschi, ma ancora piuttosto fanciulli per riconoscere nell’altro un nemico o un invasore. Si osservano, si studiano, si annusano e si leccano, come fanno i cani per conoscersi, senza troppi giri di parole. Il randagio, dopo un po’, data l’impossibilità di giocare con il suo nuovo amico per via dell’alta inferriata, si annoia e prosegue per la sua strada, mentre il suo piccolo e domestico coetaneo è ancora eccitato dall’incontro. Queste brevi effusioni hanno lasciato comunque il segno. L’echinococco è anche dentro l’altro cucciolo. I suoi padroni umani lo hanno ben difeso da pulci e pappataci, ma non si sono curati dell’invisibile. Il cagnetto salta, abbaia, fa le capriole su se stesso. La sua giovane padrona sente tutto quel macello e scambiandolo per richiesta di attenzioni o festeggiamenti nei suoi riguardi, accorre, lo solleva, lo abbraccia e si fa leccare la faccia. Inutile dire che ora i protoscolici dell’echinococco sono anche dentro di lei. Il problema è che per l’echinococco noi umani non siamo cani, volpi o lupi. Per l’echinococco noi umani siamo pecore.

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