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Interview | Elena Bellantoni

Sono affascinato dal tuo progetto the Breadline, dal suo costruire ponti o, come hai detto più volte citando Matvejevic, dall’essere una linea della vita che unisce culture lontane ma anche ciò che identifica una sotto-vita, la linea della povertà, la linea della crisi. L’etimologia di crisi è Krisis, decisione. Qual è allora il significato di questo decidere?

Essere sotto la breadline significa essere sotto la linea di povertà, quella che sono andata a cercare nei quattro paesi tra Serbia, Grecia, Turchia ed Italia. La scelta di mettere insieme questi posti è stata dettata su uno sguardo verso il mare Mediterraneo che li abbraccia e li accomuna per ragioni storiche, politiche di appartenenza o sottomissione come nel caso di Atene e Belgrado antiche periferie dell’Impero Ottomano, l’attuale Turchia. Crisi, è una parola abusata nel nostro presente, è stata utilizzata per alimentare tensione e paura, a sua volta è un concetto ambiguo perché avviene non solo da una spinta interna, ma anche da alcune condizioni “esterne” che vengono imposte. Credo che, per superare la crisi, sia necessario ripartire innanzitutto dall’etimologia – di cui parli anche tu – della parola crisi (dal greco krísis – κρίσις) che ha il significato di scelta, decisione; che non va interpretata come sinonimo di “malattia acuta” che, in questo particolare periodo storico, sta diventando “cronica”. Ogni crescita, evoluzione, sviluppo sottende la presa di decisioni, il compimento di scelte e l’assunzione delle relative responsabilità, in un binomio crescente di causa – effetto. I Paesi che ho deciso di attraversare hanno subito e continuano, per motivi diversi, tensioni di questo tipo: dalla crisi balcanica, a quella greca, alle attuali posizioni turche che mettono in crisi un intero Paese e i territori vicini, all’Italia ed in particolare la Sicilia luogo di sbarco e porta del Mediterraneo.

 

Questa linea, questo centro etimologico tra le diversità, sembra necessariamente tre cose: è il marcare uno spazio, quindi è un luogo. È il prima e il dopo di sé, quindi, gioco fòrza, un’esclusione. Ma è anche un dentro e un fuori, quindi una scelta. È corretta come interpretazione? The Breadline è una linea in tensione tra questi tre centri gravitazionali?

Lo spazio che io ho individuato è liquido perché la linea del pane – come ti dicevo – è una strada d’acqua in cui si muovono persone, si scambiano voci, si traducono gesti. Quello che ho cercato di fare è di creare una narrazione unica tra questi “luoghi caldi” del nostro presente cercando di far emergere somiglianze e contrasti. Il mio spostamento “poetico-politico” mette in evidenza proprio questo percorso fatto di visioni. La mia breadline segue proprio queste tracce: semina briciole inseguendo avvistamenti e nuovi punti di vista, tenta di disegnare l’instabilità dello spazio-mondo in cui viviamo. Lo spazio è quello che attraverso e segno, l’esclusione si traduce nel cambiamento, nel mettere a fuoco quello che è fuori e nell’appropriarsene, la scelta è la verifica lucida dell’impianto progettuale e dei suoi innesti. Ho deciso di seguire la linea tracciata del grande scrittore serbo/croato – che incontrai a Roma più di dieci anni fa durante una sua conferenza e scomparso da poco – Predrag Matvejević: «mi sono reso conto di come culture lontane avessero nel grano delle radici in comune. È la storia delle prime farine dei nomadi, delle sacche dei viandanti e del pane dei frati: che è lo stesso dei mendicanti e dei carcerati» così Matvejević narra il grandioso vagabondaggio del grano nel suo libro Pane Nostro. Questa sua “geopoetica” ha segnato sicuramente l’inizio del mio percorso.

 

Mi viene anche da pensare che queste tre cose, queste tre azioni, siano fuori dall’immagine, fisicamente prima dell’immagine, come se custodissero il tempo e quindi la propria profondità…

Io lavoro per immersione. Resto nei luoghi diverso tempo per cercare non di farne un’immagine, ma di essersene innanzitutto attraversata. Il tempo che io traccio, è quello interno in cui io, in quanto artista, mi posiziono cercando di relazionarmi con i territori che non mi appartengono. La prima chiave è quindi quella dell’ascolto, dell’osservazione e del transito.
La mia immagine-azione ha preso forma in questi mesi negli spazi, nelle tensioni ma soprattutto nell’incontro. La lingua ed in particolare il canto, è stato un luogo di questo incontro e riassume bene il mio procedere ed il mio pensiero. L’esperienza nomade del linguaggio, che vaga senza fissa dimora e abita i crocevia del mondo, regge il nostro senso dell’essere e della differenza. Il canto non è più espressione di una storia unica o di una tradizione, mai come oggi il pensiero migra, va tradotto. Questo implica un senso diverso di “dimora”, di essere al mondo, e significa concepire la residenza come qualcosa in movimento. Questo moto interno mette bene in luce il mio procedere, il mio nomadismo, il mio tentativo di tracciare nuove cartografie per far affiorare punti di forza, di attrito e contrasto in questa “sezione di Europa”.


Il plesso tempo-spazio in Aristotele è detto nella parola ama che in Greco significa insieme, tutto in una volta, nello stesso tempo. C’è quindi nella linea, nella traccia, una complicità, un amore?

 

Seguire una linea, metterne insieme i punti, tracciarla e restituirla è questo forse l’atto che più mi preme e che mi ha quindi messo in cammino, che mi ha reso “amante di questa esplorazione”. Se amore è far combaciare le cose, io non le ho unite perfettamente ho tentato di trascriverle e creare una mappatura.
Aristotele definisce anzitutto lo spazio come il “luogo” (tópos), ossia come la posizione di un corpo fisico tra gli altri corpi. Il tempo che ho cercato invece è kairos, il tempo propizio per attivare tutti gli ingranaggi che hanno portano alla realizzazione del mio lavoro. Ho cercato di unire pezzi così diversi: le questioni politiche, i permessi nei vari Paesi, il lavoro con il coro e le mie idee. L’impianto estetico e formale e che ho pensato più di un anno fa a tavolino è diventato reale; ha coinciso con lo spazio che ho scelto per la performance canora – come fosse una struttura ossea – e si è liberato attraverso il gesto di improvvisazione che ho chiesto di fare alle ragazze del coro. Quest’ultimo nella Grecia antica ha un ruolo fondamentale nelle tragedie. Spesso è la “voce interiore del poeta” che si riflette nel coro. Il suo punto di vista, le sue idee, i suoi ideali trovano nel coro il modo più intenso e coinvolgente di manifestarsi e di dare corpo alla sua ispirazione artistica più sentita e più partecipata. Talvolta nel coro, il poeta, proietta anche il suo “doppio immaginifico” nel senso che convoglia in esso tutto il suo fremere, il suo pulsare, il suo sentire, il suo percepire. Nel coro il poeta ha concluso e racchiuso il suo messaggio più vero, più intenso spesso rivoluzionario e quasi veggente nei riguardi di un futuro ancora lontano e incerto e di un presente che non comprende mai il proprio momento storico e ciò che comporta la sua evidenza fulminea velata o palese. Le ragazze del coro della breadline incarnano bene questo passaggio in forma visiva: si muovono in modo meccanico in posti distopici o abbandonati, che presagivano un futuro migliore; il fallimento dell’utopia emerge nella desolazione, nell’incuria, nella sospensione. Sono delle rovine di architetture industriali, immagini della precarietà dell’esistenza umana: facciate fatiscenti, erbacce che crescono tra gli interstizi di cemento, mura a cielo aperto e ossature in metallo, corpi architettonici che potrebbero essere cari a Gordon Matta Clark. In queste figure fratturate il procedere, il camminare, il segnare uno spazio con la presenza di un corpo diventa significante e segno. È come se i corpi dessero voce a questi luoghi, per raccontare una storia “altra” che nessuno ha voluto scorgere e di cui siamo tutti testimoni o vittime. L’amore di cui mi chiedi forse sta proprio tra le pieghe di questi gesti, tra la rottura del passato e la precarietà del presente.

 

Scrisse Desideri: “La natura dell’opera d’arte non attende di farsi storia e quindi non attende di essere salvata, in quanto è già da sempre in salvo”. Qual è allora il punto di rottura minimale tra l’opera in sé, la performance, e la sua azione/reazione sociale?

Potremmo forse qui discutere dell’azione “salvifica” dell’Arte, di cui parla Nietzsche quando si occupa della tragedia greca ne “La nascita della tragedia”. La sua ricerca parte dall’individuazione delle due componenti tipiche di ogni arte: apollineo e dionisiaco. Apollo è il dio dell’equilibrio, della misura; Dioniso è il dio della sfrenatezza, dell’estasi. L’apollineo è di conseguenza la parte razionale, il dionisiaco quella istintiva ed emotiva, di ogni opera d’arte. La visione apollinea è una visione salvifica senza la quale l’uomo non potrebbe tollerare d’esistere. “ Proprio in questo, nel cogliere l’essenza della vita, la tragedia e l’arte in generale divengono la giustificazione estetica della vita. In altre parole l’esperienza che lo spettatore vive durante la tragedia rende la vita possibile e degna di essere vissuta. L’uomo attraverso la tragedia si riappropria delle sue passioni contrastanti e realizza che gioia e dolore sono entrambi necessari, sono entrambi presenti nella vita. Impara a godere tanto dell’uno quanto dell’altra. Egli apprende la natura tragica della vita. ” Possiamo interrogarci – come fa il filosofo – sul valore salvifico dell’arte e chiederci come essa sia ancora possibile anche dopo eventi disumani.
L’opera in sé non ha le pretese di assumersi né a linguaggio universale né da monito, il mio non è un discorso “morale” o retorico, ma l’elemento performativo tende a rendere possibile una proiezione di significati e segni attraverso l’agire dei corpi. Più che di rottura parlerei di innesto tra realtà e finzione, tra l’immaginazione e verità, tra poetico e politico è qui che germoglia il mio fare artistico. Come chiarisce bene Stefano Chiodi nel suo saggio introduttivo al catalogo: “A questo Mediterraneo oscuro, di cui oggi appaiono più chiaramente, dietro i consunti significanti tradizionali, la desolazione, l’estraneità, guarda Elena Bellantoni in On the Breadline. Un progetto complesso, in cui si combinano canto, performance, documentazione video, che si confronta coi limiti di ciò che l’arte visiva può fare nel nostro tempo, con forza visionaria della sua testimonianza singolare: trasformare non le cose, direttamente, ma le percezioni, renderle di nuovo presenti, attive, rinnovandole fin dove possibile e anche dove sembra impossibile. Per infine puntare lo sguardo dove sembra esserci solo vuoto, cercare di riconoscere ciò che appare ancora senza fisionomia”.

 

Mi permetto una provocazione… Provando a pensare a the Breadline fuori dall’arte e quindi come storia, qual è il centro della propria salvezza?

La mia breadline non esiste fuori dal gesto artistico almeno per me, essa nasce, si immerge, viene tessuta e prende forma in un determinato spazio-tempo. Il mio gesto artistico non è così esplicito, mette insieme diversi pezzi, luoghi e voci e crea una narrazione che apparentemente non esiste, almeno non in questo modo. I sottesi nel mio lavoro sono molti, come spesso avviene, quindi se vogliamo invece riflettere sul senso della linea di sussistenza, sul lavoro, i diritti, le donne, sui risultati di un capitalismo transnazionale, il crollo del muro del 1989, la crisi balcanica, sulla precarietà dell’esistenza di questa parte d’Europa determinata da fattori politici allora la breadline assume altre forme storico-teoriche e meno visionarie, in cui non c’è “redenzione”. Chi la guarda da fuori la può leggere anche come storia e porsi delle domande come Chiodi continua: “ Chi sono queste donne? A cosa allude il loro canto? E qual è il loro rapporto con i luoghi in cui sono riprese? Sono la voce struggente di un passato definitivamente tramontato? O piuttosto un’allegoria malinconica della condizione contemporanea, in cui la memoria storica e la coscienza civile cedono di fronte all’avanzare inesorabile di una realtà disgregata e intollerante?”.

Possiamo dire che ingaggia un duello proprio su quella linea di comunione tra le culture, su quella linea che è parte di sé? Possiamo dire che sta ingaggiando un duello con noi?

Come ti dicevo il duello è sul filo della crisi, quello che emerge non sono dei conflitti ma un’umanità che vive la stessa condizione, che dopo la fine delle grandi ideologie, dopo la guerra nei Balcani, dopo la crisi del 2008 si ritrova sulla stessa ed identica breadline. Il duello, il contrasto, il conflitto è intrinseco tra queste terre, è di natura storica, politica e religiosa e di confine. La breadline le sorvola e le unisce con la voce del canto Bred&Roses, da cui emerge l’elemento che salva che non è il pane, ma le rose. Quelle rose care al movimento punk, anti impegno, anti working class, che celebra l’ozio al posto del lavorare duro, le rose anziché il pane, la festa anziché il merito, il carnevale anziché la fabbrica… vuoi ancora combattere?

 

Gina Pane disse: “La ferita è la memoria del corpo: ne memorizza la fragilità, il dolore, dunque l’esistenza reale.” La farina e l’acqua o l’acqua e il detersivo per pulire piazza Taksim, sono da considerarsi ferite? presenze silenziose per riportarci al nostro reale?

Il pavimento di piazza Taksim viene lavato con un gesto secco e semplice nel mezzogiorno di fuoco tra me e la città con Soap Opera. Nel secchio dell’acqua ho messo qualche goccia di sapone che ho montato a neve come stessi preparando una torta, per festeggiare il giorno delle pulizie. Un gesto domestico quello del pulire che uscendo fuori casa assume la forma di una protesta silenziosa. La reale fatica di un lavoro impossibile, il tentativo di pulire una piazza così enorme. Ne emerge il dramma e la ferita sì di un luogo che ha accolto proteste che si sono spente nella violenza durante il 2013 contro il premier turco Erdogan e la sua scelta di demolire il vicino Takism Gazi Park per costruire un centro commerciale. Soap-Opera è un termine legato al concetto televisivo americano di serial che tra la fine degli anni 70 ed inizio anni 80 imperversavano in TV al posto dei nostrani sceneggiati. Il termine soap opera deriva dal tipo di prodotti pubblicizzati nelle prime produzioni statunitensi, detersivi e saponi di aziende che si rivolgevano al pubblico femminile quale destinatario principale della soap-opera. Il sapone in questo caso pulisce, cancella e cerca di tirar via la sporcizia del luogo. Dallo straccio spurga acqua nera. La cadenza giornaliera e ripetitiva dedicata alle donne la soap-opera, si trasforma da svago televisivo ad azione politica.

Allora possiamo considerare the Breadline, in tutto il suo complesso articolarsi, inerente alla sfera del Mito? Ossia metastorie, narrazioni di possibili esiti a cui l’uomo può guardare per orientarsi?
Quello che ho cercato di fare con il mio progetto è creare una possibile “mappa”, ma come Pollicino sbriciolando le mie granelle di pane mi sono anche persa e ritrovata una miriade di volte. Credo che l’Arte serva proprio a questo a smarrirsi, a porre delle domande, a disfare il mondo e a trovare nuove direzioni e non certezze. Quello che si radica sempre di più alla fine di tutto questo percorso è il proprio pensiero che ha circumnavigato, verificato e che si è fatto strada nella foresta impervia del reale. Orientare le menti non è sicuramente il mio scopo finale, ma mostrare il processo e il percorso questo mi interessa. L’Arte apre una porta cercando di mantenere i piedi saldi a terra, crea delle visioni, forse in questo senso si avvia sulla strada del Mito. Il mito, infatti, si colloca come punto di passaggio tra la sfera del sacro e quella del logos, cioè del verbo, parola creatrice. Girando in lungo ed in largo dal centro di Atene verso la costa del Pireo si incrociano molte fabbriche chiuse, sono come i relitti del cimitero delle barche che ho visto a Eleusi, piccola cittadina subito fuori Atene. I misteri Eleusini hanno creato un corto circuito nella mia testa, ho messo a fuoco subito Demetra dea della Madre terra e quindi del grano – quello che ho cercato anche io – quei chicchi nascondevano un mistero. L’etimologia di questa parola si riallaccia al latino mysterium, dal greco μυστήριον (mystérion), segreto, arcano. L’accezione più diffusa del vocabolo mistero è ciò che è inspiegabile o inaccessibile alla comprensione, alla conoscenza, alla ragione umana, in quanto ne va oltre e che quindi costituisce un segreto. Da una parte sono stata catapultata in un mondo antico fatto di rituali e simboli che in qualche modo cercano di dare senso alla vita terrena; dall’altra mi sono ritrovata in un luogo desolato dove le fabbriche abbandonate sono come cattedrali nel deserto, spazi distopici dove il sole batte sul silenzio di macchinari ormai fermi. Non conviene più lasciare attivo un posto che ha troppi costi di manutenzione, così dopo il 2008 molte industrie sulla costa dell’Attica sono diventate mute, rassegnate al loro destino.

Unione e rottura, compassione e rivolta, illusione e menzogna, tutto il tuo lavoro si basa su un sistema di dicotomie, di opposti che sembrano rincorrersi senza pacificarsi mai…

Credo il mio senso di stare al mondo emerga visivamente nei miei lavori: un’esperienza viva, ironica e a volte con un senso tragico sul fondo. Metto in campo tutti questi elementi, non in modo violento, ma sottile: sono la chiave di volta su chi interagisce con me sia nei miei video, nelle installazioni e nelle performance. L’opera CeMento che ho presentato nel 2019 alla Galleria Nazionale di Arte Moderna per la mostra You got to burn to shine a cura di Teresa Macrì gioca proprio su questo: ho prodotto degli oggetti legati al mare e all’infanzia ma tutti in cemento. Giochi apparentemente di gomma che dovrebbero galleggiare, sprofondano per il loro peso. Il Ce-mento ha distrutto le coste del Belpaese così come la menzogna, il mentire ha connotato la nostra storia politica degli ultimi 40 anni e non solo. L’arte è un paradosso, dramma e ironia insieme. Ha aspetti grotteschi. Provo continuamente a entrare nella realtà uscendo dalla mia intimità di sogno e ovviamente cado. Io amo molto il cinema muto comico delle origini. In particolare la filmografia e l’attorialità di Buster Keaton. Diciamo che come artista sono fortunata perché posso dichiarare apertamente lo “shock” di questa “gettatezza” (il dasein heideggeriano, per intenderci), manifestando apertamente nei mei lavori questa discrepanza fra il mondo interno e il reale.
Mi rivolto dunque siamo scriveva Albert Camus nel suo Uomo in Rivolta del 1951, in un’azione si scopre la dualità, il se plurale. Quella solidarietà cara allo scrittore franco algerino – in cui mi ritrovo – la cui posizione scomoda emerge da una dicotomia con il mondo da una frizione inevitabile che genera pensiero, che mette in crisi il sistema costituito e codificato, la storia e le grandi ideologie. La ribellione e la giustizia generano movimenti apparentemente opposti ma che si nutrono dello stesso percorso.

 

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