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Montorfano | L’interminabile

Il destino di questo giorno mi appare più struggente a mano a mano che le cose si risvegliano e un peso stremato di forze si appoggia al cielo, azzarda delle violenze. La strada, inondata dal vento, è tutta un disordine. L’ombra, un profilo che si lascia bruciare dove più ha paura. Accanto a una chiesa tutta lampi e acqua corrente, appendo i miei segreti. Oggi tutto mi conduce al suo contrario1: il saluto cortese con la mano, la luce che rimbocca il buio, la terra e la perdita, il cielo con un pensiero assassino. Guardo. Persisto. Gli oleandri hanno fiori appassiti. Le bouganville si aggrappano ai muri, scavalcano le recinzioni. Un incendio alto che non termina rende neri i campi, non dà loro riparo. Erba secca e terra secca sono l’ultimo piacere rubato prima che si scateni il diluvio. A mucchi, sul bordo della strada, i gusci vuoti delle cicale dicono che una piccola tragedia si è consumata sotto la giustizia del sole. Le bestie stanno silenziose nelle loro tane. Le pietre misurano i dirupi. Nel cuore di questa felicità, i nemici sono lontani. I resti del muro, buio e decisivo, la prossimità di un pericolo di cui con conosco il nome. Scrivo: è ora di partire. Morire senza odio. E ai bordi della pagina, una scia opaca di sale attende. Teneramente aggrappato al cielo, il mare poco sotto è tutto partenze e segni. I traghetti lentamente lasciano le banchine muovendosi in un grande rumore di motori e sirene facendo spumeggiare l’acqua tiepida, ma una volta districatisi dalle manovre e puntata la prua verso l’orizzonte, tutti i loro gridi si acquietano e se nessuno li guarda sono già ciò che noi siamo quando nessuno ci vede. Qualcuno, rimasto a terra, fissa il pontile sporco di schiuma come la benevolenza dei misteri: sogni, fughe improvvise; il riassunto sbrigativo di ciò che non si vuole affrontare o la possibilità di tutto questo fuori che va alla deriva di snaturare e rifare la natura, di ricreare la creazione. E una campana squilla sul cuore. Una solitudine densa si allarga dove prima era tutta materia aggregata. L’aria porosa, il cielo che beccheggia sparendo nelle onde. Un sospiro di cenere sollevata da un’ultima scintilla come la notte fedele e fresca che sembra annegare tra i flutti silenziosi. È mare questa gioia incontenibile che mostra allungandosi sulla sabbia e coprendo i segni fatti con le mani, le scritte tracciate velocemente con un piccolo bastone pallido o le conchiglie e i sassi, i buchi scavati dai bambini alla ricerca di una fortezza per la loro gioia. Tutta una vita che non cessa di gravitare intorno ai limiti che ne mantengono l’agitazione e l’angoscia, lo stupore e la gloria. Anche là, nel suo lontano, dove brilla a intervalli l’argento delle creste e l’aria si appesantisce incurvando i contorni della terra, tutto è avvolto da una certezza assoluta e la pagina azzurra che srotola sembra sempre offrire un supporto saldo e sicuro senza nessun rischio al crollo.

La paura di essere violentemente abbattuti che compare sull’ombra profonda dell’orizzonte è contenuta dal mare come un precipitato dell’immagine che circuisce e incornicia nella più totale indifferenza contro il tempo fino a una tagliente esplosione, a una nuova misura e una nuova banalità del mondo che si depone lentamente ai suoi piedi.

Forse anche per questo le coste che si alzano imperiose, pronte a cadere sull’ingenuo fracasso dei nostri desideri, mi sono sempre apparse cerimoniose nella loro altezza e quando iniziano a zigzagare in anfratti e punti senza approdo disegnandosi come un frastaglio e quindi come qualcosa di tagliente e acuminato, sembrano mantenere con il mare un continuo fraseggio delicato, come se decifrassero nella massa d’acqua che ne lambisce la base e le colpisce in pieno petto, la dolcezza ostinata che allontana i loro giorni da un’esistenza comune. È tutto mare questo susseguirsi di malinconie. È mare la strana pigrizia che ci sorprende mentre lo fissiamo seduti sulla sabbia e ci inchioda a quell’istante eterno e senza dubbi come se ci vendicassimo di tutte le nostre incertezze. Così inizio a pensarlo con una bellezza segreta che avanza fissando i limiti delle proprie tempeste in un’immensità talmente vertiginosa da scomparire, da inabissarsi per lacerarci. Una catastrofe di fronte alla quale nessuno può chiedere e soprattutto nessuno vuole chiedere. Si spalanca allora qualcosa di grave, plumbeo, che passa continuamente dal piacere all’orrore, tra la malinconia, la tristezza e l’estremo rifiuto verso tutto ciò che ha a che fare con la morte. Due sensi opposti, una contraddizione e una disgiunzione che senza spiegarsi superano questo scarto aprendo uno spazio nel mezzo come una rivelazione e attraverso lo strappo si tengono fianco a fianco diventando complici, spalancando la strana coscienza di un nulla che si spalanca sotto i nostri piedi. Ma cosa significa tutto questo? Che una decisione può fare irruzione nella nostra vita e con il suo evento travolgere tutto? Significa che un capovolgimento, un rovesciamento possono attuarsi in un rapporto con l’altro fino a spossessarsi di sé per meglio trovarsi? Che quest’acqua che entra nella mia bocca e invade i polmoni rendendomi meno di un resto, intima semplicemente l’assunzione di un rischio? Nel mare che vedo, il dentro e il fuori si accostano e si affiancano fino a ignorarsi. E più si chiude, più costringe a farmi come il coltello. La punta e la lama che sorpassano le soglie, le dividono in un prima e in un dopo. Forse in questa chiusura che mostra c’è già tutto se stesso, questo “nulla di nuovo” che si presenta davanti ai nostri occhi: materia brillante, dura e insieme armoniosa e fluida, una nudità affondata e velata dallo spettacolo dei suoi colori e dall’intransigenza della sua massa. Un cortocircuito del senso dove la parola “nudo” mostra una specializzata vocazione alla primarietà educata del vestito. Qualcosa che senza ragione sommerge lo spettacolo dei suoi tesori dando al gesto della vestizione un’importanza inattesa. Nudità e copertura della nudità sono bellezze integrate che rendono la schiusura e la copertura del mare l’oggetto sfuggente della propria vocazione: il sedurre attraverso la dispersione nel linguaggio stesso che lo comprende.

 

Così quando ci mostra la sua nudità, lo fa a prezzo di un totale oblio del nostro corpo che entra in lui, si bagna e si immerge totalmente nella sua trasparenza tutta fatta di angoli da sbirciare, da osservare nella forma più completa dell’erotismo mostrandosi nel ritaglio stesso di ciò che i nostri occhi possono scoprire, la breccia di tenerezza che fa la sua comparsa nel dramma. Il suo denudamento, il suo spogliarsi, è l’indizio e la procedura di un racconto con un’introduzione (l’entrata in acqua) uno svolgimento (l’avventura cucita primariamente sull’inavvistato ossia non su ciò che ci sfida ma su ciò che non immaginiamo, su ciò che nelle nostre ore quotidiane non vediamo e non può essere visto, in altri termini: il dono di un altro mondo) e una fine (il contrario della magia provata prima e che ristabilisce il potere dello spettacolo: la sensazione della gioia unita a quella della sua impossibile ripetizione). Come in ogni racconto, queste tre fasi sono inoltre attraversate da una forza obliqua che le confonde e le spagina tentandole a una guerra che non le fa perdonare. Così l’introduzione è minacciata dal galleggiamento, lo svolgimento dalla bulimia del movimento con i suoi toccare, vedere, molestare, minacciare e la fine oppone al godimento il pericolo di una morte violenta: il soffocamento, la dispersione, l’embolia. Nella sua copertura invece, nel presentarsi in tutta la propria grandezza inabbracciabile, lo svelamento segue un ordine logico temporale. Una costruzione di codici come l’emozione, l’invenzione, la sorpresa. Se anche qui, nel semplice guardarli, si costruisce una narrazione, questa narrazione ha lo scopo di presentare i segreti della superficialità: ciò che corre mostrandosi continuamente e mostrando la probabilità della vittoria e del fallimento. È per questo che la sua superficie, l’epicarpo che avvolge i suoi tesori, restituisce il profumo della libertà: la forza dispiegata verso la conquista in continuo equilibrio tra un delicato disfarsi e una nuova sottomissione. La superficie narra di vittorie e sconfitte, di capricci del vento e ossessioni, di velature che sfiorano l’acqua, di bonacce infinite e pelli arse, bocche arse, bastimenti dispersi e tele stracciate che sbatacchiano sulla loro attrezzatura, tempeste che nessuno potrà raccontare e misteriose comunioni, pianti al cospetto di questo mare infinito, di questo silenzio infinito, pianti sommersi dalla tenebra o nel fragore nero della sua pace, ghiaccio e pioggia, sole e acqua fino a casa, fino alla quiete dei suoi porti.

La superficie dà l’abbrivio al racconto e annoda una relazione che ha come rotta l’avventura e come deriva l’inaudito, qualcosa che produce il dispiegamento di una ritirata frantumazione.

Abbiamo quindi una profondità che si ricopre di angoli, i vertici di una fine e di un esordio, e una superficie mostrata come un segreto che vuole farsi scoprire a prezzo di una colpa e di una gioia. È allora una doppia nudità quella che cogliamo del mare, la nudità che si lascia agitare tra le pieghe del suo vestito e quella che produce un atto di forza nel suo avvenimento. La nudità che si fa celebrare nel proprio nascondimento e quindi dal desiderio, e la nudità che mostra la propria carne e le proprie fessure, pronta a farsi consumare. Due nudità con un tragitto verso i rispettivi opposti. Due visioni come atti innamorati dove l’opposizione di queste due ideologie non può produrre in questo caso che un amore impossibile, un amore condotto attraverso una lunga e complicata partita la cui conclusione sembra alla portata della prossima mossa e, contemporaneamente, per sempre irraggiungibile. Questa complessità degli opposti che si rincorrono e si trascurano attraverso la sola parola sfiorata ha il sospetto di una fragilità che fa scivolare il mistero in un più umano complotto dove l’irreale diviene il reale, il falso, il vero e l’improbabile il verosimile. Così la contraddizione si risolve in intreccio e questo, ormai muovendosi con disinvoltura tra i piani del racconto, si trasforma velocemente in intrigo, in quell’universo infinitamente suggestivo che parla utilizzando l’equivoco e l’ambiguo. L’equivoco che trae profitto da una confusione tra piani distinti e fa intendere l’uno per l’altro: la superficie per un infinito e l’infinito per una profondità. L’ambiguo invece crea quei vuoti e quei buchi nel piano del racconto descrittivo che impacciano l’incontro di un senso, reticenze e una discordia tra termini mantenuta sull’orlo di un precipizio. Ma più di una destituzione, ciò che impone è l’istituzione del fatto che non esiste insignificanza. La minima contraddizione o la minima fuga tradirebbero tutto il cerimoniale di equilibri e di false riconciliazioni. Così la tempesta è il movente per una morte sospesa; la pace, una catena di causa ed effetto; le voci che affondano e i legni delle navi spezzate, il senso che semplicemente lo impoverisce. L’ambiguo attira a sé perché chiede di essere perpetuamente sorvegliato mentre dissimula la discordia aperta facendola oscillare tra il nascosto e la presenza, rifiutando qualsiasi imposizione alla separazione, al dualismo, essendo continuamente in transizione tra la commutazione brutale, lo spasmodico, la propagazione continua dell’ordine dell’ondulatorio. Siamo giunti a un punto oltre il quale si diviene attenti a ciò che fino ad ora si offriva solo come rovescio della possibilità. La nudità, il racconto, l’intrigo, l’equivoco e l’ambiguità ci consegnano il mare come senso del tempo che non si dà più a partire dall’avvenire ma diventa la dispersione del presente che non si rimette ad alcun passato, non va mai verso nessun avvenire: l’incessante. Così potremmo dire che l’oscurità di questo movimento risiede nel suo essere scoperto, nell’essere sempre allo scoperto senza bisogno di scoprirsi, nell’avere già da sempre trasformato in manifestazione ogni movimento di nascondere o di nascondersi.
Allora il mare è l’assegnazione che si frantuma, l’ascendente su cui non c’è più presa; è ciò che tentiamo di indicare chiamandolo approssimativamente: passione.

 

 

Si apre così uno spazio singolare che non ha nulla dell’obbligo e della sottomissione. Non è costruzione né distruzione ma la crepa che corre tra una e l’altra alla ricerca di un tocco, dello sfioramento amoroso. Un bacio o uno scontro, un abbraccio o un incidente fino al punto della sovrapposizione, dell’incastro: la descrizione di una cosa che incrocia attraversando e che abborda come si abborda una nave o un mattino, un’isola, una riva. All’improvviso questa cosa è presente ed è un tenersi fianco a fianco, diventare complici. Qualcosa che si astiene dal piacere della confidenza e attraverso il silenzio costruisce una scia di forse, di tenuità, di passi che si perdono. Se ha un cammino sovversivo che può sembrare privilegiato, la violenza non gli interessa perché ciò che vuole è il luogo di una perdita, di una condivisione sotterranea. Non ha più bisogno di mostrarsi, di dare prove di sé. Una sola occhiata è sufficiente a lasciar passare un’intenzione segreta, talmente segreta da essere impronunciabile. E tutto è insidiosamente ricambiato: ciò che vede dell’altro è esattamente quello che l’altro vede in lui, fa percepire un dentro nella misura in cui percepisce un fuori. È uno sguardo che più che guardare si lascia guardare. Esclamativa, descrittiva, l’interiorità che lampeggia sotto copertura, incatena le cose e le tramuta in scatenamento. Le porta verso un fuori, verso un’intesa umana che crea senza spiegare. Tra le pieghe fluide delle sue onde, il mare si scava mostrando come un incendio la fiamma della propria intimità.

L’intimità di un cielo che beccheggia sparendo tra le onde. L’intimità della sua massa che sposta terre, mondi. La possibilità di un fuori in cui andare alla deriva si trasforma in un dentro segreto dove rifugiarsi contro un esterno in disfacimento, assediante, minaccioso. Un fuori che viene aperto in un “più dentro” in cui ritirarsi, in cui recuperare se stessi.

Da questa stessa possibilità del ritiro nasce la sollecitazione alla condivisione, alla penetrazione, al mescolamento. L’interno che scavandosi diventa il superlativo di se stesso; disfandosi, esaurendosi nel limite, reclama il proprio superamento: un plurale.
Intimo “con”, intimo “tra” è l’atto di forza di una dolcezza infinita. La vita fragile, instabile che cerca di ancorarsi per non scivolare via, così come è apparsa, si cancella. Lascia perdere i calcoli e le ragioni, i fini interessati, l’assicurazione a una tutela. Smantellando questo sistema di sicurezze, l’intimità apre un margine, un’effrazione del fuori in un dentro condiviso. In questa cosa che si sottrae allo sguardo altrui per non essere profanato, l’intimità è il miracolo di un interno ormai irriconoscibile dal suo esterno perché il più segreto è ribaltato in ciò che può legare di più. È un’apertura, l’erotismo di un’apertura che sprofonda, mi spinge, mi urta, portandomi a chiedere fin dove sono disposto a impegnarmi e correre il rischio con lui. Fin dove sono in grado di arrivare, di abbandonarmi, di rovesciarmi per promuovere un più dentro di noi in cui poter esistere. Certo è un’intimità bizzarra quella avanzata da questa cosa azzurra che non parla, fatta di continui sovvertimenti, di parti continuamente attaccate, soppiantate, ferite, ma se c’è una rincorsa, se tra noi c’è questa rincorsa, allora nel presente, nel tempo insopportabile, allora esiste. Esiste perché l’irruzione di ciò che nella paura scorge e si scopre è la stessa nudità che sposa. Questa è un’intimità dell’impossibile. Ma ecco che questo svelamento ruvido, questa battaglia, si rivela già come la più vulnerabile delle affermazioni. Incessante, interminabile, è tanto magica quanto deludente. Intatto, il mare non ha intenzione di fermarsi. Balza in avanti, strappa al mare una collana dove ogni goccia che vola nell’aria diventa una gemma dopo l’altra. La parola discontinua ritorna ai suoi fragili riflessi. Le onde alla lealtà del fondo, alle sue inutili macerie. Nervosa, la superficie copia le ondulazioni del cielo in malo modo; gioca con le distanze, con le grandi partenze verso l’ignoto. Le creste delle onde sono un cuore strappato a raffiche. Io lascio che tutto questo silenzio si plachi. Che il rumore sia un panorama lontano. La cosa sbagliata, la speranza, il fango e la perdita, il gioco di sempre che canta sotto antiche ferite. La spiaggia, la sabbia gialla, l’azzurro tenue e tiepido, lati della stessa barca che nessun colpo di dadi riavvicinerà alla sua chiusura. Numerare gli oggetti, disporre di uno spazio finito, chiudersi, tutto si spegne nell’acqua come se avessimo perso qualcosa che da tempo è già noto. E so che questo è il paradiso che ho sognato per tutta la vita. Legami e gesti messi da parte, la verità, dio, tutto scende per lo scivolo delle correnti e non c’è nessuna nuvola abbandonata a una tavola rotonda, né civiltà né amore. Nessun orizzonte in questo mare che continua a muoversi. Nessuna voce che forza un incontro. O la notte che rompe gli argini dell’inaspettato. Nemmeno questo lungo fragore di tuoni ha la destinazione di una vita. E un vento leggero passa tra l’aria azzurra e profonda di una felicità che non è da nessuna parte, che non ha fine.


1 Oggi tutto mi conduce al suo contrario, è un verso di Á.Gonzáles; in: Carla Saracino, Brevi annotazioni per una biografia, Monolith, Volume II

Si confronti:
G. Bataille, Théorie de la Religion
M. Blanchot, L’Entretien infini
J. Conrad, Typhoon
F. Jullien, De l’intime. Loin du bruyant Amour

P. Larkin, High Windows

Photo by Eduardo Barrios

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