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Pozzi | Una casa qualunque

Come quando i poveracci si buttano sui corpi dei morti per strappargli via le ultime cose che gli sono rimaste addosso, era stato così. Che ai morti in fondo non serve nulla, non c’è viaggio e, se c’è, è nudo e solitario. Non era più quel tempo di faraoni, quando per l’altrove bisognava essere ben equipaggiati, con oggetti transizionali che favorissero la buonuscita dal mondo dei vivi, e l’eventuale buonentrata nell’oltretomba. Tumuli spogli, ora, nessuna conservazione, niente cibo, niente pettini o preziosi. Solo ossa, e un ricordo della carne.

Così i fratelli erano entrati in casa verosimilmente per la milionesima e ultima volta, ognuno con l’intenzione di prenderne un pezzo, quello che gli serviva, quello che faceva comodo. Uno di loro afferrò un forno a microonde seminuovo – per l’ufficio, si giustificò. L’altro raccattò il phon per i capelli “che uno di scorta è sempre utile”, poi qualcuno “lasciatemi la mensola in ciliegio che al limite la vendo su Ebay” disse.
Al limite. Il limite era già stato oltrepassato quando la madre aveva consegnato le chiavi ai becchi ricurvi dell’agenzia immobiliare.
Erano venuti, ruotato quelle loro bocche da pennuti anaffettivi, avevano guardato, dato un prezzo ad alcune cose ed un disprezzo ad altre. Il soffitto con le travi a vista era bello, faceva epoca, le persiane da buttare, il pavimento non era in cotto originale ma poteva andare, il bagno era completamente da rifare.
Il bagno. Vecchio, ma decoroso. Era stato nuovo in principio degli anni Ottanta, era stato quasi alla moda. Al centro della parete più piccola stava uno specchio a conservare pudico le immagini della figlia negli ultimi quarant’anni. Un quadrato bordato di plastica rossa con gli angoli ammaccati che riflettevano male, e tre buchi sul lato superiore, per avvitarci dentro le lampadine. Uno specchio da camerino di teatro, messo lì per illuminare la maschera e ancor più le cicatrici sotto il cerone. Mentre i fratelli profanavano armadi e bauli, la figlia s’inchiodò davanti allo specchio. C’era una bambina, lì dentro, piangeva perché le erano stati tagliati i capelli e la sua testa assomigliava a una mela. Le teneva la mano una diciassettenne barricatasi dentro una notte d’agosto, con una luce piccola a riempire di pensieri un taccuino da regalare al suo primo fidanzato che partiva l’indomani. Poi una ragazza morta di sonno, con le orecchie esauste degli strilli di un infante. Una dodicenne che fissava il sangue sull’acrilico fucsia del costume da bagno. Bambini che si schizzavano nella piccola vasca in fondo, una coppia di amici ospitati in vacanza, un ragazzo dagli occhi liquidi che aveva bevuto troppo, un’amica incinta con lunghe trecce e lunghissima incoscienza, suo padre che leggeva la Gazzetta dello Sport.

Le figure dentro quello specchio erano così tante che ruppero gli argini e sgorgarono giù. Avrebbero potuto prendere forma di bestemmia, di urla, di oggetti volanti, e invece furono liquidi, che – si sarebbe detto – non avrebbero lasciato traccia.

Là fuori, fuori da quel bagno che era completamente da rifare, la fiera della reliquia continuava la sua imbarazzata processione. Oggetti che si convertivano in cifre, misure che misuravano la grandezza dei desideri di un altro, mura da ritinteggiare. La casa. Quattro mura di calcina che si sgretolava, sorte in un medioevo a ridosso del grande castello. Era stato un buon affare, negli anni Ottanta: era una casa da ristrutturare e non la voleva nessuno. Da ristrutturare come oggi, che la volevano tutti. Tranne lei, la madre.

La madre guardava i fratelli con freddezza, dirigeva il traffico del mercimonio, disfava senza pietà quello che aveva costruito lungo un arco temporale che si aggirava sul mezzo secolo e ne dimostrava di più. Le invisibili dita affondavano negli spazi smagliati fra l’ordito e la trama, smaglianti un tempo, e allargavano il tessuto di una storia che era sembrata, fino a quel momento, intoccabile. Seduta su una sedia di cui si era detto che non valeva più nulla, la madre si confondeva con l’Anubi che presiedeva il consesso, i suoi tratti trasmutavano in sciacallo, il naso – a pensarci – era sempre stato lungo, la piega delle gambe era inevitabile come il passaggio tra i due mondi, le orecchie di cane… anche lei sembrava essere lì per pesare il cuore dei presenti, e confrontarlo alla piuma. Aveva forse pesato anche il suo, in un passato, molto prima di accorgersi che non lo trovava più.

 

 

 

L’aveva estratta, quella piuma, dal letto alla francese su cui molti amplessi avevano rifiutato di accadere: inutili drammi piccoli, al loro posto, che avevano lasciato tracce. Qua e là, con casualità o disattenzione. Il letto era da buttare, disse l’Anubi-madre al fratello più grande, il materasso è vecchio, li vedi gli aloni giallognoli verso il centro? Resti di sudate estive, notti affaticate e insonnie, insonnie per l’attesa… L’attesa di che. Di disfare, di disfarsi. Sono questo le storie, tempo che si crea e si disfa, materassi accoglienti che diventano inadatti.

Butti anche quello, grazie. Se vuole le lascio il tavolo, diceva, e i pensieri della figlia appena uscita dallo specchio rosso s’infransero contro il marmo su cui molti bicchieri d’acqua si erano rovesciati durante i pranzi. Il rosso diventò quello dei pisanelli, con la loro polpa che era servita ad arrossare il pane sciapo, farne lussuria d’olio dorato e granelli di sale, parenti di salsedine e pomeriggi di cicale senza freni… Sbaaaam!

Buttare. Non ne deve restare nulla, sembrava dire la madre col suo latrato dall’aldilà, via la carabina, l’antica macchina da cucito con le sue curve notturne, via il mandolino, le pubblicità vintage, i soprammobili kitsch, via il divano… Un regalo di nozze, il divano. Di quelli osceni. Forse lo voleva il vicino.

La figlia, con un profumo di basilico di luglio tra le labbra, si affacciò alla finestra. Per metà rivelava un orizzonte marino e per metà un muro ocra che per anni, numerosi, le aveva offerto il profilo del poeta. Senza dubbio era lui, l’avevano detto molte lune e certi pomeriggi con la luce di taglio e l’effetto di eternità che fa a volte il calore. Il profilo del poeta era estraneo alle quattro mura, apparteneva alla casa ma ne era fuori, non si poteva buttare ma sarebbe rimasto interdetto alla vista. La madre-Anubi non se ne curava. Forse la festa era finita, ogni oggetto era stato destinato, il rogito fissato per il giorno dopo.

I cuori di tutti erano leggeri, più leggeri di quella piuma. Prego, avanti, idonei voi a entrare nel regno, l’agognato “oltre” dove le cose sono soltanto cose, e non portano altri sensi, non portano dolore.
Ma il cuore della figlia. Pesa di più, molto più della piuma. Pesa come quei pomeriggi di estate interminabile, è greve come i costumi bagnati al ritorno dalla spiaggia, faticoso come la salita per arrivare, sotto il solleone, la sua fame, i suoi smerigli taglienti. Pesa come i desideri che non si avverano. Questo cuore non passa, resta fra le reliquie, fra le molte inutili dimenticate e bellissime. Si siede sui gradini, al riparo dal solleone. Osa guardare i profili, le persiane socchiuse da fuori le sembrano palpebre che proteggono dalla luce. Dietro c’è un’iride chiara, una pupilla dal buio di vertigine che non vuole lasciar andare. Occhi negli occhi, si guardano, la figlia e la casa. È solo una casa, adesso, una casa qualunque.


Photo by Scott Webb

 

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