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S. De Giorgi | Il mito degli Argonauti

Lo scienziato e letterato padovano Alberto Fortis (1741-1803), che vive e opera nell’Età dei Lumi, costituisce un personaggio singolare nel panorama settecentesco italiano. Formatosi nell’ambiente culturale vivace della società veneta, Fortis diviene un intellettuale di spessore ed eclettico: non soltanto è letterato, giornalista ed esperto di antichità classiche, ma anche naturalista e geologo.

Questa forma di sapere “trasversale” contraddistingue, in generale, l’erudizione enciclopedica, cosmopolita e interdisciplinare di molti scrittori del Settecento. Nel padovano le varie conoscenze trovano una perfetta attuazione nella verifica scientifica sul campo, resa effettiva grazie alle spedizioni intraprese sulle coste della Dalmazia, all’epoca sconosciuta ai più e possedimento della Repubblica di Venezia, che vi esercita un dominio formale e assente.

Durante e dopo i viaggi compiuti nel mondo slavo, Fortis scrive relazioni e libri odeporico-scientifici con l’intenzione di divulgare le particolarità dei luoghi visitati e i fenomeni naturali che rileva dal vivo. La prosa adoperata dall’autore è brillante, chiara e concisa, capace di restituire nei dettagli immagini di paesaggi che mostrano i segni di antichi mutamenti geologici e di fenomeni legati alla natura del territorio e alla presenza di differenti varietà di piante e di fossili. In più, nei suoi testi vi sono molte digressioni storiche, geografiche e mitologiche, inserite per spiegare la storia dei luoghi o dei monumenti e l’etimologia dei nomi dei territori.

Nel 1770 il giovane scrittore accetta con entusiasmo l’opportunità, offertagli dal politico e botanico inglese John Stuart III conte di Bute[1], peculiare personaggio che le vicende politiche della Gran Bretagna hanno gettato in un «dorato esilio», di svolgere una spedizione ufficiale in Dalmazia. Quest’ultima costituisce uno dei viaggi finanziati da autorevoli mecenati inglesi e dal Senato veneto, da cui scaturisce l’originale scoperta del mondo slavo che è alla base di gran parte della fortuna letteraria di Fortis in Europa. L’opera Saggio d’osservazioni sopra l’isola di Cherso ed Osero è il frutto di quei mesi di viaggio e di studio in Dalmazia.

Specificamente, l’autore padovano parte nel mese di maggio 1770 assieme a Domenico Cirillo[2], professore di botanica e di storia naturale all’Università di Napoli, e a John Symonds[3], storico ed esperto di agricoltura inglese, alla volta dell’isola di Cherso e ad Osero, nella zona del Quarnaro, sulle coste dell’antica Dalmazia, subito dopo l’Istria.

L’incontro con l’ammaliante mondo slavo consente all’autore di scoprire terre dimenticate, di cui l’Europa civile conosce poco. In questo periodo la Repubblica Veneta esercita sulla Dalmazia un governo formale ed è del tutto all’oscuro della decadente realtà sociale del paese. La geografica fisica e umana di quei luoghi dimenticati si offre al viaggiatore settecentesco come un meraviglioso universo da scoprire. Si tratta di un territorio integro, caratterizzato solo dalla vita dei pastori e da piccoli villaggi di pescatori e di commercianti della costa, con larghi tratti di litorale frastagliato ricco di formazioni calcaree, di rocce argillose, di vegetazione spontanea e florida. È un soggetto perfetto per lo studio della storia naturale e per le investigazioni delle vicende geologiche della terra. Dal punto di vista antropologico, il paesaggio dalmata costituisce per lo studioso un’esperienza unica perché è esempio di una società di originaria purezza, tale da sembrare un antico sito colmo di bellissimi resti archeologici.

Fortis pubblica il Saggio d’osservazioni a Venezia nel 1771: in quest’opera vi è un incrocio di affascinanti osservazioni naturalistiche e geologiche rilevate “sul campo” durante il viaggio e di dettagliate informazioni tratte dalle antiche fonti letterarie e antiquarie e dai testi dei geografi, riportate al fine di portare avanti una ricerca filologica e toponomastica utile per rintracciare le più antiche origini storiche delle popolazioni visitate.

Il testo, frutto di un’elaborazione successiva al viaggio svolto in “tempo reale”, è composto da XVIII capitoli. I primi tre (denominati, nell’ordine numerico, Vari nomi antichi dell’isola, e scrittori che ne parlano; Origini de’ vari nomi surriferiti; Suoi abitatori antichi, e sua storia Civile in ristretto) sono appunto dedicati alle fonti storico-geografiche e letterarie classiche e medioevali e alle etimologie dei nomi dei luoghi. Dal capitolo IV, intitolato Divisione dell’isola. Sue città e villaggi, iniziano le descrizioni antropiche, botaniche, geologiche e le “osservazioni” su coltivazioni, prodotti della terra e antiche iscrizioni. L’opera ha dunque una doppia impostazione filologico-naturalistica: lo studio della geologia e dei fenomeni naturali dei luoghi partono dall’analisi del mito e della letteratura. In più, lo scrittore esamina le fonti classiche con un metodo nuovo, interpretandole ai fini della comprensione e della verifica sul campo delle teorie fornite dalla scienza.

Estremamente fluida è la prosa vivace e nitida adoperata nella descrizione dei fenomeni naturali. In particolare, in molti tratti dell’opera Fortis utilizza, soprattutto nella rappresentazione del paesaggio, un raffinato approccio “sensistico-emotivo”, che trapela dalle dettagliate analisi della natura presenti soprattutto nei capitoli geologici. Ad esempio, la visione delle antiche rocce nella «grotta di Ghermosall»[4], nel capitolo XIII intitolato Caverne e Voragini, suscita in lui una sensazione di immenso stupore per l’opera dell’acqua, che ha modellato nei secoli la pietra, regalandole forme estremamente particolari. E i disegni tortuosi e intricati sugli scogli riportano alla mente dello scrittore la figura mitologica dell’«orrenda Cariddi» che «ingoiava e rigurgitava le acque marine»:


[1] John Stuart, terzo conte di Bute (1713-1792), politico e botanico scozzese, finanziatore della spedizione a Cherso e ad Osero.

[2] Domenico Cirillo (1739-1799), medico e professore di botanica all’Università di Napoli.

[3] Il cavaliere John Symonds, laureato in giurisprudenza, esperto di storia civile e georgofilo.

[4] Ghermosall è l’antico nome di una grotta nei pressi della città storica di Osero.

E qui opportuna cosa è il rimarcare, che anche le punte delle roccie, che restano a nudo su la superficie del colle intorno a queste caverne, nella maniera medesima sono intersecate da fori, e andirivieni, e cavità, le quali benché ripiene di terra, e mezzo coperte d’erba, non si nascondono però ad una vista sufficientemente avvezza a distinguere l’opera de’ flutti. Chi sa mai qual orrenda Cariddi ingoiava, e rigurgitava l’acque marine da’ que’ concavi scogli subacquei, ne’ secoli rimoti, più antichi delle storie, delle favole, e fors’anche d’ogni ardimentosa congettura degli uomini?

La descrizione delle rocce viene realizzata secondo un procedimento sinestetico che unisce la scrittura alla pittura. La rappresentazione delle punte pietrose, «intersecate da fori, andirivieni e cavità», è talmente meticolosa da poter essere immaginata da un potenziale lettore. È così che il viaggiatore scienziato dona, mediante la scrittura, una vita propria alle forme degli elementi naturali. Molte altre descrizioni paesaggistiche, nel testo, si evolvono in maniera pittorica.

Valido esempio di come il mito, nell’opera fortisiana, si colleghi alla volontà dell’autore di ricercare le origini storico-naturali dei luoghi è la sua interpretazione dell’antica leggenda degli Argonauti.

All’inizio del Saggio d’osservazioni vi è, infatti, la descrizione della celebre storia di Giasone e dei suoi compagni e del loro viaggio nel Mar Adriatico, su cui val la pena soffermarsi per l’originalità dell’appassionata esposizione della trama mitologica (di cui si occupano comunque anche numerosi geografi e cronologi latini e greci o grandi geografi contemporanei all’autore). In particolare, il padovano formula un’interpretazione dettagliata del mito in chiave storico-geologica, partendo dall’etimologia del nome antico delle isole «Apsirtidi», testimoniato da Apollonio Rodio, per giungere a spiegare così la fondazione, in particolare, della città di Osero sull’isola di Cherso. Il nome «Apsirtidi» deriva da «Apsirto», fratello di Medea, figlia del re Eeta dei Colchi, la quale si innamora perdutamente di Giasone.

Secondo il mito riportato nel Saggio d’osservazioni gli Argonauti, cavalieri erranti, intraprendono un lungo viaggio marino alla conquista d’una preziosa veste, denominata il «Vello d’oro», la cui fama, all’epoca, va dalla Colchide fino in Tessaglia. Giasone, capo di questa impresa, s’imbarca su una nave non molto grande con i più coraggiosi giovani della Grecia e getta l’ancora «felicemente» nel fiume Fasi, l’attuale fiume Rioni che attraversa la Georgia e sfocia nel Mar Nero. Giunti dunque in Colchide, terra situata nella periferia misteriosa del mondo conosciuto, ossia sulla costa orientale del Mar Nero, Giasone e i suoi si impadroniscono del «Vello d’oro», conservato nel bosco sacro dedicato ad Ares, sottraendolo al re Eeta. Medea, innamoratasi perdutamente di Giasone, lo aiuta nella conquista del prezioso cimelio e fugge con lui sulla nave Argo. Suo padre Eeta, adirato, spedisce subito una flotta di navi ad inseguire gli Argonauti: su una delle imbarcazioni vi è il condottiero Apsirto, anch’egli figlio di Eeta. Gli Argonauti, usciti dal fiume Fasi, approdano dopo qualche giorno in Paflagonia, sulle coste meridionali del Mar Nero, ma, credendo di non essere al sicuro in quella zona, si consultano tra loro per decidere il da farsi. Fortis scrive che fino a qui «non v’è nulla di stravagante» nel racconto: è da questo punto in poi che iniziano gli accadimenti singolari che più interessano lo scrittore, il quale intende spiegare l’origine del nome «Apsirtidi» e la storia della fondazione di Osero.

Uno dei compagni di Giasone che è anche timoniere e il cui nome è Argo, dichiara di aver sentito molto parlare di un complicato percorso interno che passa dal fiume Danubio, risalendo il quale è possibile giungere, attraverso un determinato affluente, nell’Adriatico. Argo è particolarmente edotto circa le rotte marine e fluviali poiché ha avuto occasione di consultare le mappe egizie. La proposta viene accolta dagli altri Argonauti, i quali intraprendono subito la via del Danubio, ascendendo il fiume fino alla sua divisione con l’affluente in comunicazione con l’Adriatico. Intanto anche i Colchi partono per inseguire gli Argonauti: una loro squadra giunge nella Propontide (attuale Mar di Marmara), attraversa l’arcipelago e arriva in Epiro, ma un’altra flotta, quella condotta da Apsirto, segue una rotta più breve e previene gli Argonauti giungendo nell’Adriatico dall’affluente che «bagna il lato meridionale dell’Isola di Peuce»[1] e impedendo così ai fuggiaschi ogni sbocco sul mare. Anche Apsirto e i suoi dunque sono al corrente della rotta di navigazione dal Mar Nero all’Adriatico attraverso il Danubio.

Dunque, Giasone e i compagni trovano i Colchi già stabiliti «nell’Isola di Cherso e d’Osero»[2], abitata in quel tempo dai Brigi[3]. Dopo essere giunto nel Quarnaro, Apsirto fa realizzare subito una fortezza proprio dove sorgerà, in seguito, la città di Osero (attualmente Ossero). Gli indigeni del luogo, i Chersini, sono d’indole onesta e dichiarano di voler aiutare il figlio del re Eeta, che, secondo loro, ha una giusta causa. Ciò, secondo Fortis, fa molto onore agli antichi abitanti di Cherso. Questa alleanza sembra spaventare molto Giasone e Medea. Ad un certo punto Apsirto manifesta l’intenzione di voler venire a patti con gli avversari e Medea approfitta delle sue buone intenzioni per ingannarlo, persuadendo Giasone ad aderire a un tradimento. Allora i due amanti fanno dei regali ad Apsirto e lo inducono a presentarsi presso il «Tempio di Diana» per un colloquio con Medea. Apsirto si reca presso il luogo stabilito e Medea lo inganna raccontandogli «mille bugie»: ad un certo punto Giasone, il quale era rimasto nascosto, piomba a spada sguainata sopra il giovane principe.

Fortis racconta che Medea «l’iniqua» si volta dall’altra parte per non guardare l’assassinio del fratello. Il figlio di Eeta cade in ginocchia sulla porta del tempio e, un momento prima di spirare, getta con le mani il sangue della sua ferita su Medea, la quale, vestita di bianco, resta macchiata. Questa azione tragica avviene, secondo lo scrittore, poco lontano da Neresine[4] e probabilmente le ossa di Apsirto sono conservate in un luogo sconosciuto situato proprio in quella zona. Dunque, il nuovo nome dell’isola deriva dalla triste storia dell’assassinio di Apsirto: da questo momento in poi non più «Brigeide» o «Isola di Diana» è chiamata l’isola di Cherso, ma «Apsirtide», e così anche quelle dell’arcipelago intorno. I Colchi, dopo aver perso il loro condottiero, decidono di non far ritorno in patria poiché temono l’ira del re Eeta e restano per un po’ incerti su cosa fare. Frattanto gli Argonati vanno via: attraversano l’Adriatico e giungono presso un’isola vicina alle foci del Po.


[1] A. FORTIS, Saggio di Osservazioni, §. III.

[2] Ibidem.

[3] Brigi: antica popolazione dell’Illiria.

[4] Neresine (in croato Nerezine) è un insediamento di Lussinpiccolo nell’isola di Lussino.

 

 

I Colchi cercano di inseguirli, ma, racconta Fortis, Giunone, che «secondo il costume delle dee antiche è protettrice di chi ha il torto, scatena tutte le meteore più atte a ritardare un progetto di viaggio marino»[1]. Dato il clima sfavorevole, i Colchi scelgono di non partire più e si stabiliscono tra gli isolani di Cherso, nella vicina Istria e sulla costa dalmata, mentre altri raggiungono i compagni in Epiro.

Apsirto aveva già fondato la «rocca d’Asirzio» proprio nel luogo dove è ubicata l’antica Osero: quindi il nome «Apsirtesi» si diffonde rapidamente per designare gli abitanti del luogo e il termine «Apsirtidi» viene dato in particolare all’Isola di Cherso e a quelle intorno. In tale zona i Colchi si insediano, senza litigare con i cortesi Chersini, che sono invece dislocati nella parte settentrionale dell’area.

Questa è la storia narrata da Fortis per spiegare l’antico nome dell’isola e la sua fondazione. L’autore, nel Saggio d’osservazioni, dichiara di riprendere il mito degli Argonauti principalmente da Apollonio Rodio, il quale appoggiandosi alle conoscenze geografiche dell’epoca in vive, immagina che gli Argonauti siano entrati nel Danubio attraverso il Mar Nero, e che, risalendo prima la corrente per il ramo orientale e, successivamente lungo l’altro braccio, abbiano navigato verso occidente fino ad arrivare nell’Adriatico. Ma, come già spiegato, i Colchi, guidati da Apsirto, intraprendono una rotta marina più corta e giungono prima a destinazione.

Dopo la narrazione del mito degli Argonauti, lo scrittore padovano deduce che «l’arena fluviatile» che si trova in alcune delle isole minori del Quarnaro e, in particolare, a Sansego, si collega con l’esistenza in età antichissima di un fiume, che equivale al tratto fluviale che unisce il Danubio all’Adriatico. A questo proposito l’autore cita le seguenti fonti nel capitolo XVII:

 

Scilace Cariandeno, il più antico frà geografi, nel suo Periplo del Mar interiore, ha lasciato scritto, che «oltre i veneti, vi è la nazione degl’istriani, e il fiume Istro, che mette foce anche nel Mar Nero». E Scimno Chio, i di cui frammenti ingiustamente furono attribuiti a Marciano Eracleota:

«L’Istro discende da lontane terre

Occidentali, e nel Mar Nero in cinque Rami diviso mette foce. Un altro

Ramo di lui nel mar d’Adria si porta,

Ben conosciuto addentro infin da’ Celti»[2].

 

Le antiche citazioni geografiche acquistano un significato originale per Fortis, il quale oltre a valorizzare l’aspetto del mito, realizza una mappa letteraria degli scrittori storici e geografi che hanno dato per buona l’esistenza del tratto d’acqua tra il Danubio e l’Adriatico. Sembra quasi che, per un momento, nell’addurre testimonianze scritte dell’antica esistenza del fiume in questione, lo scrittore si lasci trasportare dal potente fascino di tale leggenda geografica e ammetta così la presenza, in un lontano passato, dell’antico ramo fluviale.

Il padovano d’altronde non contrasta né conferma l’effettiva esistenza del fiume, ma riporta le antiche e coeve fonti, facendo una serie di riflessioni e di ipotesi:

 

Plinio non era così dimostrativamente convinto della impossibilità dell’antico fiume istriano, come a prima vista potrebbe sembrare peravventura. E di fatti qual è il geologo assennato, che francamente ardisca negare la possibilità di ciò, che dipende da rivoluzioni fisiche, delle quali abbiamo sotto gl’occhi ogni giorno gli esempi?[3]

 

Per Fortis non si può negare la possibilità di ciò che dipende esclusivamente da rivoluzioni del globo terrestre avvenute in un passato remoto. Egli, volendo risalire alle vicende più antiche del pianeta, applica il metodo secondo cui dall’esame critico delle «fiabe», cioè della poesia e del mito, si possono ricavare congetture sulla storia fisica della terra. Questa indagine eziologica trova ispirazione in un metodo settecentesco noto grazie all’opera di Nicolas Boulanger[4], secondo il quale le «fiabe» degli antichi sono formulazioni allegoriche, o antropomorfizzazioni, di eventi naturali veramente accaduti e di cui si sarebbe persa ogni memoria storica. Per il padovano esiste, dunque, una stretta connessione tra la storia della terra e la storia delle nazioni (di cui fa parte la mitologia).

Il Saggio d’osservazioni dimostra come l’interpretazione del mito sia per l’autore strumento fondamentale per la verifica o per il rigetto di ipotesi particolari e di teorie della terra. Infatti, l’argomentazione, nell’opera del 1771, in termini storico-geologici della spedizione di Giasone e degli Argonauti è una versione interpretativa originale e dettagliata di una leggenda antichissima. La mitologia è essenziale anche perché fornisce al naturalista informazioni determinanti in rapporto alla storia naturale, ragion per cui egli non avverte una frattura tra erudizione storico-scientifica e interpretazione filosofica del passato. L’antica storia del viaggio marino degli Argonauti attraverso il ramo fluviale danubiano assume, nella narrazione di Fortis, i tratti di un mito autorevole e intrigante indagato al fine di spiegare l’origine delle Isole «Apsirtidi».

Interessante è anche un’altra deduzione del padovano, il quale aggiunge, dopo aver narrato l’impresa degli Argonauti, che dalla tradizione legata ad Apsirto deriva probabilmente anche il nome della «Punta Sonte»[5], tratto di costa sporgente sul mare e ubicato accanto al luogo dell’assassinio del giovane principe:


[1] A. FORTIS, Saggio di Osservazioni, §. III.

[2] A. FORTIS, Saggio di Osservazioni, §. XVII.

[3] Ibidem.

[4] Nicolas Antoine Boulanger (1722-1759), filosofo e ingegnere francese.

[5] Probabilmente si tratta dell’attuale Punta Križa.

E forse dall’antica tradizione è venuto, passando da lingua a lingua, il nome conservato tutt’ora della Punta Sonte, che presso il luogo, in cui par che debba esser accaduto l’assassinamento d’Absirto, sporge un cotal poco in mare. Non è impossibile che questa punta abbia avuto pel delitto di Giasone anticamente il nome di rea, come lo ebbe molti secoli dopo il Voltone Scellerato a Verona, e, per analoghe ragioni, qualificazioni consimili la Porta, la contrada, il campo, la via presso i romani[1].

 

È probabile che «punta Sonte» dopo la morte del figlio di Eeta abbia assunto l’appellativo di «rea», in quanto territorio “testimone” di un delitto innocente. È dunque così che il mito spiega i nomi dei luoghi e la storia fisica della terra.

Se da un lato nel Saggio di Osservazioni sono predominanti la presenza di teorie scientifiche e geologiche settecentesche, la ricerca erudita, la riflessione sulle condizioni civili, economiche, agricole dei luoghi, le minuziose descrizioni botaniche, dall’altro non si può non evidenziare la vastità di rimandi ad importanti miti e a valenti scrittori antichi e moderni e l’accuratezza delle descrizioni del paesaggio del Quarnaro, di cui alcune elaborate con eccellente sensibilità pittorica. Spiccano inoltre l’acume critico di intuizioni sulla natura e un’affascinante meditazione geologica sulle età della terra che si sono avvicendate nei secoli e che partono dalla semplice osservazione concreta del mare e delle rocce.

Il libro, nonostante le sembianze ingannevoli di trattato erudito, è scritto con una straordinaria complessità linguistica e contenutistica, tipica di quella che diverrà la nuova scrittura scientifica italiana, destinata non solo alle élite di esperti, ma anche al nuovo pubblico di lettori appassionati delle nuove scoperte nell’ambito della scienza e dei viaggi.

Infine, il Saggio di Osservazioni rappresenta anche un laboratorio sperimentale al quale l’autore attingerà per comporre la più celebre opera Viaggio in Dalmazia (1774), che avrà gran successo e che renderà noti, una volta per tutte, i caratteri della Dalmazia al popolo italiano.

 

[1] A. FORTIS, Saggio di Osservazioni, §. III.

Photo by mari lezhava

 

 

 

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