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Saracino | Introduzione al mare

Esiste nella parola mare, nella sua breve consistenza di suono salino, una spina. Una sorta di presenza antagonistica ma istintiva ed ereditaria. Potremmo riferirci ad essa come a un dolore, una trafittura arcaica, venuta allo stato reale della storia, compromessa tra le crepe dei secoli, appuntata all’occhio incantato dei poeti. In fondo, il mare le deve il fascino che esercita. È una spina vagante, una lacrima, la metafora del desiderio inarrivabile, la nostalgia per qualcosa che mai è avvenuto. E il mare la incorona, col suo moto perenne, con le sue ondine nomadi alla controra, l’acquazzone che tamburella sull’acqua, o i fondali fitti dell’inverno. Anche quando è navigato, battuto, solcato, il mare si rifà alla sua spina: la tiene in pugno o lei si offre al suo palmo e insieme navigano giovani tra le terre. Questo stare mediterraneo, sciolti, come liquefatti, al sole di una unione è forse la trama che ha mosso generazioni di poeti greci a scrivere intorno al mare. La vita che schiantasti in questa tana/breve, in tutta la terra l’hai persa, in tutti i mari. Costantino Kavafis (1863-1933), lo scrivente della Vita, colui che non separa il mondo degli uomini da quello delle acque, colui per il quale il tempo è una clessidra che zattera tanto nel mare quanto nelle tenebrose camere, è poeta che incoraggia a trasformare con saggezza ciò che rischia (se non siamo accorti, ravveduti) d’incenerirsi tra le nostre mani.

Il suo mare è dunque metro della dispersione vanifica o dell’occasione perduta, se un faro nella martoriata infermità della tempesta non ci guida, offrendo nuova luce.

E’ con dell’acqua marina che il poeta Nikitas Randos (1907-1989), nella bellissima poesia “Villa Asphodela”, annaffia capelli d’un colore /d’un ritmo che ricordi le chiome delle poche teste che ho veramente amato. Perché esiste – ed è certo – nella goccia di mare un’elegiaca misura, partitura che nutre, preserva, testimoniando di chi non c’è più. E il tema del viaggio non può che avvenire per mare. È lui il custode e il confessionale, materna e paterna effusione di una ricerca filiale. Chi è per sempre filiazione di sé stesso, per eccesso di amore verso la Vita, non può che guardare al mare con lo stesso rispetto dovuto ai genitori: paura e piacere, spina e beatitudine. Scrive Giorgio Seferis (1900-1971): Lascia, se puoi, viaggiare le tue mani/sul margine del tempo con la nave/che toccò l’orizzonte. È un luogo-limen: raggiunto l’orizzonte, si varca un nuovo ignoto, che si moltiplica tra altri ignoti e le linee del tempo sono le rughe increspate dell’onda; la rapida scossa della corrente è una traccia da inseguire. È nel suo foglio azzurro la spina dolente e gonfia di speranza dei poeti greci. È lui la rappresentazione più prossima a uno stato di disperazione empatica col mondo. La tragedia dell’essere mortali, il tempo divelto dagli eventi della vita, l’anello del sole che va tingendosi a poco a poco di un’appannata sera, sono le narrazioni che il mare personifica. Ma al contempo è in lui l’esultanza dell’immagine unica, la più auspicata, l’augurio del progetto, della costruzione di ciò che si spera un giorno accada.

 

 

Così l’uomo di mare, il greco per eccellenza, o la creatura mediterranea, è naturale si rivolga a lui con la letizia e la responsabilità di un’invocazione religiosa. Finché una volta il fondo del mare con tutto il suo plancton invaso di luce/ Si rovescerà sulla mia testa. E altre cose fino ad allora non svelate/Appariranno come viste attraverso la mia carne. È la profezia luminosa, quasi iconica, di uno dei massimi poeti greci, Odisseas Elitis (1911-1996), il cui respiro lirico è esso stesso grafia marina. Perché vi è nei greci una inclinazione alla fecondità del pensiero misto alla lussuosa carica dei sensi da cui è possibile inaugurare un vero e proprio studio sul mare: Mare, mare/i libri non chiudono la questione/la questione non chiude la ferita./ Dalla nostra ferita incomincia l’oceano. Ghiannis Ritsos (1909-1990). Rivolgersi al mare ha il sollievo liberatorio della tristezza che si frantuma in uno sfogo e che si appiana nel balsamo della consolazione, nella fiducia all’abbandono. Il mare ascolta, apprende, accoglie e lenisce le ferite.

Può assumere la solennità di un oceano e allora segna il trapasso: la nostra piccola indigenza si può smarrire tra le sue acque, infinitamente perdersi, consumarsi nelle doglie di un parto sconosciuto.

Dev’essere per un gesto naturale, come un braccio levato al cielo, o un sorriso rivolto, che i poeti greci decantino quanto è parte della loro fisionomia geografica: un humus ricco di sostanza marina che si traduce in un ventaglio di isole puntellate di nomi arcaici. Eppure, c’è dell’altro. Chi nasce sul mare, si nutre fin da bambino di una non ben definita idea di fuga. Una fuga “dell’istante”, non progettata né bene indicata, una sorta di distanziamento da sé e dagli altri, mirato a coltivare nel chiuso di una pietra solitaria il miracolo dell’acqua. Esiste in chi nasce sul mare una disposizione al distacco dal contingente, l’attuale, il dispotico scorrere del tempo fiaccato dai mirini della società. È un’evasione che trae passione e forza dalla visione, l’unica immagine, la nuda religiosità del flettersi delle onde: la loro ripetitività da secoli non muta. – Nessuno ha mai pensato/ come ha resistito tutta questa acqua/ a secoli di sole/ disse il pesce/mentre mi tuffavo./ Il mare/ sono le nostre lacrime nei secoli. Ghiannis Varveris (1955-). Ciò che non cambia diventa tradizionale, come nei miti ogni genesi e la rispettiva lotta per integrarsi nel mondo. Il mare è tradizionale, perché custode di sé e del suo essere avvenimento: immodificabile. Malgrado nel suo movimento sia suscettibile di sbalzi improvvisi, destinazioni impreviste, ingenti minacce, il mare non è sostituibile. È sempre lì, a compiere un atto di fida risposta, a custodire le nostre confessioni, a ricordare che non esistono le età ma i corpi e che i corpi possono scavalcare il loro stesso confine: diventare d’oro, tergersi di sapienza, scontrandosi contro il vuoto, la mestizia del sangue quando cede al ricatto.

 

 

Il mare è l’umanesimo delle estati, quando il sole penetra nei ceppi accesi degli scogli e li sperpera nello sguardo del passante. È la terra di ogni possibile incontro e integrazione. E chiunque oda una voce provenire dal mare, ha il dovere di risponderle.
Questa implicazione – questa relazione – potrebbe preludere a un progetto di costruzione di una lingua del mare. Una scrittura azzurra e distesa, in rapporto con la terra, che non cessi di dirci qualcosa, un seme da raccogliere, un istinto da decifrare. Forse il mondo perduto del coraggio, la prova del fatale atto di umanità che porge la mano a un’altra mano, senza infingimenti, senza fobie, senza la tentazione degli egoismi.

Se il mare è un libro da sfogliare, un’opera interpretabile all’infinito, le riserve di creazione allora si fanno interminabili: nel suo manoscritto di acqua e luce, c’è il genius loci della costanza, o la resistenza a saper apprendere quanto di più possibile è realizzabile tra gli uomini.

Forse, è del mare la vera lingua veicolare. Al ritmo del suo vertice che si avvalla nella spuma infranta sulla roccia, si fa l’ordine di un tempo; nella sua metrica, esistono le regole per vivere, per dosare i modi, gli stili, gli atteggiamenti, le scelte dello stare nel mondo. Devo trovare una lingua/Che sia adatta alle voci/Quando tramonteranno i sensi/E si sveglierà il sentimento/Quando metterò l’unghia/ Nelle ferite, la corona di spine/ Sui capelli. Alèxandros Isaris (1941-) È la seconda lingua la nostra ambizione: l’ambizione di ogni uomo che abbia a cuore la vita. Una lingua seconda che ricrei il nostro desiderio e ci renda degni della morte che incontreremo. Il mare è una lingua possibile. Nelle sue teche, affondate nei fondali dell’inespresso, respira ogni vocabolo. Interpretandone il suono e il significato, l’uomo può entrare nell’esperienza e incontrare veramente il suo simile, accendere il confronto, la lotta, la ricostruzione, la pace. Occorre molta pazienza e occorrono i secoli della ragione? Sicuramente. Ma i poeti greci hanno iniziato a farlo. La letteratura greca del Novecento è uno sprone a seguire i passi del mare, affidarsi, vivere in sintonia con i suoi gorgheggi, sciabordii, richiami. Nei fonemi del mare, gli echi di un vivere adulto che guarda all’infanzia degli istinti e alla maturità necessaria per orientarli. Una lingua devota, affabulante, che emerge dalle intemperie, si rasserena – ci rasserena – , permettendo di evolverci nella sua integrità. Come tutte, attende d’essere pronunciata. Che l’atto rivoluzionario dell’enunciato si manifesti.


*Il titolo ricalca quello di un saggio di Odisseas Elitis, Progetto per un’introduzione all’Egeo, edito in Italia da Donzelli.

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