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Squarcina | Elogio del navigare

Questa notte la luna disegna scaglie d’argento sul mare. In lontananza le ultime luci della costa e nella mente risuonano le parole di De Maupassant: “Nous voila glissant sur l’onde, vers la pleinemer. La côte disparaît; on ne voit plus rien autour de nous que du noir. C’est là une sensation, une émotion troublante et délicieuse: s’enfoncer dans cette nuit vide, dans ce silence, sur cette eau, loinde tout”. Il silenzio, reso percepibile dallo sciabordio dello scafo nell’acqua, mi circonda, forse mi penetra. Perché sono qua?

Perchè ostinatamente ripeto appena possibile questi gesti? Forse proprio alla ricerca di questo grande vuoto, alla ricerca del vuoto interiore.

E’ forse una forma di dipendenza? E quando è iniziata? Quando potrò liberarmene, se vorrò liberarmene? Ed ecco che appare la faccia da briccone di London a rispondere: “se l’individuo è nato marinaio ed è andato alla scuola del mare, mai più potrà distaccarsene. Il sale dell’Oceano penetra nelle sue ossa e nelle sue narici, e il mare lo chiama, lo attira fino al giorno della morte”.

La pressione leggera delle onde sul timone si trasmette alla barra e il mio braccio, ritmicamente, la asseconda e la piega al volere della bussola. Navigare è una fuga? Forse dalla società, ma non dall’ambiente, che mi penetra con i suoi suoni leggeri, con la percezione del vento che sulla fronte dichiara la sua direzione e l’intensità, con il ritmico beccheggio che mi parla dell’instabile elemento liquido che mi supporta. Il taciturno Tabarly ammonisce: “Le bateau n’est pas, contrairement à ce qui immaginent certains, la liberté. Naviguer: c’est accepter des contraintes que l’on a choisies. C’est un privilège. La plupart des humains subissent les obligations que la vie leur a imposé” e proprio qui, lontano da tutti, mi sento più vicino all’umanità, forse perché misuro la mia piccolezza, ne tollero i difetti, m’immedesimo nelle frustrazioni, ne perdono le bassezze, ne capisco le paure.

Ieri il vento, fraterno, crudele e irascibile compagno, ne ha fatta una delle sue. In tarda mattinata ha cambiato improvvisamente direzione e con veloce progressione è montato cospargendo l’acqua di increspature di metallo fuso, adornando il vertice delle onde di bianche creste da cui ben presto strisce di schiuma sono venute a colpirmi con l’intensità di ghiaia scagliata con forza, fischiando ferocemente tra le sartie, maltrattando le vele in bando. All’albero per prendere i terzaroli, mentre le mani lottavano con la tela riottosa, mentre il dubbio iniziava a trasformarsi in paura, ho voltato lo sguardo oltre la murata, verso le onde traslucide di sole e una voce interiore mi ha sorpreso: “quanto è bello!”.

Navigare è inseguire un’emozione estetica? Forse sì, o forse è l’attesa di momenti esteticamente disorientanti, l’apparire del sole all’alba, l’improvviso emergere di un capodoglio, il rumore di un’onda che frange, il guizzo tra le onde di una procellaria senza batter d’ala, rompono certezze.

Forse come l’uomo libero di Baudelaire cerco nel mare e in certi momenti che improvvisamente regala, lo specchio in cui contemplare il mio animo.

O forse la sensazione estetica che cerco non è quella delle improvvise illuminazioni, ma quella del sentirsi in sintonia, dell’adattarsi al respiro dell’universo. Adattarsi al placido cullare del mare, o ai suoi scoppi d’ira, adattarsi a sfruttare il vento leggero che accarezza le vele o a parare la sua furia, adattarsi al sole a piombo che vorrebbe liquefare la volontà o al freddo che penetra fino a cancellare la coscienza di sé.

Adattarsi è fuggire dalla condizione di artificializzazioine della nostra vita? Tempo fa, durante una lunga traversata, uscendo per il mio turno al timone, improvvisamente ho avuto coscienza del buio. Un buio assoluto, senza incomodo di stelle o di luna, qualcosa che noi umani dell’antropocene non conosciamo, che togliendo alla vista dona agli altri sensi. Improvvisamente sono stato proiettato indietro nel tempo o forse, chissà, nel futuro.

Adattarsi equivale ad entrare nel pianeta e percorrerlo in punta di piedi. Mentre navigo e osservo i riflessi della luna costruire effimeri gioielli d’argento, la mia barca, la mia piccola barca, è spinta dal vento, dal respiro della terra; solo un solco leggero, che subito a poppa si richiude, segnala il mio passaggio. Solo il verde e il rosso delle luci di via altera di tanto in tanto la superficie nera dell’abisso. La temperatura notturna mi permette di spegnere il frigorifero per preservare energia, le stoviglie della cena frugale sono nel secchio in pozzetto in attesa che la luce diurna mi permetta di sciacquarli nel mare preservando la preziosa acqua potabile, sono in punta di piedi, ho l’impressione di respirare piano per non alterare la sinfonia dell’universo e la mia barca, la mia piccola barca, è un piccolo mondo che cerca di mantenersi in equilibro con il pianeta che l’accoglie, è, come ricorda Foucault un’eterotopia: “se si pensa che dopotutto un battello è un frammento di spazio galleggiante, un luogo senza luogo e che è affidato al contempo all’infinità del mare e che, di porto in porto, […] da una casa chiusa all’altra, si spinge fino alle colonie per cercare ciò che esse nascondono di prezioso nei loro giardini, voi comprenderete perché il battello è stato per la nostra cultura non solo il più grande strumento dello sviluppo economico, ma anche la riserva più grande dell’immaginazione. Il naviglio è l’eterotopia per eccellenza”. Il mare non è più uno spazio da attraversare per raggiungere un altrove, ma è esso stesso un altrove, dove vivere o dove sognare di vivere in modo diverso. In questa notte la prua che taglia le onde sussurra le parole di Florence Arthaud:

“New York non è più che un ricordo. Il lusso e le comodità sono alle spalle ma non ne sento la mancanza. Sono a casa mia, nel mio contesto. Non ci sono più obblighi, a parte quelli dettati dal mare e dal vento, la disciplina è completamente diversa.

Niente più chiacchiere, finita la marea di gente, le strade, i viali trafficati, finito il brusio delle notti cittadine, le luci, gli appuntamenti, gli orari, il telefono, le false apparenze. Finita la civiltà, i sogni di chi vive a terra, le leggi sociali, i poliziotti, le multe, i limiti di velocità, le frontiere. Qui la libertà è totale, la rotta è davanti”.


Photo by Austin Neill

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