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Tolusso | 1977

L’immagine di mia madre seduta davanti alla toletta per il trucco, di tanto in tanto mi assale come il fumo della sigaretta che sbolliva davanti allo specchio. Mia madre parlava e parlava, io sentivo un suono cotto nelle orecchie, non potevo fare a meno di ascoltare. A dodici anni inizi a non sopportare molte cose, mentre la vita è ancora tutta in salita. «Gesù, che testa calda ha Max. Magari facciamo solo un giro in piazza e se torno prima di mezzanotte festeggiamo insieme il 1977. È un bel numero, il 1977». L’aveva detto portando la sigaretta alle labbra e aspirando profondamente. Poi aveva chinato la testa cotonata e rovesciata all’indietro sbirciando al contempo il mio viso: «Oh be’, non è la prima volta che mamma esce». Io non ero affatto triste, anche se sospettavo che essere sempre allegri fosse un imbroglio, chi spera sempre il meglio cresce tradito dalla vita. Quello che mi importava, tra i ruggiti dei botti in anticipo come una sveglia impazzita, era guardarla. Era chiaro che non gradiva essere interrotta nel suo felice rituale, qualcosa che aveva a che fare con ombretti, pettini e polveri sottili. «Da’ qua. Faccio io» disse dopo avermi sottratto la spazzola che le avevo rubato per pettinarla. Qualunque fosse la sua missione mia madre era bellissima e in quell’istante mi sembrava ancora più bella, oltre che pericolosamente stupida: «Trovata!» urlò con foga dopo aver raccolto la sigaretta caduta a terra. La infilò in bocca e sbuffò il fumo al suo solito modo, stringendo oltremisura le guance mentre le narici esalavano due righe di vapore. Max l’aveva conosciuto durante i lavori di ritrutturazione della villetta di fronte al nostro condominio e lui aveva perso la testa, ormai ogni week end si presentava alla porta con un mazzo di rose ed era abbastanza vigoroso per desiderare di essere padre. Lei non era mai stata granché come casalinga, la moquette sabbia era decorata da diversi crateri color ruggine che chiedevano pietà al supplizio dei mozziconi.

Era il tipo di donna indubbiamente più adatta a consigliarti un rimedio contro l’insonnia cronica piuttosto che suggerirti l’eccellenza di un detersivo.

«Che mi sta meglio? Gli orecchini verdi o argento?». Detto questo mi mollò lì, in mezzo alla stanza, ad ascoltarla snocciolare un lungo elenco di opzioni in ordine alfabetico: «Potremmo andare al Mohito, ma ci sarà un tale caos, forse è meglio l’Oasi. O il Papillon». Quindi sarebbero andati a ballare, già la immaginavo piroettare in una discoteca qualsiasi, con quei volgari cappellini colorati schiacciati sulla testa, sfinita dalla musica, sobillata dal suo amante, ma non abbastanza. Era ancora giovane, ma vecchia quanto basta per voler evitare le gioie della maternità. Io le credevo. Credevo che non avrebbe ceduto a qualsiasi richiamo biologico: «I figli li ho fatti con tuo padre», diceva. Max invece aveva fede, sperava il meglio dalla vita, magari un erede, una casa da condividere tutti insieme e infatti sarebbe stato tradito. La famiglia che alloggiava di fianco si era già messa fisicamente alla prova con imperdonabili musiche votate a celebrare l’ultimo giorno dell’anno. «Cos’è? Hanno deciso di ballare il rock’n’roll da quelle parti? Se immaginavo questa rottura di palle ci pensavo due volte prima di acconsentire alla festicciola condominiale», aveva detto mamma. E dopo due pugni alla parete la musica quasi svanì. Poi era tornata a sedersi accanto a me. «Tu fai il bravo, mi raccomando, cosa sei tu?». «Il tuo piccolo uomo» risposi. «Il mio piccolo uomo» replicò e il nostro respiro divenne uno, mentre con le dita disegnavo piccole O sul suo specchio, piccoli cerchi concentrici, tanto a lei non importava delle impronte lasciate sul vetro.

 

 

Per un minuto restammo così, ad ascoltare il rumore attutito dei passi sui marciapiedi, la gente andava di fretta, la fretta dell’inevitabile declino, che irrimediabilmente ci segue. Lo stesso che negli anni avrei individuato anch’io in un sacco di Capodanni, quando gli ospiti cominciano a ripetersi una volta di troppo, finché ti rendi conto che la sola cosa in comune con gli altri è la noia o l’alcol. All’epoca però da una capo all’altro della nostra casa le finestre erano decorate con gli angioletti di polistirolo e c’era un esile albero di Natale in cucina. «Ho un altro regalo per te» disse. Sfilò un pacchetto dorato dal primo cassetto del comodino per riporlo sotto il fusto illuminato: «Questo lo apri dopo». Di fronte la televisione ci spiegava che la vita sta cambiando, che il mondo sta cambiando, che l’universo sta cambiando e così via all’infinito in una sequenza di cicli senza principio né fine, almeno finché suonò il campanello.
«È Max» disse.
«È Max» dissi.
Uscendo lasciò entrare lo strepitio dei botti che si scioglievano sulla neve come caramelle effervescenti. Era piuttosto luminosa avvolta nella sciarpa argento, sembrava felice.

Fu in quell’esatto momento che pensai per la prima volta alle donne, di quanto un ammiratore le strappi con il suo amore dall’oblio.

Perché ogni uomo le celebra e mia madre sapeva ricompensare chiunque l’amasse in modo magnifico. «Non mangiare tutto il budino di riso», è stata l’ultima raccomandazione. «No?» dissi mentre si aggiustava la gonna. A entrambi non interessava nulla del budino ed era evidente che il pensiero era reciproco. Il 31 dicembre non era ancora un giorno uguale a un altro, e neppure mia madre era uguale a qualcuno. La gente si sarebbe raccolta intorno a un tavolo, dopo aver fatto incetta di salmone e lenticchie in sconto. Noi invece non avremmo bollito musetti trevigiani fino al loro estremo, lucido destino. Non avremmo inciso guarnizioni di cacao per scolpire il numero 1977 al centro di una torta. Tanto meno sarei stato obbligato a ingoiare i chicchi di un pungente melograno, con la scusa della fortuna  e in fin dei conti la cosa mi stava bene.

 

 

Qualunque regalo contenesse il mio pacchetto, il cubo di Rubik o un libro di London, mi avrebbe reso felice come il fatto di sapere che eravamo l’unica famiglia del quartiere, e credo dell’intero paese, ad avere un flipper in cucina. Ero corso alla finestra per darle un’ultima occhiata. Lei notò il mio profilo, la mia bocca incollata alla lastra, lasciò la mano del suo fidanzato e sollevò il vestito alla bell’e meglio iniziando a simulare un tip tap dedicato solo a me, finché mi misi a ridere. «Ma guarda che roba» dissi a voce alta mentre lei filava via non so dove, risucchiata fuori dal mio raggio d’azione. Mi ci volle un po’ di tempo per non continuare a fissare il vuoto che aveva lasciato sul marciapiede e allontanarmi dalla finestra. Fuori era tutto molto bianco e io avevo sperimentato quella prodigiosa passione che sdegna la lotta contro qualsiasi altro, non volevo finire come Orfeo senza ricompensa, con un fantasma al posto di Euridice.

Per cui anche negli anni a venire, ho sempre ritenuto inopportuno lottare contro un nemico per un amore, anche se il mondo ammira tali azioni.

Ma lottare per amare è già un segno di sconfitta. Mi guardai intorno, era pieno di mobili rovinati, cagatine di mosche e polvere in ogni angolo a dirmi che si ama quando non se ne può fare a meno, semplicemente perché quell’amore è irresistibile. Era un tipo di felicità strana, una felicità senza fede. Al di là di quel vetro non ho mai amato mia madre di più per il fatto di sapere di non poterla fermare, di non potermi fermare, più ancora che se l’avessi devotamente creduta la perfezione umana. Di colpo, in quell’anno che era al suo culmine, ebbi questa rivelazione. Così, senza preavviso.

Comments (1)

  • Marisa Saracino

    Bello. La prima lettura affascina. Del dopo dirò.

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