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Vadalà | Veritas vos liberat

“Veritas vos liberat”, suona così da millenni il Vangelo di Giovanni. E c’è persino chi se le figuraoscure, quelle parole… cosa avranno voluto mai dire, Cristo, Giovanni, Papia o chi invero le scrisse, ché una delle prime verità negate è proprio l’attribuzione dei testi evangelici. Sia come sia, ‘Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi’. Ne dovremmo dedurre che la menzogna renda schiavi. Ed in effetti è proprio così. Ci si può brevemente addentrare, con tipica retorica novecentesca, nella relatività della nozione di verità, su come l’osservatore modifichi l’osservato e viceversa… tediosa cantilena che qualsiasi ‘umanista’ laureato potrebbe sciorinare, e in effetti sciorina. Invece, per tagliar corto, usiamo un paio di rasoi. Quello di Ockham, che permette di recidere di netto il cordone con l’assoluto, l’indicibile, l’indimostrabile – ‘trasumanar significar per verba non si poria’, le persone assennate d’ogni secolo son sempre state concordi – e quello del gran René. No, non Vallanzasca fra le non troppe cose che gli italiani rammentano c’è la cronaca nera, bisogna esser chiari… quello era il bel René! Il gran René è Descartes, che ci offre al contempo sia una lezione impeccabile di ragionamento – e vorrei proprio sapere quanti docenti di filosofia abbiano adeguatamente recepito il ‘discorso sul metodo’ e sarebbero in grado di rappresentarlo in modo comprensibile ai loro discenti – sia un imperdibile centro di gravità permanente: L’unica verità percepibile è il nostro pensiero, anzi il nostro pensare. Che è pensare logico, aristotelico, fondato sui cardini dell’identità, della non contraddizione e del terzo escluso. Una volta eliminato l’elemento trasumanante, troppo assoluto per percezioni spendibili nell’umana congerie, al netto della mistica, del vaticinio, delle vertigini poetiche – dimensioni che, ammetterete, dotti lettori, non esser proprio quotidiane – e ricondotto il grano salis al nostro pensare razionale, che procede per causa ed effetto e di ciascuno vuole adeguata riprova, ci avviciniamo a quel che il titolo di questa digressione prometteva, il tentativo di dimostrazione, per via di sociologia politica economica, dell’affermazione per cui la menzogna renda schiavi. In primo luogo di sé stessi, ma anche di terzi. Rivolgiamo or dunque l’attenzione all’Italia contemporanea che, una volta rimossi ifronzoli ideali ed ideologici, potrà ben apparire ad ogni uomo di buona volontà e minimo raziocinio quale la realizzazione più macroscopica dell’assunto.

 

Senza spingermi al pietoso nascondimento del ruolo della massoneria britannica nell’unità d’Italia, ansiosa di restituire al Mediterraneo una pluralità di potenze che non fossero solo la Francia e i suoi satelliti, una volta cadute le gloriose Venezia e Genova e giunto all’ultimo respiro il sultanato ottomano; senza attingere al possibile assassinio del rigoroso Ippolito Nievo e di tutti gli imbarcati sul piroscafo ‘Ercole’, che recava l’intero incartamento relativo alla spedizione dei mille…vicenda definita da Buttitta ‘un caso Mattei ante litteram’; senza nemmeno soffermarmi sul probabile mandante dell’omicidio Matteotti, almeno secondo i suoi cari ed alcune testimonianze aggiuntive;obliando l’oscura fine, a Giulino, dell’innominabile, conteso a quanto pare da partigiani e servizi britannici (con l’immaginabile gap di efficienza e mezzi fra i due gruppi), non posso però evitare di risalire almeno al dopoguerra inoltrato, a quegli anni ’50 che sono stati, evidentemente, trampolino straordinario di crescita, ma altrettanto occasione per i grandi errori che ancora non confessiamo, e di cui siamo, nel 2020, una volta di più schiavi. E per l’esattezza risalire ad un anno preciso e soprattutto ad un luogo preciso, che all’epoca non ambiva certo, come nemmeno adesso, ad alcuna centralità nella storia del Paese, stante la sua condizione, absit iniuria verbis, di provincialità e isolamento.

Ma che invece avrebbe raccontato tantissimo di ciò che, in fondo, già sapevamo. A fare da medium fra questo paradosso e noi, Italia Unita e Repubblicana, che lo viviamo, un americano.

Ricco, colto e socioantropologo. Finito nel ’54 a Montegrano, alias Chiaromonte, poco ridente comune lucano d’un Meridione che era sempre quello della ‘inchiesta in Sicilia’ di Sidney Sonnino: in quei settanta anni Nitti, Salvemini e gli investimenti giolittiani erano serviti a ben poco, e chi la raccontava diversamente mentiva. Un’instabile base di ipocrisia nazionale, su cui fu costruitol’internazionale piano Marshall, svelata nelle sue implicazioni più profonde e inquietanti da un saggio di Edward C. Banfield. All’apparenza tutto è oggi cambiato a Chiaromonte, alias Montegrano, ma forse senza cambiar poi troppo. Il paese era e rimane isolato, nonostante al cavallo si sia sostituito da tempo il cavallomotore, sospeso in un tempo tutto suo. E chissà se la attuale politica locale – senza poterlo ammettere col ‘forestiero’, si intende – non si riconosca ancora nella spietata descrizione che ne diede il ricercatore yankee 60 anni fa. Ho avuto modo di trattenermi per qualche giorno a Chiaromonte, le foto che accompagnano il testo ne siano testimonianza, ed i sentimenti che la popolazione esprime nei confronti di quel celebre saggio e del suo autore sono di censura. E’ anche comprensibile, basti pensare al titolo, ‘Le basi morali di una società arretrata’. Che poi sarebbe stata la loro, quella del paese del dopoguerra (i ragazzini di allora sono vivi e vegeti), preso ad exemplum della condizione dei piccoli centri meridionali dell’epoca, anzi di ogni società agricola arretrata del pianeta. Non che in Italia non si conoscano, il saggio e le sue conclusioni, anzi la locuzione ‘familismo amorale’ è stata inoculata nel linguaggio ‘dotto’ direttamente dalle pagine di Banfield. Ma – e torniamo alla menzogna che rende schiavi – è stata lì isolata, ed ampiamente criticata. Sino al punto di negare che Banfield avesse poi capito granché di ciò che vedeva e sentiva, perché non conosceva l’italiano, abbisognando costantemente delle traduzioni della moglie, italo americana. Eppure, intervistando direttamente alcuni abitanti, fra cui l’anziana signora in foto e suo figlio 70enne, ho scoperto che ricordavano bene sia ‘l’americano’ sia il fatto che le domande gliele facesse in italiano, con o senza moglie.

 

La tesi del saggio, documentata da statistiche, trascrizioni di interviste, analisi economiche e riflessioni su di esse, è relativamente semplice: quel mondo contadino, ai limiti della sussistenza per la quasi totalità della popolazione residente – in ciò assolutamente analogo a mille altri borghi coevi dell’Italia del dopoguerra – aveva come dettame il ‘familismo amorale’, ovverossia il perseguimento dell’interesse proprio e quello del proprio sangue, senza mai andare oltre la schiatta, anzi spesso senza nemmeno arrivarci, considerato l’alto livello di frammentazione anche fra parenti prossimi: ‘Massimizzare i vantaggi materiali e immediati della famiglia nucleare, supporre che tutti gli altri si comportino allo stesso modo’, per usare le parole di Banfield. Ogni idea di civitas, per non parlare di Stato, quali luoghi e dimensioni in cui comporre l’interesse collettivo, risultavanegata sin dalle fondamenta, in teoria ed in pratica, così come qualsiasi mobilità sociale. Ogni tentativo di sussidiare tali contesti che non tenesse adeguato conto della loro mentalità avrebbe ridotto anche la migliore delle intenzioni ad un fallimento politico e sociale. Voglio riportare un passo, meno citato di altri ma a mio parere estremamente significativo, perché trattasi di una delle poche interviste a non popolani, quindi capace di evidenziare come tale visione del mondo fosse considerata ineluttabile ben al di là del censo e della formazione. Parla il sindaco ‘comunista’ (ma Banfield spiega bene come e perché simili idealità politiche fossero in realtà massimamente labili, a fronte degli interessi familistici) di Grottole, altro paese lucano:

Quando lei se ne sarà andato, la gente mi chiederà ‘ti ha promesso qualcosa? ’ E se cercherò di spiegare che non siete funzionari di governo e nemmeno ricchi turisti ma soltanto giornalisti, diranno ‘ma allora perché gli hai offerto caffè e vino, senza trarne alcun vantaggio? ’. Alla fine dell’intervista Bayne lasciò alcune migliaia di lire sul tavolo del sindaco, chiedendogli di distribuirle fra i più bisognosi o di metterle a beneficio di un eventuale fondo natalizio per i bambini. La costernazione del sindaco fu immediata. Con cortese ma irremovibile fermezza rifiutò: ‘lei non capisce la situazione, se accettassi questo dono, il cui significato io capisco, la gente si chiederebbe se Lei non abbia per caso dato di più e quanto io mi sia tenuto. Non c’è fondo natalizio, perché chi mai contribuirebbe ad esso?”. 

 

Da ciò – e da molto altro, scrivo anche per invitare a leggere il testo – Banfield trasse la conclusione che l’unica possibilità di sperare in un futuro significativamente migliore, ben prima di giungere all’aiutare finanziariamente, consisteva nell’aiutare culturalmente. Serviva una scuola capace di alfabetizzare si rammenti come la percentuale di analfabeti a metà degli anni ’50 fosse al Sud intorno al 30% – ma pure di aiutare a superare schemi mentali radicati, arcaiche paure e diffidenze. Ciò aveva ripercussioni pratiche immediate: per gli Stati Uniti erano anni in cui si discuteva della possibilità di prolungare il ‘Piano Marshall’, terminato nel 1951, e più in generale del come rapportarsi all’alleato Italia, finanziariamente, economicamente e culturalmente. Le drastiche conclusioni di Banfield risultarono infine poco gradite – per quanto considerate pietra miliare nelle scienze antropologiche e sociali anglosassoni – sia sull’Atlantico che sul Mediterraneo. Si aiutò finanziariamente, assai meno culturalmente. Siamo quindi oggi assai lontani dalle condizioni economiche e sociali, drammatiche, del 1956, ma non così lontani dalle condizioni psichiche Braudel, la storia vive di lunghi periodi, ‘Longue Durée’ – originatesi da un vivere, protratto per secoli, che l’antropologo fece ancora in tempo a vedere.

Decennio dopo decennio, polvere dopo polvere è stata accumulata in Italia sul lucidissimo lavoro di Banfield, sin quasi a farlo dimenticare del tutto.

Eppure esso rimane incredibilmente aderente alla dimensione sociopolitica italiana del 2020. 65 anni dopo, che ne pensate di frasi come ‘in una società di familisti amorali , i deboli sono favorevoli ad un sistema in cui l’ordine sia mantenuto con la maniera forte’, oppure ‘il familista amorale, quando riveste una carica pubblica, accetterà buste e favori, se riesce a farlo senza aver noie, ma in ogni caso, che egli lo faccia o no, la società di familisti amorali non ha dubbi sulla sua disonestà’ o ancora ‘in una società di familisti amorali , coloro che ricoprono cariche pubbliche, non identificandosi in alcun modo con gli scopi dell’organizzazione, si daranno da fare quel tanto che basti per conservare il posto che occupano o (se pensano ciò sia possibile) per ottenere promozioni’? C’è qualcuno così tardo di comprendonio da non riconoscere, nell’ordine di citazione, le posizioni della Lega e di Fratelli d’Italia, del Movimento Cinque Stelle e del Partito Democratico/Forza Italia? Si che c’è. C’è tutto il popolo italiano, unitamente ai suoi maggiorenti, ai suoi giornalisti, ai suoi accademici, ai suoi magistrati, ai suoi funzionari, ai suoi imprenditori. C’è una nazione intera che appare nemica della verità, incapace di accettare la realtà anche quando le viene sciorinata davanti. E pertanto schiava della menzogna, che nel quotidiano si declina in demeritocrazia, nepotismo, giustizialismo, assistenzialismo, voto di scambio, debito pubblico, arretratezza tecnologica. Mantenere l’Italia nel solco dell’Occidente senza mai passare da Banfield, ovvero da sé stessa – id est dalla verità dei lumi – sarebbe come vincere a Fortnite senza conoscere la mappa. Impossibile.

 


Images by Pasquale Vadalà


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