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Zizzi | Reliquia: Anatomia

Le reliquie sono oggetti temibili e ambigui, perché risultato di uno sbranamento che si promette come resistenza al tempo, al solo prezzo di voler esercitare una veglia semantica, nonché percettiva e spesso devozionale su di esse. Tra l’altro, nonostante la pretesa di una sovranità assoluta attribuita ad ognuna, esse competono tra di loro e, per quanto dovrebbero essere oggetti corporei, talvolta possono essere quasi impalpabili, giacché possono, per particolari processi, manifestarsi anche attraverso l’udito, l’olfatto, il gusto. C’è una scena tratta da un film della fine degli anni Sessanta di un epigono di Breton, Freud, quindi Artemidoro, che illustra la possibilità del reliquiario uditivo. Stiamo parlando però di uno stratagemma visivo, che conduce al risultato uditivo. Nel 1967 una giovane e nevrile Deneuve, bella ma algida, nel lungometraggio del surrealista Buñuel, impersonificava una etera, che per sfuggire al modo della vita borghese lo accentuava in uno dei suoi modi più prediletti, che è l’ambigua oscillazione su uno svago, dettato da un desiderio imprecisato. In Bella di giorno ad un certo punto appare tra i clienti della casa postribolare, un cinese: ricco quasi quanto un Apicio, primo e trino tra i gastronomi della classicità,e grasso quasi quanto un lottatore di sumo del Seicento, che mostra alla sua puttana triste (Deneuve – Sèverine, appunto) una reliquia invisibile (scusate l’eccesso): appare una scatola che si apre, negandosi alla vista dello spettatore, perché si mostra dalla parte dell’orientale e dell’etera: né lo spettatore né il critico cinematografico potranno, oltre, decrittare il contenuto; ne uscirà, percettibile, solo un suono; un suono vibrante, ronzante, teoricamente temibile; un suono indecrittabile, ma forse non dissimile da quello descritto nei trattati di metafisica del mahayana, come neisutra dell’hatha yoga, che con certezza tautologica affermano che l’esperienza mistica è compiuta quando l’iniziato avverte un ronzio come d’api. Nessun commento verbale rompe il silenzio d’ovatta dei due unici spettatori (cinese e prostituta). Solo si nota lo sguardo di rifiuto e forse di disgusto di Sèverine. Sembrerebbe probabilmente che quella scatola contenga una reliquia a notare la cura maniacale con cui il cinese la custodisce e il sorriso sardonico e ammiccante con cui la mostra; ma sto parlando della reliquia fisica, perché il fatto più sorprendente è che per lo spettatore quella reliquia è un suono. E quel suono è una reliquia perché strappata al destino della percezione visiva dell’intero col risultato di una sottrazione sensitiva e di una ritenzione semantica, ma anche perché permette il corretto funzionamento etimologico della reliquia medesima (resto appunto, dal latino relinquo): lo sguardo insoddisfatto instaura il regime del reliquiario. Allora, in questo caso, mistero e reliquia sono una sola cosa: destino che si anticipa sul non dicibile. Ne uscirà, dopo, nella prosecuzione narrativa della finzione cinematografica, una Deneuve felice e orgasmica, senza nessuna decrittazione, ignara di Borges e dei suoi specchi, di Proust e della madeleine, di Petrarca e Laura, degli scaldi scandinavi e delle leggende di Wotan. Così la reliquia, questo oggetto che non sarà mai un simbolo, essendone l’opposto, sarebbe finalmente obliata, non essendo recepita. Ma questa è, invece, la sua indole soteriologica: essendo stata risparmiata da qualunque indagine, diventa maggiormente oggetto di culto.

Perchè la reliquia è una superfetazione, un’aberrazione sul livello dell’identità da riconoscere, abbisognando di una nutrizione di fede senza esitazione.

Si pensi che persino le letterature apocrife, quando citano amuleti intesi come reliquie, esse stesse sono reliquie incastonate in deserti e logge mediorientali, attorcigliate nei papiri sgretolantisi; che se hanno superato maledizioni, scorpioni e frattaglie di vento, saranno, qualora ritrovate e restaurate, riepilogate in successive, infinite biblioteche scientiste, ben apparecchiate dalle comunità dei linguisti e degli storici della religione, fino ad essere quel che sono: resti. Sussistendo come addizione di un mondo che non conosce altro che la transazione e l’interpretazione (come se l’azione negasse la riflessione), restando appunto reliquie, perché salvate, e non retrocesse ancora al livello dei rifiuti e dei relitti.

Image courtesy of: @filippomutani

Ma cosa dovremmo aggiungere a questo fragile fato, tenuto dalle credenze e dalle venerazioni al livello di una sopravvivenza oltre il tempo? Solo un altro discorso, sempre dialogico, accumulativo. Eppure le reliquie, secondo il nostro modo, sarebbero state o dovrebbero essere all’ombra di ogni meditazione, pertanto mute, costipate. E persino caste e inviolabili, per quanto venerate. Ma insinuo ciò (l’impossibilità della reliquia ad essere re-immaginata) a contrario, perché penso che l’unica reliquia possibile è quella sottratta all’immaginario collettivo, alla sovranità politica del potere riconosciuto dei simboli o delle sue forme di derivazione, della quale alla fine citerò l’aspetto. Privatissima, la reliquia avrebbe dovuto, dovrebbe essere indicibile; nell’opera dei poeti è la parola mai detta e forse talmente nascosta da non essere neanche riconoscibile nella produzione del testo [Riffaterre], tanto da diventare parola-chiave dell’opera. Quella parola che assurge a simbolo (anche, se, come detto, la reliquia è l’opposto dei simboli, essendo essa lacerazione e non ricomposizione) che diventa non emblema, ma ritenzione, e, nascosta, enigma. Per questo la reliquia dovrebbe essere un luogo assolto dal tempo? No. Ma se così fosse sarebbe colpevole, quel che, non espugnato, ci ricorda la rovina della vendetta. Stiamo accennando a quella vendetta del sentimento che riduce a ipotetiche rovine l’araldica architettonica dei fasti delle cose ben costruite. È vero, a dir così la reliquia sarebbe il dono che insiste in virtù di una resistenza sul tempo, facendosi vieppiù icona e anche quello che non sarà mai, ossia simbolo. L’ambizione di ogni reliquia è pertanto sorprendere l’ermeneuta, facendolo diventare un devoto e, cosa non prescritta, un passionario. E di ciò? Resterebbe solo l’ombra di un’ombra più ingente e nulla più di quel che chiunque, anche un architetto, chiamerebbe: rovina. E tuttavia, se sembra che stiamo declinando la reliquia quasi non fosse un oggetto riflulgente, bensì residuo d’ombre, non è così. Essa resta l’elemento ustorio per i nostalgici come per i positivisti, abbacinante ma progressivamente sempre meno sensibile per i primi, superstiziosa per i secondi. Ma va detto, e questa cosa rivela della sua natura ambigua, essa lontana da ogni modo della contemporaneità e del postmoderno, è anche paradossalmente riluttante ad essere riconosciuta come un elemento della tradizione [Evola, Guenon, Corbin], perché ha una vita da natura morta e perché l’unico modo per resuscitarla è costruire una narrazione su di essa, come tristemente direbbe il cattolico Ricoeur o l’archeoermeneuta Bacthin, ossessionato dalle forme dialogiche del discorso. Un oggetto (o uno stato), per essere tradizionale, non deve essere devozionale né narrato; e non deve permettere una forma dialogica, bensì monologica, la più azzardata delle forme di identità. E invece una narrazione riguarderà sempre la reliquia e mai una attualizzazione, un’azione che possieda un codice perenne segreto, quanto aritmologico. La reliquia interrogata e collettivamente, devozionalmente, venerabilmente, acclamata, si presta così, facilmente, a diventare feticcio [Dorfles], o, non più considerata, relitto.

Perchè la reliquia, pur difendendosi a spada tratta da ogni interpretazione, se restando resto è necessariamente inattuale, è sempre permeabile ad una ricognizione narrativa.

Tra l’altro sottratta alla commedia della citazione, e quindi della venerazione, ciò che resterebbe della reliquia sarebbe una carota. Davanti al ciuccio della modernità che traina il carro di una mal compresa classicità, che è molto più impenetrabile, cocciutamente occulta, di quanto i fari illuministici e neoclassici hanno potuto penetrare. Di ciò che denominiamo classico, infatti, restano emblemi ed enigmi, che per i ciechi sono reliquie e per gli atei relitti, per i semiologi simboli persi di araldiche perdute e inimmaginabili, ovvero feticci di remote civiltà fantasiose. Ma se non si può uscire da questo labirinto che sono gli ossari di reliquie (quanti ne sono come pavimenti e utensili ad Isernia arcaica o a guisa di architetture barocche nel teatro macabrodella cattedrale di Otranto), si può riconoscere l’unica che è a disposizione per chi più non pensa se non per immagini e che si stana da ogni accademia di cultura storica, annalistica, filosofica, storiografica.

Image courtesy of: @filippomutani

Perché la reliquia come oggetto e resto d’oggetto, nelle ossessioni dialogiche delle culture umane, è: o infinitamente narrativa o immediatamente affettiva. Perché Il potere della reliquia è quello di fare perfusione tra identità e alterità e permettere un’omousia basata sul riconoscimento; per questo ho cercato di dire di fare distinzione fra esse; ci sono reliquie collettive e reliquie personali; reliquie introvabili, come Graal e Arche dell’alleanza, e relitti. Altre conviventi. Resto su di un’anticipazione. Riconoscimento del destino. La reliquia, in verità, è una porta stretta, una via ben poco praticabile, un intransitabile stato di visione depositato dentro ad una miniera di cui non conosciamo l’entrata. Ma giungiamo al culmine, alla nostra via preferita, che è una scorciatoia sull’Essere, per quanto possa un faro tra impassibili flutti, condurre una navicola a riva. Destino che è iniettato sin dal principio. Ecco la reliquia unica e sovrana. Ecco. C’è n’è una che si salva, non surrettizia e non meditata, tra le reliquie.
Viene a priori e in modo antecedente, ma a sbranare in noi viva vita. È il nostro scheletro. Questo oggetto difficilmente decomponibile, eppure neanche museale o da collezione, questo stato minerale, roccioso e anonimo, senza una didascalia. Oggetto del paleontologo e del parente, a seconda della lunghezza del tempo trascorso tra sepoltura e rinvenimento, ovvero tra sepoltura e frequentazione del sepolcro, essendo esso stesso reliquia ante litteram. Condotti sin dalla nascita dentro di noi, Il cranio, le ossa, portati a livello di un’abitabilità e dell’energia sanguigna, un giorno saranno resti, anche cremati. Il semiologo li interrogherà per cercarne un senso, ma chi sa, oltre alla cultura umana, li avrà riconosciuti prima di ogni inizio di vita mortale.

 

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