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Interview | Fabiano Alborghetti

L’intervista di Silvia Monti a Fabiano Alborghetti, poeta italo/svizzero che da molti anni si impegna nella ricerca poetica e nella diffusione di una produzione letteraria di qualità.



 

Che cosa per te, in campo artistico e/o umano, fa la differenza?

Per entrambi, un grande senso etico e morale. Questo vale sia nelle vesti di scrittore che nella vita in generale: nei rapporti con gli altri, nell’estensione dei comportamenti e delle azioni, nel pensare, nel ricevere l’altro.

 

Cosa ti rende maggiormente soddisfatto?


In generale, l’imparare qualcosa che non sapevo: quel confronto e quelle nozioni non so che ruolo avranno nel futuro, ma avere nutrito il bagaglio delle opzioni e delle conoscenze, spesso inaspettatamente, è trovarsi sospesi nel vuoto e al contempo ben poggiati a terra. È stimolante.
In letteratura, invece, è il riuscire a scrivere bene, uscire dall’impasse di avere avuto un’idea (spesso molto complessa) per vederla trasformata in qualcosa di coeso, di largo respiro, e che finalmente trova una forma.

 

Nella tua prima raccolta, “Verso Buda”, ti sei confrontato con la voce del tuo io lirico, interiore. In tutte le raccolte successive, invece, hai dato voce agli altri. Come mai questa svolta?


Non so se riuscirò a rispondere a questa domanda compiutamente: avverto più risposte occhieggiare ma nessuna definitiva. Certamente da quando ho deciso di voler scrivere non per il cassetto ma per essere pubblicato, c’è stato un diverso approccio e una diversa maturità nei confronti della parola e di cosa la parola è chiamata a dire. Questo farà maturare, nel tempo, lo stile, l’ampiezza, i ritmi ma anche il senso di responsabilità. Da subito ho voluto confrontarmi con temi “esterni”: non la poesia che parla di sé e del proprio ombelico quindi, ma il confronto col mondo, anche se è sempre un confronto brutale. Diversi sono stati quindi i linguaggi adottati. Con la scrittura di Maiser -ad esempio- c’è stato anche l’abbandono di una cifra stilistica da me conservata per anni, la terzina, per adottare una narrazione poetica più fluviale, senza stacchi. Mutato è anche l’approccio con l’approfondimento delle fonti per avere il contesto del quale scrivere, talvolta strettamente contemporaneo e successivamente capace di confrontarsi con la storia passata. Una costante, invece, è stato il dovere che mi sono imposto di voler vivere di persona tutto ciò di cui scriverò: nessuna invenzione quindi, ma l’essere sul campo o, come scriveva Walt Whitman nel suo Foglie d’erba, « non avrai cose di seconda o terza mano, ma le cose scoprirai da te stesso» : l’ho sempre fatto e sempre lo farò. Per testimoniare qualcosa bisogna prima viverlo, bisogna essere nella realtà e non vicino. Qualcuno la definisce poesia sociale o civile; altri la indicano come “poesia d’inchiesta”. Forse, però, posso semplicemente rispondere che le storie degli altri sono più interessanti della mia.

 

Hai qualche nuovo progetto poetico a cui ti stati dedicando, ora?


Lavoro a due cose distinte. La prima la rimando da anni ed è un romanzo in versi sulla comunità Walser: stanno scomparendo, vengono visti più come fenomeno di folclore che non come una cultura. Nessuno o quasi, parla più la lingua, le tradizioni sono merce da museo, la loro civiltà viene fotografata e non più vissuta, i villaggi si sono svuotati e si riempiono ora di turisti. Loro ne sono coscienti e questa consapevolezza dell’estinzione (senza rimedio) mi devasta. Voglio scriverne per ridare loro una voce.
La seconda cosa alla quale lavoro, è un romanzo in versi sulla perdita di memoria e sull’identità, sul confronto, sulla diversità anche sessuale, sul giudizio e sulla lotta per essere sé stessi aldilà delle aspettative o della società. Convoco molte disfunzioni. Ci sto lavorando, non so se sarà un buon lavoro. Io intanto proseguo.

Metti in atto delle strategie che si potrebbero definire un “metodo di lavoro” nel tuo processo di composizione e scrittura, oppure segui la spinta della tanto corteggiata ispirazione?

L’ispirazione è la scintilla che dà forma a una idea, magari accolta per caso. Il lavoro di scrittura è altro e si compone di molte sfumature. Accade così: apparsa l’idea, spesso da un frammento casuale e talvolta nemmeno pertinente, avverto che c’è qualcosa che si collega ad altro, ben più vasto. È una sensazione più che una certezza o una direzione. Rimugino, mastico a lungo. Poi accade: tutto si chiarifica, quasi sempre trovando il titolo che per me è il “tono” che lo scritto avrà. È ancora uno stato primordiale, però capisco dove voglio andare. Poi mi interrogo a lungo sulla voce da usare e nel frattempo mi documento o intervisto e soprattutto vado a vivere di persona quel tema o storia. Scrivo sempre anche grazie all’esperienza fisica. Per L’opposta riva ho vissuto tre anni coi clandestini; per Registro dei fragili ecco altri tre anni ma spiando le famiglie nei supermercati e nei giardini (con qualche inciampo con le forze dell’ordine). Maiser mi ha visto vivere per sette anni coi protagonisti, per Legni, Colombe (una suite che compone Corpuscoli di Krause) ho fatto il taglialegna nei boschi…
Solo successivamente inizio a prendere appunti smembrando ulteriormente delle porzioni e ricomponendo l’assieme. Annoto passi o versi ovunque: taccuini, post-it, scontrini, fogliacci, accumulando tutto in un posto unico. Capisco di avere il materiale che mi serve quando inizio quella fase che io chiamo “stendere il bucato”: lunghi fogli (spesso quelli delle lavagne mobili, ma vanno bene anche file di A3 e scotch) che attacco alle librerie ed alle pareti: linee temporali, dati e fatti, nomi, accadimenti dai quali prendere spunto, e il tutto vede spesso ulteriori aggiunte di post-it per sfumature, altri sottotemi, divagazioni. È più un metodo da prosa che non da poesia. In tutto questo tempo quell’idea vaga si è consolidata ed è ora quasi pronta. Inizio a scrivere, quasi sempre coi testi nella sequenza che sarà pubblicata, ma è una scrittura prima orale: recito ad alta voce e solo dopo batto a tastiera.
Dopo, c’è il lavoro di pulitura, l’onestà di buttare via, le riscritture, i cambi, e questo fino a quando non trovo la forma più consona e rispettosa. Quando si parla di altri, bisogna avere anche questa coscienza: il vissuto altrui va trattato sia con pudore che con rispetto.

 

Potresti fare un confronto Italia/Svizzera dal punto di vista dell’attenzione alla cultura?


Ogni nazione ha le proprie differenze e specificità. Avendo vissuto e operato in entrambe, posso dire che in Svizzera le entità culturali (anche a livello istituzionale) sono non solo presenti ma attive: ci sono fondi, programmi, sostegni. Questo genera un senso di responsabilità. In Svizzera siamo bene o male riusciti a creare una comunità di scambio e dialogo e non un sistema di endogamie “do-ut-des”. Questo ha generato un pubblico più vasto, non solo composto da addetti ai lavori, ma una fruizione più diffusa e fedele, che è poi il compito che le arti devono perseguire.

 

Ti darebbe fastidio se si dicesse che sei migrato in Svizzera per amore?

Per nulla, è la verità! Da un invito a una conferenza all’incontrare la persona che ho poi sposato, ecco la genesi del caso e forse anche il provare che talvolta la letteratura (in questo caso la poesia) può cambiare la vita.

 

Il tuo lavoro (quello che si fa “per campare”) ti influenza in qualche modo sul versante artistico?

Si e no. Lavoro da quando ho quindi/sedici anni. Sono transitato attraverso molte discipline prima di trovare la mia lingua perfetta che è la poesia: sono stato pittore (con decine di tecniche) e fotografo (facendolo parzialmente anche per mestiere). In parallelo c’è sempre stato il lavoro, anche qui transitando attraverso molti mestieri: cameriere, facchino, cuoco, segretario in albergo, concierge negli alberghi di lusso, consulente per i servizi alberghieri, formatore, office manager, facility manager. Trovo che nella costrizione di dover vivere una vita spaccata in due (da un lato “il mestiere” dall’altro la scrittura), ci sia nel mezzo qualcosa che io definisco il mio osservatorio antropologico personale. Avendo vissuto (ma accade ancora) in prima persona il sopruso, l’oppressione, l’essere mercificato in quanto braccia (cercavamo braccia e sono arrivati uomini, ha scritto Max Frisch), lo sguardo non si è deposto ma è diventato quella leva che mi ha permesso, scrivendo, di scavare nei miei due temi portanti che sono l’identità e la collocazione: il luogo nella coscienza dell’uomo, l’uomo nei confronti del tempo, il tempo in rapporto col luogo, la storia che ne deriva ma anche la manomissione della storia, degli eventi e la costellazione di risultati. È un percorso che mi vede scavare la cronaca, nutrendo i testi di realtà, ancorandoli al mondo reale. Gran parte di questo percorso arriva dal mio rapporto diretto con questa vita dicotomica, un rapporto che poi estendo in una osservazione più vasta perché io sono solo uno dei tanti punti di partenza, ma i molteplici punti di arrivo sono le persone, il mondo fuori.

 

Meglio muoversi nel mondo della poesia avendo fiducia nelle proprie potenzialità o cercare appoggi, creare legami che portano a reciproci vantaggi?


Sono profondamente avverso alle consorterie, Mutuare un pensiero abborracciato, la legge dell’aiutino che è diventata modus-vivendi laddove il mediocre esige di essere canonizzato e coltiva una corte che ben si presta perché qualcosa gli tornerà; il dare attenzione -anche laddove si tratta di opere mendicanti- solo perché si avrà una recensione in cambio, oppure una raccomandazione: dove è l’onesta? Il confronto serio è tutt’altra cosa. Occorre un dialogo che spinga a correggersi, perché non basta avere fiducia solo nelle proprie potenzialità. È corretto mettersi in rapporto con altri. Però la strada non è il leccaculismo e -quando accade (e accade spesso)- usare il proprio micro-feudo per avere ritorni crea danni. Io questo lo combatto.

 

Quale è stata la tua maggiore delusione in campo artistico?


Sono moltissime, a dire il vero, quasi più dei successi. Ma una in particolare è ancora molto viva: l’avere rifondato da zero una rivista letteraria (online) morta e sepolta, investendoci anche del denaro; dal nulla è stata portata ad essere una rivista molto seguita con migliaia di accessi, una piattaforma dove spesso si sono scoperti nuove voci. Avere passato il timone, dopo quattro anni, a una nuova direzione editoriale perché ci fosse uno sguardo nuovo e più giovane, nuovi approcci e una spirito che potesse farla evolvere (perché il mio sguardo poteva non essere sufficiente). Ho constatato che da allora nessuno mi ha mai più rivolto la parola né esteso alcun tipo di dialogo, in nessuna forma, mai. Un vero peccato.

Senti di aver ricevuto tutti i riconoscimenti, in campo artistico, che ti spettano?


Non credo ci siano riconoscimenti che “spettano”. Forse l’unico riconoscimento vero è l’attenzione del lettore che spende il proprio denaro per acquistare il libro, o che spende il proprio tempo uscendo di casa per venire ad ascoltare una lettura o una conferenza. Questo può accadere solo con la cura verso il pubblico, avendo rispetto, un rispetto che deve obbligatoriamente estendersi anche alla qualità della scrittura. E comunque non è un riconoscimento “che spetta” ma che ci si guadagna con fatica. C’è molta strada ancora da fare e molte storie che chiedono una voce, e consideriamo questo: le storie sono composte di persone, e sono loro che spesso sono calpestate e che sono i protagonisti di vite calpestate. Loro devono poter ricevere una attenzione. È a loro che spetta qualcosa.

 

Quanto contano, per te, le “onorificenze” che hai ricevuto?

Non sono le onorificenze che fanno la persona né che compiono la sua arte, eppure riconosco che grazie alle onorificenze ho potuto guadagnare una posizione tale da poter usare quel “potere” per sostenere altri, una cosa che altrimenti non sarebbe stata possibile, non nella compiutezza attuale. Io credo fermamente che la propria influenza non debba essere usata per costruire una fortezza, bensì per lastricare strade. Nel primo caso ci si trincera, nel secondo si crea comunità. Ricordiamoci che il termine comunità arriva dal latino commùnitas (partecipazione, società) che a sua volta è un derivato di commùnis (che compie il suo incarico insieme) che a sua volta è derivato da munus che vale nell’accezione sia di obbligo che dono. Ecco: non è solo un vocabolo moralmente denso, ma un indirizzo e, credo, un monito costante.
Le onorificenze sono un beneficio commerciale, è indubbio, ma il loro compiuto primario non è glorificare il ricevente bensì tenere la luce accesa su temi essenziali, quelli più pungenti e scomodi, per restituire quella realtà, per far sì che vi si presti attenzione. Occorre sollevare costantemente domande per nutrire il confronto, permettere (grazie alla maggiore visibilità guadagnata) a più occhi di individuare la falla, ma soprattutto di evitare di dimenticare o distogliere lo sguardo dall’inguardabile, da ciò che è inaccettabile. Bisogna conoscere l’errore (o l’orrore) perché quella parte più sbagliata è quella che più ci porta lontani, se capaci di correggere. È facendo finta di nulla che si permette il ripetersi, e infine la sopraffazione. Se onorificenze arrivano, che siano allora usate per qualcosa di più utile che non adornare una parete.

 

Preferisci avere degli amici o avere dei poeti come amici?

Gli amici sono amici, anche se talvolta gli amici poeti sono dei rompipalle e si finisce sempre e solo a parlare di letteratura in un loop infinito.

 

Come mai ti piacciono tanto i gilet?


Questa è una storia complicata e che affonda le origini in più tempi lontani. Non è stato facile crescere in una famiglia (a sua volta complicata) dove mettere assieme pranzo e cena era una operazione matematica per far quadrare i conti, dove per vestire si accoglievano i vestiti smessi dai cugini, dove un paio di scarpe di cartone doveva durare il più possibile perché non c’erano soldi.
Non è stato facile andare a vivere da solo non appena diventato maggiorenne, il lavorare (ho sempre lavorato) spesso patendo la fame. A un certo punto, quando facevo il cameriere in un albergo, rubacchiavo i resti dei clienti per potere mangiare ed era l’unico pasto che potevo permettermi. Crescendo le cose sono migliorate. Impegno, lavoro, fatica, un reddito che a un certo punto ha permesso di scegliere. Ho iniziato a vestirmi bene per quello: come riscatto ma anche come promemoria. I gilet, a ben guardare, sono un oggetto molto accessorio e voluttuario: la loro non apparente utilità è ciò che per me è diventato l’emblema del possibile.

 

Quale è l’attività che ti rilassa di più?

Leggere. Non ho memoria di quando ho iniziato, ma racconti familiari (forse troppo epici e cronologicamente scorretti) mi danno come lettore già da piccolissimo, dall’inizio delle scuole primarie (le elementari). Ho iniziato a leggere prima di saper scrivere (non avevo collegato le cose).
Leggere, da allora, è stato il modo di evadere da complessità familiari e da molti soprusi. Un territorio privato (recintato) dove abbassare le armi. È ancora così.
 

A cosa non rinunceresti mai?

Alla morale, che deve essere al disopra di qualunque cosa, anche quando nessuno vede, soprattutto quando nessuno vede.
 

Hai mai scritto canzoni?

Si. Alcune per puro divertimento personale -e sono rimaste nel cassetto- . Due sono state scritte su commissione per la Banda Putiferio, un gruppo folk che opera in Brianza ma fa concerti ovunque. Le due canzoni verranno poi messe in musica e pubblicate su un librino geniale -con CD allegato- dal titolo “Attenzione! Uscita operai” (NoReply, 2007). Fu estremamente divertente perché decisi di voler giocare con le parole ma preferisco restare in ciò che più mi appartiene: la poesia.
 

Se tornassimo indietro nel tempo, in quel paesino della Brianza dove ci siamo conosciuti ormai tempo fa, avresti qualcosa da dire al giovane Fabiano che aveva appena pubblicato la sua prima raccolta?


Forse gli direi di fare ciò che sta facendo e di non svendersi mai. Gli direi di continuare a scrivere di chi ha paura, di chi cerca un’identità, di memorie combattenti e dell’oblio; di cercare con le parole il chiaroscuro oppure una carezza affettuosa nelle tonalità di grigio che tutto avvolge; di inseguire i corpuscoli come fossero presenze in controluce, filigrane, dispersioni documentali per le quali va tentata una una forma, forse un perimetro, le declinazioni per gradienti e scale. Per farlo, gli direi, continua ad immergerti. Gli direi: vivi di persona ciò di cui scriverai. E cerca anche il silenzio, quello capace di urlare per dire di chi voce non ha più.

 


Fabiano Alborghetti (1970). Ha scritto di critica, fondato riviste, creato programmi radio, progetti in carceri, scuole e ospedali ed è promotore culturale. Collabora inoltre come consulente editoriale per case editrici e riviste sia in Svizzera che all’estero. È nella commissione di programmazione di diversi festival ed è presidente della Casa della Letteratura per la Svizzera italiana. Nelle vesti di autore, rappresenta la lingua italiana e la Svizzera nel mondo su mandati ufficiali e traduzioni di sue poesie sono apparse in volume, riviste o antologie in più di 10 lingue. Ha pubblicato 6 raccolte di poesia tra le quali Maiser (Premio Svizzero di Letteratura 2018) poi prodotto integralmente come radiodramma dalla RSI Radiotelevisione della Svizzera Italiana. Dal 2017 è al lavoro per un romanzo in versi basato sulla comunità Walser (Borsa letteraria UBS Cultura e Borsa di creazione della Fondazione Landis & Gyr). www.fabianoalborghetti.ch

 

Foto di hannah grace | Foto di Yannick Pulver | Foto di Pereanu Sebastian

 

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