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To tell the truth against an unfair world. To tell the truth to rebalance a tort, an injustice, a mortification. Speak the truth to punish, to equate, to restore the good. But to tell the truth is a dialogue with a double risk. The first external: the incurring of bad moods, sanctions, exclusions, imprisonments, penalties. The second interior, tiny, at times indistinguishable: who tells the truth says what he thinks the truth is or he says what is really true? Is it an opinion or evidence? And can these false heteronyms get to stone themselves in order to boast the title of possessor of the truth?

And the voice trembles. It stumbles, cuts, goes back, avidly seeks a new way to face the dangerous game between himself and the recipient of the message, between himself and the offended interlocutor who responds by opposing the truth to another truth, test and counter-test for respond to the danger with the risk of defense. The truth does not resemble the colossus that stands out above the known and banal plain, it does not resemble an exterior without discomfort, if anything, something interior, indecent, something secret, domestic and at the same time perverse. It does not resemble the main road but a thousand roads and paths that separate from it to lead us everywhere, to disperse us also.

The truth, even before showing a value, seems to have the property of giving a glimpse of a possibility. The possibility of one’s purity against the impurities of one’s fragments. The possibility that runs on the edge of a mistake: the perfecting of the idea and the word continuously threatened by a purge which is the act of extremism against the inextricable and innumerable plural.

A purge to escape from an infinite mixture, from a complication and confusion that encompasses the whole being. To tell the truth is the adventure of the superlative beyond which we cannot proceed. This is why it brings conflicting feelings to the surface: embarrassment, fear, paralysis, immobility or its opposites: strength, action, craving, that impatient saying: “I can’t keep silent!” Or again: “I have to talk!” to the point of generating innumerable progeny to exclude or atrophy our creature mired in complexity. Our Ego that is silent or explodes to react to the tremor of chaos.

The truth then does not come at the end, it is not what completes a process but it is a beginning, never initial if not provisionally and until further notice.
It is not the knife, because cutting or breaking here is no longer enough. It is not a question of dying, the truth does not have death as its last custodian, if anything, of weighing and measuring what can never be isolated. Because the truth does not have the task of verifying evil, nor of restoring purity to us, but of rewarding each one according to his merit by breaking the possibility of this phrase: “I say the truth for your love, I tell the truth for the sake of you”.

Truth is the void that exceeds its aptitude for gift. It is the power that holds back.

Dire il vero contro un mondo ingiusto. Dire la verità per riequilibrare un torto, un’ingiustizia, una mortificazione. Dire il vero per punire, per equiparare, per ripristinare il bene. Ma dire il vero, dire la verità è il dialogo con un doppio rischio. Il primo esterno: l’incorrere in malumori, sanzioni, esclusioni, reclusioni, pene. Il secondo interno, minuscolo, a volte indistinguibile: chi dice il vero dice ciò che pensa sia la verità o dice quello che è realmente vero? È opinione o evidenza? E questi falsi eteronimi, possono arrivare a lapidarsi pur di fregiarsi del titolo di possessore della verità?

E la voce trema. Incespica, si barra, ritorna indietro, cerca con foga una nuova pista per affrontare il pericoloso gioco tra sé e il ricevente del messaggio, tra sé e l’interlocutore che irritato rilancia opponendo al vero un altro vero, prove e controprove per rispondere al pericolo con il rischio della difesa. La verità non assomiglia al colosso che si staglia sopra la pianura conosciuta e banale, non assomiglia a una esteriorità senza disagio semmai a qualcosa di interiore, di impudico, qualcosa di segreto, di domestico e insieme perverso. Non assomiglia alla strada maestra ma a mille strade e sentieri che si dividono da essa per condurci ovunque, per disperderci anche.

La verità, prima ancora di mostrare un valore, sembra abbia la proprietà di far intravedere una possibilità. La possibilità della propria purezza contro le impurità dei propri frammenti. La possibilità che corre sul filo di un disguido: il perfezionarsi dell’idea e della parola continuamente minacciate da un’epurazione che è l’atto d’estremismo contro l’inestricabile e innumerevole plurale.

Un’epurazione per evadere da una mescolanza infinita, da una complicazione e una confusione che ingloba tutto l’essere. Dire il vero è l’avventura del superlativo oltre il quale non si può procedere. Per questo porta in superficie sentimenti contrastanti: l’imbarazzo, la paura, la paralisi, l’immobilità o i suoi contrari: la forza, l’azione, la smania, quel dire impaziente: “non posso tacere!” o ancora: “devo parlare!” fino a generare innumerevoli figliolanze per escludere o atrofizzare quella nostra creatura impantanata nella complicanza. Il nostro Io che per reagire al tremore del caos tace o esplode.

La verità allora non si colloca alla fine, non è ciò che pone a termine un processo ma è un cominciamento, mai iniziale se non provvisoriamente e fino a nuovo ordine. Non è il coltello, perché tagliare o spezzare qui non basta più. Non si tratta di morire, la verità non ha come ultimo custode la morte, semmai di pesare e commisurare ciò che non è mai isolabile. Perché la verità non ha il compito di verificare il male, né di restituirci la purezza ma di ricompensare ciascuno a seconda del proprio merito rompendo la possibilità di questa frase: “dico il vero per amore tuo, dico il vero per amore di te”.

La verità è il vuoto che eccede la sua attitudine al dono. E’ il potere che frena.

M.M.

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