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Fail and Unfail, both come to our attention by revealing themselves in the radical nature they emanate. Both extremes, kaleidoscopic in the formation of an idea, an act, an exercise that calls to life, peer from the horizon of meaning on which they sometimes coincide, from which they sometimes diverge. Create a work, choose, scrape its excesses, hope for its glorious fulfillment and, on the edge of thought, fear its implication, fear its shattering, fear of having wasted the opportunity, your time. It is life itself that summons them, assigns them to a form of appeal to which we are all called, coming to light. It is life itself that nullifies them in the individual effort to name them, in the state of solitude that surprises us, when we try to face them in an identity of meaning.
Can there be success without the risk of failure? And can failure be the stable and propitious ground for building the new? How much do the two need to approximate to distance themselves?
Being reciprocally intrinsic is perhaps the reason why the destination that surrenders them to such a destiny confuses those who try to interpret them. So both are the children of the same matrix, extremely fragile, transparent, delicate. “Und war, die an steigendes Glück/ denizen, empfänden die Rührung,/ die uns beinah bestürzt,/ wenn ein Glückliches fällt .” (R. M. RilkeDuineser Elegien).
Successo e fallimento, entrambi sopraggiungono alla nostra attenzione rivelandosi nella radicalità che emanano. Entrambi estremi, caleidoscopici nella formazione di un’idea, di un atto, di un esercizio alla vita, si scrutano dall’orizzonte di senso sul quale a tratti coincidono, da cui a tratti divergono. Creare un’opera, scegliere, raschiarne gli eccessi, sperare nel suo compimento glorioso e, sul bordo del pensiero temerne il risvolto, temere il suo frantumamento, temere di aver disperso l’occasione, il proprio tempo. È la vita stessa a convocarli, assegnarli a una forma di appello, alla quale tutti siamo chiamati, venendo alla luce. È la vita stessa a vanificarli nello sforzo individuale di nominarli, nello stato di solitudine che ci sorprende, quando tentiamo di affrontarli in una identità di senso.
Può esservi successo senza il rischio del fallimento? E può il fallimento essere il terreno stabile e propizio per edificare il nuovo? Quanto le due cose hanno bisogno di approssimarsi per distanziarsi?
L’essere reciprocamente intrinseci è forse la ragione per cui la destinazione che li arrende a un simile destino confonde chi tenta di interpretarli. Così entrambi sono i figli di una medesima matrice, estremamente fragile, trasparente, delicata. “E noi che pensiamo la felicità/ come un’ascesa, ne avremmo l’emozione/ quasi sconcertante/ di quando cosa ch’è felice, cade.” (R. M. Rilke – Elegie Duinesi).
M.M | C.S.
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