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Schiattarella | Senza fine

Non pago della visione parigina del 1902, il poeta tedesco Rainer Maria Rilke, nel 1906, torna ad ammirare il bassorilievo di Ermes, Euridice e Orfeo al Museo Archeologico di Napoli, durante il suo soggiorno nella città partenopea.

 

Proprio nel mezzo delle due contemplazioni, rispettivamente nella ville lumière, dove era stato esposto, e nella città del sole, dov’è tuttora custodito, nel 1904, vede la luce Orfeo, Euridice. Hermes poemetto già solo nel titolo graficamente eloquente. Secondo il poeta russo J. Brodskj, che all’opera ha dedicato il saggio Novant’anni dopo, i segni paragrafematici sarebbero marcatori del pensiero di Rilke, il quale con l’assenza di punteggiatura, dopo il nome del messaggero degli Dei, avrebbe voluto sottolineare la natura “senza fine” della divinità in contrapposizione alla “finitezza” delle due creature mortali separate, tra loro, solo da una virgola mentre dalla Divinità, tramite un escatologico punto fermo.

 

Ma torniamo alla correlazione tra visione estatica e ispirazione perché è il poeta stesso, in una pagina di diario, a riferirci direttamente della visita in compagnia della moglie Clara  e indirettamente della potenza dell’arte oltre il tempo e lo spazio:

 

Nel museo di Napoli sostammo [Rilke e consorte] a lungo, davanti al rilievo di Orfeo; ci chiedemmo se, daccapo, l’elemento narrativo non giochi un brutto scherzo.

Una malconcia lastra di marmo parzialmente scolpita -non potrebbe essere ritenuto tale un bassorilievo?-  di epoca romana parla, dunque, ad un poeta dell’inizio del secolo scorso, scherzando, addirittura, con il suo fervido spirito. A colpire i due coniugi non è, infatti, solo la disarmante sincerità dell’opera scultorea con la sua Euridice, in posizione centrale, al contempo, spartiacque tra l’Aldiquà e l’Aldilà e anello tra le due figure, quella terrena di Orfeo che avrebbe dovuto/potuto liberarla dalla Morte e quella iperuranica, garante del Fato, in un commovente rimando di sguardi e mani e piedi che si sfiorano per la forza dell’amore e si contorcono per l’ineluttabilità del destino. A stupire i due eletti spettatori è, invece, come dice lo stesso poeta, l’elemento narrativo che compare nel bassorilievo napoletano.

 

Sembra di vederli, Rainer e Clara, mentre indugiano sui nomi dei tre protagonisti incisi nella scultura, esattamente in corrispondenza delle figure: due scritti da sinistra verso destra, come lo sguardo di Ermes ed Euridice, rivolto al regno dei vivi; l’altro, quello di Orfeo, scritto da destra verso sinistra (ΣΥEΦΡ) a scolpire, in maniera indelebile, la colpa di non aver liberato l’amata.  Per il poeta greco che non seppe trattenersi dal “guardare indietro” quasi un’eco del fatal gesto; per il poeta tedesco una folgorazione perché, da quel momento, il mito orfico entrerà nella sua opera ossessivamente, offrendo l’immagine di una nuova Euridice che non trova più corrispondenza nella mera definizione di “ninfa sposa del musico Orfeo”. In Orfeo, Euridice. Hermes il poeta tedesco, quando il poeta-incantatore viene meno al patto siglato con Ade e Persefone -secondo il quale avrebbe riavuto la sua amata morta per il morso di un serpente, a condizione di non voltarsi a guardarla nel viaggio di ritorno alla Vita- così rappresenta la Sua Euridice:

 

Ormai non era piú la donna bionda

che altre volte nei canti del poeta

era apparsa, non piú profumo e isola

dell’ampio letto e proprietà dell’uomo.

Ora era sciolta come un’alta chioma,

diffusa come pioggia sulla terra,

divisa come un’ultima ricchezza.

Era radice ormai.

E quando a un tratto il dio

la trattenne e con voce di dolore

pronunciò le parole: si è voltato –,

lei non comprese e disse piano: Chi?

 

Insomma, sembra dirci Rilke, se Euridice rappresenta la donna amata, la sofferenza, l’ispirazione, la gioventù, da immolare sull’altare della creazione, allora, non può essere più “la donna bionda” -e si noti il voluto classicismo di petrarchesca memoria- “proprietà dell’uomo”, del singolo uomo apollineo. Al pari dei poeti “aureolati” o “laureati”, di Baudelaire e di Montale, per Rilke, nel Novecento, non c’è più spazio per il vecchio Orfeo. Emblematico, nonché quasi tragicomico, nel poemetto, quel mancato riconoscimento del poeta-amante, affidato a quel tiepido pronome interrogativo “Chi?” pronunciato da un’ Euridice che, se è  “pioggia sulla terra divisa come una ricchezza” non può essere perduta per sempre; che se è “radice ormai” non può essere morta ma eternamente viva.

È evidente, quindi, come la scelta di riprendere il mito non sia dovuta tanto ad un semplice interesse stilistico o ad una scialba ripresa dei noti binomi letterari ad esso legati: vita-morte, amore-morte o amore-arte. Non solo nel poemetto citato, infatti, ma anche nei componimenti confluiti nei Sonetti a Orfeo del 1922, passando per le Elegie Duinesi, torneranno le stesse tematiche fino alla morte.

 

Il mito orfico diventa, nella poetica di Rilke,  necessità esistenziale -non semplice topos- di un’anima vessata dalle sofferenze terrene che si fa, negli anni, urgenza testamentaria dell’uomo-poeta. È il mistero del passato che risorto dalle sue ceneri -il BassorilievoLapide?-  parla al novello Orfeo del presente e che attraverso la scoperta -non la perdita!-  della sua Euridice, qualsiasi lacerazione essa rappresenti, muore e rinasce nella creazione poetica in un meraviglioso sodalizio artistico senza fine. Pertanto divino.

 

Non alzate monumenti. Lasciate che solo la rosa

ritorni per lui tutti gli anni lungo il muro. 

Perché lui è Orfeo. In tutte le cose

metamorfosi di se stesso. Ma altri nomi

 

andiamo cercando. E sempre, se qualcuno

canta, è Orfeo. Si allontana e ritorna.

Ma non è già sufficiente, se alle volte tutto questo

più delle rose per qualche giorno resista?

 

Sì, deve annullarsi per poterlo comprendere!

Anche se di sparire fosse sua la paura.

Il suo dire è oltre il suo restare,

 

mentre ormai si trova dove voi non potete.

La sua mano è libera sulle corde della lira.

La sua obbedienza è già un altrove.

 

Tratto da Sonetti ad Orfeo

 


Foto di Jessica Favaro

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