Interview | Omar Di Monopoli
Omar Di Monopoli has published “Uomini e cani” (ISBN, 2007), recently re-edited by the Adelphi publishing house; “Ferro e fuoco” (ISBN, 2008) and, for the same publishing house, “La Legge di Fonzi” (2010). “Nella perfida terra di Dio”, for Adelphi, it dates back to 2016, while his new novel “Brucia l’aria” is about to be published through Feltrinelli. Our editor Carla Saracino joined him for a nice coffe-break during his daily-rut to talk about his literary production and his characters, and the deep bond with the “south”, rediscovered through journeys.
Uomini e cani, pubblicato per la prima volta nel 2007 da ISBN Edizioni, nell’arco di dieci anni circa ha conosciuto alcune modifiche, prima di essere rieditato da Adelphi. Ad esempio, le forme dialettali che hai scelto di utilizzare in principio hanno forse subìto delle variazioni. Mi incuriosisce questo aspetto del lavoro di riadattamento sulla lingua: perché è stato necessario? Si tratta di un dialetto corrispondente ai luoghi o a tratti volutamente ritoccato per esacerbare effetti funzionali all’azione?
Il lavoro di aggiornamento di “Uomini e cani” si è rivelato uno tra i più impegnativi editing che abbia mai affrontato. E questo per due fondamentali ragioni: la prima è che bisognava restituire al lettore la stessa storia, lo stesso romanzo, applicare cioè il necessario aggiornamento stilistico senza che chi aveva amato la prima versione del romanzo percepisse alcuno scarto o manipolazione. La seconda ragione è che intanto, dal 2007, la mia “prospettiva” tematico-stilistica è diventata più compiuta e consapevole, quindi in qualche maniera bisognava uniformare il mio esordio – di fatto l’avvio del mio personalissimo viaggio nella letteratura – senza intaccarne lo spirito, l’energia né tantomeno la burbanza che è tipica di un primo lavoro.
Alcuni eccessi iperbolici di cui fai uso (non solo in Uomini e cani) appaiono come pennellate caratteristiche di una certa linea linguistica meridionale. Perché, secondo te, esiste questa accensione della lingua in molti scrittori – ma anche poeti – del Sud? Questa sorta di febbre di retorica, in senso alto, che divide costantemente i piani semantici e li porta verso suggestioni, iperconnotazioni, campi di significato che si alternano fra di loro in costrutti talvolta anche articolatissimi?
Qualche volta vengo dipinto come uno tra i primi narratori pugliesi ad aver rispolverato il vernacolo innestandolo su un largo periodare lirico, molto ricercato (talvolta troppo, secondo alcuni). Ebbene in realtà, lusinghe per la presunta primogenitura a parte, la mia è una ricerca che s’inserisce in un solco che parte da molto lontano (dai veristi quanto dagli espressionisti nordamericani, direi: sicuramente dalla scuola siciliana di Bufalino, D’Arrigo e Consolo e dai cascami del southern gothic made in USA) e che però possiede – possiederebbe – l’originalità di una contaminazione molto pop: quella del cinema e del fumetto, ambiti da cui provengo e che hanno finito per influenzare nel bene e nel male la mia pagina scritta. Poi, effettivamente, un certo sperimentalismo linguistico caratterizza l’intera produzione pugliese, pensiamo a Bodini, Durante o a Carmelo Bene, ma anche e soprattutto alle generazioni successive dei Romano e della Lomunno, che in qualche maniera hanno fatto da apripista a gente come me, Desiati e Lagioia. Direi quindi che le ragioni di tale interessante deriva siano essenzialmente da ricercare nella tradizione d’appartenenza e nell’uso innovativo del parlato orale, che in certe zone del Sud diventa particolarmente melodico e malleabile e quindi fortemente attrattivo, per uno scrittore in cerca di una voce propria.
La marginalità contratta dei tuoi personaggi, il loro essere derelitti, sfatti, abbandonati, talvolta si distende, in pochissimi istanti di rivelazione e libertà in cui esprimono umanità o il senso della loro ferita aperta… (Penso alla confidenza quasi commossa che, improvvisa, investe Santo sul punto di esercitare violenza contro Milena o penso a Nico, quando sul finale mostra quasi un senso di pietà verso Pietro Lu Sorgi).
È che alla fine, nei miei romanzi, il conflitto rappresentato non è mai (solo) tra buoni e cattivi. Per quanto autore di genere in realtà lo sforzo è sempre teso a superare una visione manichea dei ruoli per cui ciò che davvero mi preme portare a galla è la specularità delle fazioni che si contrappongono nelle mie storie: Lu Sorgi per quanto assassino anarchico e troglodita è un “figlio di Dio” tanto quanto il guardiacaccia alcolista e depresso Nico, sono due emarginati posti all’estremità di uno stesso piano, quindi in fondo si somigliano, come si direbbe qui “rrazzano”, fanno parte della stessa congrega. Ecco, sono ultimi, e gli ultimi nei miei romanzi si fanno la guerra – violenta, letale, senza pietà – perché non sanno fare altro ma esiste una dimensione, magari dagli stessi non “abitata” ma intravista, possibile, in cui potrebbero fraternizzare.
Il Sud che ritrai è costellato di siti di rovine arroccate su macchie erbose, selvatiche e incolte. Tu stesso, nella vita, vai alla ricerca di queste archeologie sature di umido e oscurità, eredità di tempi pregressi. Oggi tali testimonianze sono rivestite (o si pensa di rivestirle) di una rinnovata veste turistica che rischia di cancellare i segni del loro senso passato. Penso alle “casodde” nate come depositi contadini ed oggi reinterpretate alla luce di ipotetici investimenti alberghieri. Come interpreti queste metamorfosi? Le approvi o le consideri forzate rispetto alla storia e alle tradizioni del contesto?
È anche questo un discorso complesso, articolato. Il turismo è business e ovviamente ha una sua ragion d’esistere in una regione fortemente votata all’accoglienza ma temo le istanze colonizzatrici che da più parti stanno giungendo a contaminare il Sud che amo e temo in tutta sincerità che questo nuovo flusso di conquista, per quanto latore di occasioni lavorative e proficue opportunità di crescita, finisca per intaccare la nostra identità che però è figlia di numerose istanze (normanne, arabe, greche: abbiamo di tutto nel nostro DNA). Quindi non mi sento di invitare alla chiusura totale verso le sollecitazioni esterne, sarebbe da bifolchi, ma neanche di accogliere chiunque ci offra un contentino in termini di investimento come fosse un Dio calato a salvarci. Al solito, la differenza la fa la comunità, la gente, il grado di maturità che è capace di mostrare davanti al complicato gioco di input proveniente dall’esterno. Se saremo bravi, coscienziosi, e soprattutto lucidi, potremo conservare le tracce del nostro passato e guardare al contempo al futuro con ottimismo: come dico spesso, da noi in fondo convivono le “maciare” con il “wireless”.
Torre Languorina esiste davvero, sulla costa prossima a Manduria, luogo in cui vivi. Esiste, ma nella realtà ha un altro nome. Nel tuo romanzo respira una poeticità che definirei, se possibile, malsana. Cosa ti attrae di questo fascinoso stato della decadenza?
La questione è, spero, un po’ più sfaccettata perché contiene numerose sollecitazioni, alcune delle quali personali e biografiche. In primis l’idea di un universo diruto, abborracciato e puteolente, che pur nonostante tutto si tiene, è espressione di un lascito generazionale (mio padre, per dire, aveva un appezzamento di terra nel quale accumulava ogni genere di relitto ferroso perché figlio di una mentalità – quella di chi è cresciuto nel primo dopoguerra – per la quale non si getta via niente) ma non dimentichiamo che l’idea di “rovina” e di “universo composto dai macerie” ha permeato tutto il secolo scorso e quindi buona parte della narrativa che mi ha forgiato (si pensi alla miserabilità stracciona di Erskine Caldwell o agli eremiti invasati di Flannery O’Connor). Ecco perché, nell’allestire il mio spettacolo, mi è venuto naturale rappresentarlo nella sua condizione più disomogenea e frammentata perché è in questi termini che meglio si presta a raccontare il mio Sud. Un Sud infatti sporco e crudele, straziato da una bellezza indomita eppure negletto, disseminato di carcasse ferruginose che sono come macchie dell’anima di chi questo Sud lo anima, e lo abita.
L’emporio di Torre Languorina ricorda certi alimentari di provincia o quelli spersi sulle litoranee. In quei luoghi si respira un’assenza di contemporaneo, una spinta di inattualità. Vi si può annidare la scrittura? Cioè la scrittura, intesa come atto conseguente all’esperienza dell’immaginario, ha dei luoghi di elezione, secondo te, in cui può incidere più che in altri? Perché a volte ci sentiamo attratti dalla penuria, dalla sottrazione, dalle anticaglie del tempo? Forse perché attraverso queste cose le identità si palesano e le fisionomie degli oggetti ci parlano di più?
Non saprei dire se questo sentimento di attrazione verso l’inattuale appartiene a chiunque. Per ciò che mi riguarda sicuramente sì e questo deriva ovviamente dal fatto che sono cresciuto in provincia (in una provincia profondamente inattuale: è tale ancora oggi) ma non bisogna dimenticare nemmeno le influenze culturali e cinematografiche con cui tutti noi ci confrontiamo di continuo. Per intenderci: il mio west mediterraneo è figlio di della semplice constatazione che i paesi in cui vivevo somigliavano a quelli di tonnellate di film americani ambientati in periferie simili. Poi ci sono i moti dell’animo, ma questo credo attenga al destino personale di ognuno di noi (a volte ho voglia anche io di grattacieli, metropolitane, taxi e folle smaniose, però dura poco, alla fine chi è cresciuto con il mare sotto casa resta un’anima mercuriale).
Leggendo Uomini e cani ho avuto la sensazione di una narrazione circolare, forse ulteriormente evidenziata dalla sequenza dei giorni della settimana che hai voluto tracciare come per un calendario esclusivo dei soli luoghi raccontati. Ho avuto la sensazione che i personaggi si muovessero in una terra limbica e fossero in attesa di giudizio: come se ogni personaggio della storia avesse da scontare la sua sorte rigirandole e rigirandole intorno in una specie di insperabile ed estenuante attesa che non arriva mai a consunzione. Come se il mondo, tutto il mondo, fosse concentrato tra Languore e Torre Languorina. Fuori non vi fosse altro. Un quadro claustrofobico, da cui però nessuno dei personaggi vuole realmente allontanarsi.
Ma certo. È indubitabilmente così. Sono venti anni ormai che sto costruendo il mio personale acquario in cui, romanzo dopo romanzo, faccio nuotare i miei pesci. In qualche maniera sono personaggi prigionieri dello spazio in cui li ho inseriti e guardandoli vivere e loro vite bislacche e deragliate io sto cercando di decodificare un mondo – che è il mio Sud – ma ovviamente la verità è che io stesso sono incarcerato in questo splendido spazio limbico solo che, al contrario dei miei pesci, ne sono consapevole e quindi cerco di eleggerne le regole, i ritmi, le passioni e le imprevedibilità a paradigma universale.
Il paesaggio è fortemente intriso della lingua dei tuoi personaggi e viceversa. È come se non esistesse scissione. Tanta ruvidezza, tanta asprezza di modi, realismo eccessivo, volutamente privo di attenuazioni, vanno incontro a un ambiente che parimenti non si adegua e non conosce mediazioni. Il mare, la macchia incolta e abbarbicata sugli spalti del sole o del plumbeo scirocco, gli odori forti, pungenti, la selvatichezza dell’antropizzazione spesso casuale e disordinata corrispondono a certi stili burberi del comportamento delle persone che, piacciano o non piacciano, si rappresentano comunque in una loro marca identitaria. Lo stesso nome della cittadina in cui è inscenato il romanzo non è stato dato a caso: i posti in cui vivi, soprattutto quelli impressi e fermi sulla costa, abbandonati in inverno, sono carichi di languore palpabile, respirabile, il cui sentore talvolta rischia di essere insopportabile o alla cui vista “ogni attimo del passato/somiglia a quei terribili polsi dei morti/che ogni volta rispuntano dalle zolle/e stancano le pale eternamente implacati.”, direbbe Vittorio Bodini. Tuttavia è come se sotto tanta immobilità dilagasse sotterranea una lavica irrequietezza, battessero i colpi di una provocazione. Perdonando il lungo preambolo, ti chiedo se anche la vocazione a scrivere ha bisogno, per nutrirsi, di una faglia che si alterni tra ristagno, immobilismo e ambizione al movimento.
Penso di sì, una certa irrequietezza permea la scrittura di chiunque. Non so dire quanto se ne possa fare una regola aurea, anche perché insegno scrittura creativa e una delle cose che cerco di far passare nei miei corsi è che non bisogna illudersi che i tormenti del cuore e dell’animo servano necessariamente a rendere migliore la nostra letteratura, però di sicuro alla fine ciò che facciamo con la scrittura (con l’arte più in generale) è cercare di mettere ordine al caos, ricucire in qualche modo lo strappo tra Sé e Reale, magari a volte creando all’abbisogna nuovo caos per rendere più evidente quello sottotraccia. Insomma non c’è dubbio che scrivere sia fuoco e incertezza, ma anche ardimento e disciplina: una delle cose che mi preme sottolineare nei miei corsi è che bisogna prima imparare bene le regole per poi stravolgerle. Palestra insomma, assieme al guizzo inquieto del goleador.
Una volta, nel corso di un’altra intervista, hai detto: “È interessante che io abbia dovuto attraversare l’oceano incontrando il sud degli Stati Uniti per fare i conti con le mie radici: attraverso Faulkner ho riscoperto autori che la scuola mi aveva tenuto distante, ho ripreso in mano Verga, Capuana, i veristi, ma anche autori contemporanei come Bufalino, della mia terra e del nord, come Fenoglio”. Il sud, nel suo senso più ampio, sembra non essere solamente un punto cardinale né una qualificazione cartografica che limita e descrive. Che cosa significa, secondo te, da un punto di vista antropologico o più semplicemente sentimentale, “essere del sud”?
È una domanda che ormai mi sento rivolgere spesso e non saprei francamente dare una risposta precisa perché è vero che i Sud si somigliano tutti ma si è sempre a Sud di qualcun altro per cui rischia di diventare una classificazione oziosa, buona solo per le etichettature giornalistiche. Per ciò che mi riguarda mi attengo sempre, per comodità ma soprattutto per sensibilità, alla visione del Sud che ho appreso dal Bardo del Mississippi, William Faulker, per il quale il Sud era la sede dello spirito feudale più benigno, una giungla corrotta e marcia eppure il sacrario decadente di una grande tradizione delusa. Per Faulkner il Sud era il simbolo di tutto l’odio e il terrore del mondo ma anche il perimetro dell’esistenza e la barriera di qualsiasi immaginazione: per Faulkner il Sud (tutto concentrato in quella sua impronunciabile contea inventata, più vera del vero) era la vita, e come un campo di battaglia omerico non c’era altra scena al centro del pianeta che non fosse il Sud: “Tu non puoi capirlo, dovresti esserci nato. In realtà essere del Sud è una cosa complessa. Comporta un’eredità di grandezza e di miseria, di conflitti interiori e di fatalità, è un privilegio e una maledizione. Vi è il senso aristocratico dell’onore e dell’orgoglio”.
Omar Di Monopoli Books | Wikipedia
All images by Dex Ezekiel