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Kapellaki | Il corpo minimo

Distacco

Brezze che si levano
dalle teste intonse di santi infelici
trascinano l’ometto
che abita dentro di me
in tragitti ematici.
Sui bordi del marciapiede la notte assassinata.

Mentre io conto quante volte al giorno perdo il passo. E mi chiedo se è colpa
dell’andatura veloce
e sempre limitata
in questa città
assetata di rumori.
O se sono le strade
che si ingarbugliano tra le mie gambe,
con gli indirizzi degli amici
che cambiano continuamente.
Mi sfascio le ginocchia
ogni tanto in gonfie oscurità,
tra i muri,
e percuoto parole rinchiuse in recinto,
mi riempio la bocca
di cemento e di frasi fatte.

Veramente mi perdo.
I santi si rasano
ed entrano nelle loro cornici. Mentre il minuscolo ometto prepara il viaggio.
Lascia i miei territori,
e trova un mare
solo per galleggiare.
Con la testa sott’acqua
e buchi sulla schiena.
Lì dove adesso uccelli
con il becco
preparano i loro nidi per il futuro. Sono davvero in pericolo. Sempre rinchiusa
nel prologo di una giornata.

 


X., il posto e lo zero

È ritornato nel luogo dove era nato
e ha costruito una casa. Con una bella vista. Bene.
In primavera all’ingresso,
ha appeso anche una ghirlanda di maggio.
Ha messo anche due gatti a correre nel cortile. Bene.
Però si è dimenticato di cambiare il numero civico. Quello zero mostruoso.
Così un giorno un matto
passando là fuori
quando l’ha visto

ha legato un capestro alle sue curve
e si è impiccato.


II

[…]

Fuori parentesi inserisco l’esperienza di vita così com’è, cioè
le mie frasi disordinate,
il dolce sapore dei pesci del lago,

il respiro rilassato del sole sulle pietre, la verticalità della preghiera,
la musica che definisce il mio tocco, le ferite della memoria,

l’età che vacilla prima di morire. Ma la cosa più importante è che metto il mio corpo accanto al tuo. E confino.

E se desideri altrimenti,
Nel mio territorio posso inserirti. All’esterno, la guerra imperversa.


L’inquilino

Voglio parlare di quell’inquilino solitario, senza parenti, amici o animale domestico,
di una sera che l’ho visto giocare a mosca cieca inseguendo un pappagallo meccanico,
di una donna con le ossa pesanti, bionda,

che va ogni tanto a casa sua e fa le pulizie
e dopo lui le lava i capelli,
che si chiama Enrico e non ha festa onomastica,
che ogni Capodanno si ricorda
che ha piantato nella fronte di sua moglie
una pallottola
e piange e ricorda
e piange ininterrottamente
mentre si gelano le sue lacrime
e la stanza si riempie di neve,
senza che nessuno abbia mai saputo nulla dell’omicidio, o forse soltanto io,
quando nei miei occhi è nato il mito.


Cene carnivore. O di come scompare un corpo.

Devo la mia fede
ai grandi eventi della vita,
a quello che rimane
e rappresenta la fine.
Come quest’osso nel piatto
che splende misteriosamente in penombra. Devo la mia fede
ai grandi eventi della vita, all’assenza di mormorii dal tuo corpo, quando questo si svuota
nelle sordide lacune del mio scrivere mentre la memoria porta in salvo il tuo respiro. Quando il cuore del canto,
la voce, sgocciolerà sangue
la sua eco fuggirà
e ci unirà
con le tombe e con il sole.


I morituri

I morituri di notte non dormono.
Si vestono leggeri, mangiano leggero Fanno due passi sulle loro preghiere
E saltano sui tetti.
Prestano giuramento su un branco di luce E rubano un po’ dalle stelle bambine. Per poco barcollano nel caos.
Solo per un po’. E poco prima

Della loro uscita definitiva dal tempo. Con il peso nel midollo osseo Soppesano i significati Mandano a memoria gli orologi
E ritornano.
Sempre prima che faccia giorno.
E sempre puntuali. All’ora che si deve. Prima che grugnisca il buio. Vedi i loro colli allora che baluginano. Sono le visioni gioielli.
E loro i legittimi eredi.


Nell’abisso del nome             a F.

Nell’abisso del tuo nome
scivoli e taci.
La visione svuotata di futuro
gli occhi due animali morti
la memoria come arciere dirà
eri il fiore solitario*
nella stagione dei monsoni.
Ora i venti bruciano
nei giardini dove hai piantato
alle estremità delle tue labbra
rose, proiettili, gelsomino
e il canto del gallo.
Una battaglia divampa nelle viscere.
Ti prendi cura del tuo singhiozzo
e digerisci le lotte.
D’altra parte la scommessa è
quella di mantenere il vuoto dentro di te come un freddo segreto che le sere accarezzi. Vorace del buio
e delle luci che lascia un corpo quando fa una pausa e si inventa di nuovo. E a volte prendi slancio
per cadere sui coltelli
che posiziona il tempo.
Ti afferra un grido
alzi le braccia
e raddrizzi la lunghezza del secolo. Nell’abisso del tuo nome
taci soltanto.

Proferisco ombra.

Si spezza il verso.
Mi fido però di questa penna a sfera che cancella parole che odiano il senso quando piove
e mentre muori.
Ti scava una perla fredda sul collo
e una luna fredda sul petto questa sera d’inverno senza senso.

*titolo di una poesia di Nikos Karouzos

 


Fotiní Kapellaki, da IL CORPO MINIMO (enypnion, Atene 2021) – traduzione di David Virdis.

Foto di Kelly Sikkema

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