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Pozzi | Un nome di strega

NASCITA

Era nata nel millenovecentoquarantasette, quinta di tredici gravidanze, ultima di altri fratelli, da una donna poverissima e potente. Era venuta grande a fatica, un giorno aveva portato un riccio a scuola, il maestro l’aveva chiamata a fianco della cattedra, aveva pronunciato qualche parola, tirato fuori la bacchetta, stendi le mani, le aveva detto, stendile e guardate tutti cosa succede, poi il pomeriggio la madre vestita in nero aveva preso la cinghia e impresso un disappunto sulle gambe appuntite da ginocchia magre, il ceruleo degli occhi si era sciolto in cornici dritte senza sonoro. Le occasioni si erano moltiplicate, la bambina non obbediva, non era chiaro quali doti avesse, né se le aveva. Ma più avanti fu chiaro più avanti che qualcosa in lei non funzionava: era triste senza un limite di tristezza, felice oltre la soglia del ragionevole. Era una lama, quell’ago incerto tra due poli, una lama nella carne dei giorni.


(figlia)
Sei arrivata puntuale alle otto
ai piedi scarpe nuove e la fase di
euforia, hai detto prendo i bambini
li porto al mare ma ne sono uscita

sapendo che questa era una bugia
scompenso chimico colpa intenzione

Ora sto qui sulla scala mobile
fermata duomo agosto giorno uno
da qualche parte una battigia aspetta
che l’onda forte smetta di infuriare


(madre)
Quella non sono
quella che vedi
finiscono in zampe sottili le mie braccia
muovono cose
spostano i giorni insistono dentro
hanno detto che ero una maga
che molti accadimenti ha visto
annegare bambini
vesti nel fuoco
uomini in fila alla porta
per benedirgli il pianto

Quella non sono
quella che credi
la notte ricordo e accarezzo
i coltelli nella mezza estate
il vuoto rapace


LA GRANDE MADRE

Era brutta, la grande madre, la più brutta di tre sorelle. Sottilissimi capelli bianchi che non aveva mai tagliato si attorcigliavano intorno ad un nome di strega. Nelle sere più buie i polpastrelli allenati sfregavano gli stoppini e ne occultavano le formule. Li accendeva per vedere se qualcuno avesse il malocchio, prendeva un piatto lo colmava d’acqua benediva l’olio extra vergine d’oliva col mignolo, ne scivolava tre gocce dentro l’acqua, le macchie si allargavano, diventavano una diventavano acqua, il malpensare era ovunque lo doveva disfare. Gettava l’acqua, immergeva il cotone nell’olio e lo incendiava, diceva parole a mezza voce tutti credevano che fossero preghiere, riempiva il piatto rifaceva da capo. Tre gocce gemelle tremolavano al centro senza sfarsi, compatte, identitarie, il bene trionfava. Il nome era Eutimia, il nome della grande madre. Il termine è applicato attualmente in ambito psicologico per indicare uno stato d’animo tipico della persona non depressa.


(figlia)
Ti porto al collo.
Come pietra lavica
ancora bruci
ti porto alla bocca e mordo
sono solide le assenze
il giorno è buio, si alza a fatica
così dicevi di fare tu
mentre appesa alle pause
pochi palazzi più in là
ascoltavo il catalogo delle insoddisfazioni
le finte malattie
il dialetto che si faceva
codice senza personalità

Ti porto dentro i fianchi
sul giusto discrimine
tra l’insistenza e l’oblio
mi lasci un ingombro polveroso
le mani
con le macchie sopra e le unghie brutte
la pelle invecchiata subito
le rughe rotte


(madre)
La terra che ho
sotto i piedi
è graniglia di pensieri
spazzo via e si riposa
come coltre lieve d’inadeguato
quello che non si riduce
-intanto passano anni e mattine-
è l’attrito fra il corpo
e il ripetersi infinito

non ho niente da darti
e per questo non chiedi
mi osservi a tratti come si fa
con quegli uccelli rari
dai piumaggi lussuosi
che sembrano non avere altro
scopo
esserci a caso, un punto di bello
nell’andare, qualcosa che è solo
se stesso
senza fare altro
come se bastasse


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2021

Photo by Steffen Petermann

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