Saracino | Le belledinotte
Di ogni vero poeta esistono due o tre poesie di cui si ricorda esattamente la grandezza. La punta di una vetta, la sintesi perfetta di una produzione di anni. Senza nulla togliere all’ampiezza e alla qualità delle altre, quelle due o tre poesie impressioneranno per i loro estremi di precisione e bellezza. Ci sono testi, insomma, che scavalcano le regole auree dei libri dentro cui sorgono e che vivono di vita propria, esulando persino dalla responsabilità di concatenarsi in forma di opera. Accade di trovarli nella casualità di uno sguardo innocuo e non ancora commissionato dalla finestra del giudizio. Può accadere di scovarli nella immensa solitudine del giorno, quando sembra scontato chiedere aiuto e invece non si agisce, si sta nella paralisi e allo specchio di un malessere. È a quel punto che la lingua sfodera ciò che di più miracoloso e puro vi è in lei: l’imprevedibilità di accorrere in aiuto insorgendo dalla trama di un testo; l’incidente di esistere come ponte liberatorio che cresce nelle viscere delle parole. Ne è un esempio “Lebelledinotte” di Giuseppe Goffredo, poeta, editore, abitante mediterraneo per destino e vocazione. La lirica, apparsa nella raccolta Elegie empiriche (1988-1993), merita di essere riletta.
A Paolo
Le belle di notte sono variopinte.
Che bella estate ti sei persa.
Mi hanno detto ti trovi in Lapponia.
Avevi caldo nel cuore
quando spiegavi le cose.
Un fischietto di erba medica fra i denti.
Pensa alle dalie negli orti
quando il sole è al tramonto
e i grilli danno il cambio alle cicale.
Il cuore è leggero come il guscio
di una nave presa per mano.
Gli aghi sembrano serpine nere
come segni incisi sul muro
e l’ascolto è uno zoccolo duro
se galoppa sul dorso della radura.
Il sole sul colle torce
la linea dell’orizzonte e acceca
le canne di stramonio. La gramigna
spacca persino l’asfalto.
I fiumi scorrono nella vallata
con grandi ruote. Le ginocchia
funzionano da pedale.
Passano contrade case cani
e dietro rimane il solco.
Scorre sangue e vino sulle tavole
i tamburi nei campi godono.
Si condisce con la menta
e l’arsenico il cuore e si aspetta
di profilo sulla colonna
con le armi in pugno.
Come un carillon dove più forte
è il rumore e la corda piomba
all’istante a guardare il cielo
mescolato al fetore dei morti.
Di loro nessuno osa accendere
la luce per scoprire il guasto
e possono stare dappertutto
anche su quella panca rossa.
Le belledinotte sono fiori eterni in un giorno caduco. Si aprono alla sera sui bordi delle strade di campagna. Puoi stropicciarne i petali e restare con le dita sporche del loro inchiostro. Indicano che qualcuno dal buio sta per tornare; accompagnano il passante per brevi tratti. Sono variopinte. Intonano la diversità senza doverla dimostrare e il loro suono è ultimo, conclusivo, ma anche soprannaturale. Che bella estate ti sei persa. Verso irrimediabile: mancare nella stagione del massimo languore equivale a una sospensione sulla vita, un lutto nel sole che non ha eguali. È il tema della “vacanza”, intesa come spazio sconfinante e incolmabile, pozzo arrestato nelle profondità di chi vede e sospira, prevede parzialmente la sorte, ignorando il male.
Su tutto, un tempo presente nelle terre del freddo: la Lapponia; in contrasto a un imperfetto che è rievocativo. L’imperfetto: tempo verbale del ricordo perpetrato, continuo, poetico, insonne. Avevi caldo nel cuore/quando spiegavi le cose. Chi ha caldo quando spiega le cose? Il bambino, la cui narrazione si infiamma sulla soglia dell’inventiva, del gioco, della notizia? l’adulto compassionevole, che cammina eleggendo la sua commozione a misura delle cose? l’innocente, che non ha età, il cui cuore è entusiasta per eccesso? Un fischietto di erba medica fra i denti. A partire da qui, il contesto a cui la poesia apre è ciò che la lingua costruisce, verso dopo verso per il tramite del poeta, suo esecutore testamentario.
Una lingua che tratteggia il chiaro e l’oscuro di una scena mediterranea, simultanea in quanto a suoni, tatto, odori, visioni. Una lingua che intuisce correlazioni e le apparecchia al tavolo dei sensi. Cosa accade alle dalie negli orti al tramonto quando i grilli succedono alle cicale? La voce del poeta non arriva a dircelo, ma induce a immaginarlo.
E in quella lingua in absentia, che è la lingua immaginata, noi scavalchiamo il limite, finalmente facciamo esperienza delle parole, le incarniamo del nostro vissuto, le facciamo entrare nella nostra vita. Del resto il poeta è colui che “porta” le parole. Le appronta per chi ne è assetato. Per chi ha in mente di partire, quale sia la destinazione. Si apre il drappo mediterraneo. Arrivano le similitudini: il cuore, gli aghi, l’ascolto diventano parole funzionali a una corrispondenza risonante di una smania analogica. Ogni cosa si schiude alla vita dentro un ecosistema sensuale che avvinghia tutti: sentimenti umani, creature animali e vegetali, forme dell’essere. È il battito cardiaco a segnare l’ordine, il ritmo del tempo, la metrica del mondo. Questa poesia è un viluppo di esistenze che si incontrano gemellandosi, moltiplicandosi, riecheggiandosi. Una lingua sincrona le sorregge, le fa brillare, le ausculta. Il sole torce la linea dell’orizzonte, acceca le canne di stramonio. La gramigna spacca l’asfalto, i fiumi scorrono con grandi ruote azionate da ginocchia prese a prestito dall’umano. Ecco la polis naturale, insonne, già morente. Dove è finita l’estate? Dove sono finiti i vivi non più incontrati e i morti riuniti agli angoli delle contrade? Il cuore, condito a menta ed arsenico, è una plumbea coltre di risvolti che descrivono il temperamento della vita: così presente, così vulnerabile. E la necessità di difendersene, stando con le armi in pugno. E la dolcezza inquieta dei morti che possono essere dappertutto. I morti che il sud regala nel paesaggio, che “fanno” il paesaggio, inventario di azioni rimaste come paralizzate nella fotografia della nostalgia. Una polis occhiuta, dal cui spioncino entità visibili e invisibili si fronteggiano per regalare uno stordimento a chi guarda, lo stesso stordimento delle belledinotte, fiori di inviolata integrità, che si aprono al tramonto e silenziosamente pronunciano un’assenza.
Photo by Egor Myznik