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Schiattarella | Anticaglia

Entrando a Palazzo San Giacomo, sede del Comune di Napoli in piazza Municipio, sul pianerottolo dello scalone centrale, c’è il busto di una donna, che quasi in veste di custode dello stabile sembra accogliere il visitatore. È Marianna, ‘a capa e Napule. In realtà, potrebbe facilmente passare inosservata, visto che è il misero ed unico resto di una statua di età classica, a dire il vero, neanche troppo meritevole. Forse, oggi, molti napoletani ne ignorano anche la collocazione ma non l’espressione linguistica che proprio da lei trae origine. Dire Si comme ‘a capa e Napule, riferito ad una donna, per il popolo partenopeo ha un solo significato, e non troppo gentile: tiene ‘na capa tanta, una testa, cioè, che non passa inosservata. L’immobile signora dallo sguardo fermo, le guance paffute e il collo taurino è nota, infatti, per la sua grossa e sformata testa, ma anche per la querelle che ha diviso fior fior di studiosi sulla sua vera natura.
Ah, quante cose avranno osservato i suoi sempre vigili occhi prima di approdare nel suo ultimo porto. Quante storie potrebbe raccontarci, se solo non le mancasse la parola.
Invogliata dal suo sguardo fermo ma bonario, verrebbe proprio voglia di chiederle “Chi eravate Donna Marianna?”
“Chi ero, figlia mia? È passato così tanto tempo, che…nun ‘o saccie cchiu manco je! Quello che so è che sono stata creata col nome di Afrodite, nel cuore della città, destinata ad uno dei tanti templi che si ergevano in quella via nota oggi come Anticaglia -cioè Roba Antica, il Decumano Superiore- dove i primi coloni greci hanno voluto omaggiare, con una statua, gli dei che li avevano condotti in una terra tanto generosa. Il mio giovane corpo di Dea della fertilità era sinuoso e i lineamenti del volto armoniosi perché non temevano né il tempo né le sofferenze. Ero fiera del lavoro svolto dalle sapienti mani del mio creatore. Come riconoscenza per la devozione offertami, vigilai sul mio popolo, proteggendolo da terremoti, eruzioni vulcaniche, guerre, ma…il tempo degli idoli pagani stava finendo, un Dio unico e solo si faceva strada tra i vicoli della mia città e per una divinità femminile come me, dedita ai piaceri terreni, non c’era più spazio. Fu così che il corpo mi venne strappato: di me, non rimase che una testa mozzata -trofeo per uomini santi e donne virtuose- prima derisa e, poi, seppellita. Perciò, dimenticata nei lunghi anni in cui la Religione aveva scalzato l’uso della Ragione. Riemersi dalle tenebre nel 1594, in pieno Rinascimento, quando non si desiderava altro che far rivivere lo splendore degli antichi liberando la conoscenza dalle catene dei dogmi di fede. Alla vista del mio capo, senza un corpo l’entusiasmo fu tale che l’erudizione lavorò di fantasia.
Da chi aveva avuto origine Napoli? Una sirena? E allora i resti perduti di quella fanciulla, priva di arti inferiori, non potevano che essere della fondatrice e custode di Napoli. Per il mio popolo non ero più una divinità iperuranica ma una madre benevola. Per tutti sono diventata la mortale Partenope, la fanciulla greca che si gettò nelle acque del Tirreno dalla nave che la portava via dalla sua patria e dal suo amore, Cimone, trasformandosi in una incantevole sirena e giungendo morta sull’isolotto di Megaride, primo nucleo della città di Napoli, dove sorgono ora Borgo Marinari e Castel dell’Ovo.
Fu in quel momento che accadde. La dura pietra, di cui ero fatta, iniziò a prender vita, a modificarsi. Gli occhi si gonfiarono e le gote si appesantirono come dopo un lungo pianto, le labbra si schiusero in un gemito. Conobbi il dolore. La sofferenza generata dalla passione. Ero furiosa, sentivo che avrei potuto scatenare l’inferno in terra, ma scelsi di riversare quell’amore inappagato che mi ruggiva dentro verso quel popolo che mi aveva scelta come genitrice.
Fui trasferita su un piedistallo in Piazza Mercato. Ero felice, non solo perché potevo stare in mezzo alla mia gente, ma anche perché, erano gli inizi del XVII secolo, e sentivo che qualcosa stava cambiando. Un tempo di sciagure si stava abbattendo sul mio popolo ed io volevo essere lì, accanto ai miei figli. Ad uno, in particolare, il più coraggioso, il più temerario, il più disgraziato: Masaniello.
Tommaso -gli dicevo- cosa ti sei messo in testa? Sfidare l’intero governo spagnolo da solo? Lo so che, insieme alle tasse, ci sottraggono l’anima, ma aspetta di avere un piano, di avere dei compagni fidati. Statt’accort!
Niente -sapete come sono i ragazzi- non feci in tempo a finire la mia raccomandazione che già se n’era andato per compiere il suo destino. L’esercito straniero accorso per sedare la rivolta, riconoscendomi come madre di quel figlio ribelle, mi si scagliò contro, sfigurandomi. Mi ritrovai senza naso ma soprattutto senza Tommaso. Fu dichiarato lutto cittadino per me e per quel figlio colpevole solo di aver creduto in un mondo diverso. Cercarono in tutti i modi di rimuovere la sofferenza dal mio volto, di riparare al danno, ma la pietà dei marinai del porto fu vana. La pena di una madre non può essere colmata. Stavolta non fui consapevole del cambiamento che in me stava avvenendo. Era finita l’età della spensieratezza, delle frivolezze, dei giochi profani. Per tutti fui, da allora, una santa: la Madonna.
Col tempo, ho capito che devo solo a questo “sacro riconoscimento”, il fatto di trovarmi ancora tra di voi perché i guai per me non erano ancora finiti.
Nel 1799 fu proclamata la Repubblica Partenopea, filofrancese, e i capi della rivolta mi identificarono con la Marianna, in Francia, simbolo della Libertà, dell’Uguaglianza e della Fratellanza. Il popolo si divise in due: una parte mi adorava come la Salvatrice e l’altra, fedele ai Borbone, come una traditrice.
Dicevo, mi salvò il Cielo: tra Madonna, ‘a Maronna, e la Marianna non c’è, poi, questa grande differenza. Trovai la pace e divenni per tutti Donna Marianna.Nel 1879 riebbi anche il mio naso. Certo, non proprio l’originale, ma ne sono grata comunque al mio benefattore, il patrizio Alessandro di Miele, che provvide anche alla base di piperno che ancora oggi mi sostiene.
Ed eccomi qua, miei cari. ‘na vecchia capa, su cui il tempo ha lasciato le proprie impronte -segni preziosi di chi ero e chi sono- una nonna che non chiede altro che vegliare sui suoi nipoti, scambiando ogni tanto ‘na parola. Mi chiedevate chi fossi veramente. E che importanza ha “chi sarei dovuta essere” rispetto a “ciò che sono stata”?

 


 

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