Schiattarella | La fabbrica dei sogni
C’era una volta… e subito la mente si rivolge, non ad un passato remoto, come ci si aspetterebbe, ma ad un futuro in cui tutto è possibile. Più che un’espressione introduttiva, una formula magica capace di spalancare le porte dell’anima, perché l’eroe/l’eroina delle fiabe non è mai il mero protagonista di un racconto, ma sei tu e la tua sete di avventura, il tuo desiderio di rivalsa o riscatto. Come affermava lo scrittore britannico G. K. Chesterton, nel suo The red angel, tratto dalla raccolta, Tremendous trifles
Le favole non danno al bambino la prima idea di uno spirito cattivo. Ciò che le favole danno al bambino è la prima chiara idea della possibile sconfitta dello spirito cattivo. Il bambino conosce dal profondo il drago, fin da quando riesce ad immaginare. Ciò che la favola gli fornisce è che esiste un San Giorgio che uccide il drago.
Ed ecco il dovere morale delle fiabe: insegnare lo slancio vitale, il fuoco che accende l’anima, l’arte di saper sognare ciò che reale ancora non è; persino che il Male, malvagio per definizione e, di conseguenza, distruttivo per vocazione, può essere sconfitto dal Bene, a patto soltanto che tu… ci creda. E se credere nei sogni è l’unica arma in mano ai paladini del Bene, tramandare quei racconti, custodi di una verità universale, diventa fondamentale per garantire la sopravvivenza della specie. Da dove vengono le fiabe? Da ogni parte del mondo e da nessun luogo. A chi appartengono? A tutti e a nessuno, naturalmente. Del resto, come potrebbero essere appannaggio di questo o di quell’autore, se, come ha detto il Poeta, siamo tutti fatti della stessa sostanza dei sogni? E se è vero che lo siamo, non possiamo che esserci nutriti di quella impalpabile materia, sin dall’inizio dei tempi. Racconti tramandati di madre in figlia, “con” e “come” le ricette della nonna, simili ma mai uguali, rispettosi della tradizione quanto dei segreti di famiglia, con la perenne pretesa di un’autenticità, valida fino all’uscio di una nuova abitazione.
Ma se qualcosa dovesse andare storto? Una guerra, un’epidemia, un terremoto…o tutte e tre le sciagure insieme, come nella Napoli del XVII secolo, e l’eredità di famiglia dovesse essere a rischio? Se, per qualche ragione, il ricettario orale della nonna rischiasse di estinguersi con i capostipiti? Allora, forse, un po’ d’ordine in cucina potrebbe far comodo: stilare una lista di quello che si ha a disposizione, un po’ di pulizia sugli scaffali e soprattutto mettere per iscritto ingredienti e pietanze selezionati con cura nella secolare tradizione di famiglia per non perdere neanche una briciola. Un racconto dei racconti, insomma, o per usare la lingua di Giambattista Basile, primo che in Europa si dedicò ad un inventario simile ‘O cunto de li cunti”. Il suo pentamerone, pubblicato postumo tra il 1634 e 1636, è opera di selezione -perché sceglie abilmente cinquanta fiabe della tradizione partenopea ed italiana- ma non selettiva perché capace di moltiplicarsi e generare infiniti altri racconti come una fabbrica di sogni: dalla Gatta Cenerentola alla Cerva Fatata divenute rispettivamente la distratta principessa e la bella addormentata dei fratelli Grimm al Re Porco che ha ispirato la Bella e la Bestia di Jeanne-Marie Lepince de Beaumont, mentre La Gatta Bianca, il Barbablu di C. Perrault. Solo per citare le varianti più note.
Sarebbe riduttivo, però, limitare la ricchezza dell’opera alla mera scelta dei singoli “Cunti” popolari. La “meraviglia” della creazione di Basile sta soprattutto nella costruzione di una mirabile tapestry intessuta mediante una lingua verace, quella partenopea, che permette di scandagliare a fondo fatti e personaggi dai tipici tratti locali, ma che riescono a parlare agli uomini e alle donne di tutti i tempi.
Come la modernità delle parole attribuite a Porziella, figlia del Re d’ Altomonte, nella fiaba la Pulce, una femminista ante litteram. L ’antefatto: il Sovrano morso dal piccolo parassita, anziché schiacciare l’insetto, decide di allevarlo, nutrendolo con una goccia di sangue al giorno, tanto da farlo diventare grande quanto un “castrato”, una pecora. Da qui, l’idea di scuoiare la pulce e di emanare un bizzarro bando: “Chi indovinerà a chi appartiene quella pelle, potrà avere in sposa sua figlia.” Come sperava il padre, i pretendenti falliscono nell’impresa, tutti tranne uno, un orco mostruoso che vince e pretende il suo premio. Il Re è stupito, non immaginava che il suo capriccio gli si sarebbe rivoltato contro, ma non può venir meno alla parola data, piuttosto, come di prassi, più semplice sacrificare una giovane fanciulla per salvaguardare l’onore. Ma Porziella non è una bambola di pezza:
gli occhi si oscurarono, la faccia ingiallì, le labbra caddero all’ingiù e le gambe tremarono e fu proprio sul punto di lasciar volare via il falcone dell’anima dietro la quaglia del dolore.
Bastano tre pennellate a Basile per dipingere il ritratto di una donna in carne ed ossa solo “sul punto di” perdere la propria coscienza, ma in realtà pienamente consapevole. Il suo monologo non è una supplica piuttosto una sentenza:
E quale cattivo servizio ho fatto a questa casa perché mi sia data questa punizione? Che cattiva maniera ho usato con voi per essere messa in mano a questo mostro? O povera Porziella! Ecco che volontariamente finisci come una donnola in gola a questo rospo…
La parola chiave è proprio quel “volontariamente” che compare anche nel testo originale: Porziella ribalta l’ottica della sua presunta colpa “E quale cattivo servizio ho fatto…” su un padre snaturato che non ha pietà di calpestare i sogni di sua figlia
Questo è l’affetto che dimostri per il tuo sangue? Questo è l’amore che dimostri a chi chiamavi la pupilla dell’anima tua? Così stacchi dal cuore chi è parte del tuo sangue […] non sei nato certo da carne umana […] ogni animale ama i suoi figli, tu soltanto ai controcuore e a nausea il tuo seme, tu soltanto hai sullo stomaco tua figlia. […] meglio che mia madre m’avesse soffocato nella culla…
La risposta paterna è l’esatto opposto di quella di Porziella, stereotipata, volgare e perentoria:
…Zitta non pigolare perchè sei troppo linguacciuta, chiacchierona e maldicente! Quello che faccio io è ben fatto! Non insegnare al padre a fare figlie! […] Guarda questa puzza del mio culo che vuole fare l’uomo e fare leggi per il padre! Da quando in qua una che ha ancora la bocca che puzza di latte ha da discutere la mia volontà? Presto, dagli la mano e in questo stesso istante parti per casa sua, perchè non voglio tenere neanche per un quarto d’ora davanti agli occhi questa faccia di sfrontata e presuntuosa.
Appare evidente ora chi sia il vero antagonista della fiaba e chi deve davvero far paura: non l’orco ma il padre o meglio un’intera società ottusa, schiava dei pregiudizi, per i quali una donna che manifesta la propria volontà non può che essere tacciata di stregoneria, la frase “Zitta non pigolare perchè sei troppo linguacciuta, chiacchierona e maldicente!” sembra proprio un preciso riferimento alla lingua lubrica attribuita alle “donne-steghe” nel Malleus Maleficarum di Kramer e Sprenger del 1487. Ma Porziella che “zitta non è stata” non solo riuscirà a sconfiggere il male simbolico, l’orco, nel più classico dei topoi fiabeschi, il bosco, ma tornerà trionfante a casa con tanto di mostro decapitato davanti a un padre/Re annientato – “pentito cento volte”, “mille volte colpevole” afferma Basile- conquistandosi il suo pezzetto di felicità con “un bel marito”.
Lo cunto de li cunti overo Lo trattenemiento de Peccerilli, questo il titolo completo scelto da Giambattista Basile per un’opera fantastica eppure a tratti così spaventosamente reale, consapevole, forse -quasi quattro secoli prima di G. K. Chesterton- della necessità di imparare con le fiabe che un’altra realtà non è solo un sogno.