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Spinelli | Gli amanti

Ares J-2507 cammina benissimo, su ogni tipo di terreno o superficie, non importa se piana o scoscesa. Sa anche correre e saltare, arrampicarsi e fare le capriole all’indietro: con una temperatura esterna attuale di 36°C ha già percorso 9km nel tempo esatto di 00h47’12”, partendo dalla fortezza militare di Sira per giungere in questo momento nell’area che era dell’autorità portuale. Il suo cammino è iniziato in alto, dal cratere dell’isolotto, per ridiscendere lungo i viottoli sterrati fino al ponte, risparmiato tutto il tempo ai bombardamenti. Il ponte congiunge l’isola alla città, e una volta nel mezzo Ares ha dovuto difendersi da due attacchi, uno dopo l’altro, proprio come era stato previsto. Come auspicato, tutto ha funzionato alla perfezione: i sensori hanno rilevato ogni movimento e reagito con la massima prontezza. Dopo il ponte tutto è andato liscio, non c’è stata più nessuna interruzione, e la sola cosa che pareva procedere attorno a lui, con lui, era il vento. Che pare procedere. A volte, nei movimenti che fa, Ares sembra ballare sulla sabbia, quando ad esempio si arrampica sui cumuli di macerie delle musciarabie o dei grattaceli color cammello, distrutti; il vento fischia tra i pezzi di griglie rimasti in piedi e lui, con i suoi 85kg di grazia, di velocità e destrezza, plana sul deserto, sì, potremmo dire che plana piuttosto, come farebbe una foglia arrivata da chissà dove. Il sole, ancora alto, illumina e risplende su il suo corpo di alluminio e titanio, dove la polvere scivola e gli elementi metallici, agili, possono continuare a brillare nello schermo, con tutto quel colore di miele intorno o di pietra esplosa; un colore di ambra opaco, che sembra osservare con un occhio di rosso nel giallo e uno di nero nell’oro dei raggi solari.
Tutto quell’oro irradia dal monitor persino sul volto di Ágnes e dà luce alla sala da pranzo della donna, grigia, spoglia, la donna come pure la sala da pranzo, al secondo piano di un’abitazione nel centro esatto dell’Europa. L’abitazione dista pochi metri dalla stazione dei treni-merce e la stazione dei treni-merce pochi chilometri dal confine con l’Austria. Dalla finestra del suo studio-soggiorno Ágnes guarda e sente ogni giorno le file di vagoni arrivare a Hegyeshalom, sostare per qualche ora e ripartire. Sostano per cambiare locomotiva e impresa ferroviaria, i carri però restano gli stessi lungo tutto il percorso: le cisterne trasportano solitamente gas o distillati del petrolio, mentre i container più spesso beni di consumo, bevande soprattutto. I vagoni per il grano si vedono solo raramente, perché quelli che attraversano l’Europa vanno quasi sempre da Est a Ovest, non da Sud a Nord, e dall’Ucraina quindi passano direttamente in Polonia, non in Ungheria. Sono altre arterie, altre vene che trasportano un altro sangue del continente. Così fuori dalla finestra, ogni giorno, ci sono vagoni vecchi di chissà quanti anni, mangiati dalla ruggine, che pure continuano ad andare avanti e indietro, ma ci sono anche container e cisterne nuovissimi, appena ingialliti dal terreno o dal fango, oppure impreziositi dai graffiti di qualche giovane artista a nascondere i segnali; e di tanto in tanto per questo ci sono pure i ragazzi morti, di notte più spesso o verso l’alba, ragazzi pazzi che non leggono i segnali e si arrampicano per vedere dall’alto le stelle, per morire fulminati sotto i cavi dell’alta tensione: corpi elettrici da raccogliere poi al mattino, bruciati. Nel porto di Aden invece non si distingue più nulla, umani, container. Non si distinguono i pezzi delle gru da quelli dei carri armati: gli scheletri di ogni cosa e ossa accumulate si scioglieranno presto e finiranno in mare, e ciò che non si scioglierà sta già essiccando, ha il colore della merda fumante, che una volta indurita sarà carta per geroglifici nuovi, quando quelli come Ares avranno amore e dolore di scrivere, di specchiarsi. La prima scrittura sarà marrone.

Vogliamo tutti che tutto finisca, pensa Ágnes ipnotizzata da quella specie di solfatara. Lei sa che la terra fuori da casa sua è diversa: oltre i binari andando verso il lago, dove ci sono i campi e la gente pensa che si possono coltivare ancora i cereali, la terra è umida, è piena di vermi ancora vivi e da lì vengono le coccinelle certi giorni d’estate fino alla sua finestra, per scampare alla morte chimica.

Ares si blocca.
Si è fermato, è successo qualcosa, ma non si vede.
Ágnes sgrana l’immagine, diventa un po’ più verde, prova a capire, mentre Ares non ruota il capo e punta fisso in avanti; Ágnes ruota l’inquadratura esterna, ma continua a non vedere niente.
Pochi secondi, due immagini, una in basso a destra ancora su di lui e un’altra sull’esterno che fa un giro a 360° ed ecco, finalmente ecco
cosa è alle sue spalle
non davanti, è dietro, è un occhio
è nascosto, quasi sepolto.
È vivo
la palpebra si muove
Ares lo sa
Ares ha intercettato
è stato raggiunto
non può muoversi
Ares sente, ma non può fare niente.
Lo squillo del telefono sulla scrivania la fa saltare dalla sedia.
È solo un messaggio.

Millecinquecentochilometri circa, ecco: se io dovessi andare da lei ci metterei almeno venti ore, senza fare fermate, ma è impossibile. Potrei stare una notte a Bologna e poi proseguire il giorno dopo fino a Udine, sud dell’Austria e quindi Ungheria, appena dopo il confine. In un giorno dovrei farcela.
Michele sta con la testa fasciata dal visore e studia il tragitto che da Matera conduce fino ad Ágnes, perché vorrebbe rivederla, toccarla di nuovo, anzi toccarne la pelle, le braccia, intanto che aspetta di avere accesso nella sua stanza. A Matera sono quasi l’una e mezza del pomeriggio, è controra, la gente dorme e i gatti si spalmano sui sassi, chiazzandoli di rosso, di grigio e di nero. Quello del dopopranzo, nel Mediterraneo, è il momento propizio per l’accoppiamento, non si muove una foglia, e questa è la settimana della festa della discesa dello Spirito Santo: il paese comincia a essere preso d’assalto dai turisti del Nord-Europa, tutti i vichinghi appassionati di archeologia, che vengono qui in questi giorni e se ne vanno in giro per la gravina, chiamano tracks le loro passeggiate rupestri, imparano dalle guide a riconoscere le cicorie, da qualcun altro i funghi se un poco ha piovuto nei giorni precedenti, scostano le pietre, invadono il paesaggio, è maggio, è il momento che anticipa i sabba estivi, le orgie dei commercianti di souvenir e dei ristoranti, è maggio, si danno sempre appuntamento il mercoledì a quest’ora, Michele e Ágnes, ma lei è in ritardo, deve essere successo qualcosa. Hi. Can you now? È il messaggio senza risposta. È che vorrebbe sentirne l’odore, mentre gli si riempiono le narici di caffè dalla strada e di detersivo per i pavimenti.

Michele non sa nulla della vita di Ágnes, si sono visti una volta sola, a San Silvestro, erano in un ostello a Vienna e tutto è cominciato per caso, poi si sono scambiati i numeri, lui sa semplicemente che lei è ungherese e basta. Non sa bene quanti anni ha, non sa che lavoro fa, spesso ha pensato che facesse questo di mestiere, tanto le viene facile e naturale; ma non con lui, da lui non prende soldi, o almeno non direttamente, magari lavora per qualche agenzia pagata dalle pubblicità, non lo sa, ma è l’unica donna che conosce che non perde tempo in chiacchiere, che se risponde è sempre pronta.

Agnes invece sta perdendo tempo, dovrebbe solo far finire tutto quanto, ma non lo fa. Da una montagna di detriti alle spalle di Ares sbuca il muso di un animale sconosciuto, forse un agnello, oppure un lupo. Sembra sporgersi, tende il collo, forse vorrebbe riemergere del tutto, ma deve essere incastrato, immobilizzato da qualche parte. Ágnes, rapita, riprova a ingrandire con la lente e il programma apre ancora una finestra per mostrare lo schema di una iena. Il rilevatore non segnala altre presenze, l’animale deve essere solo, ma il problema è che Ares non risponde, l’animale riesce appena a tirare fuori in qualche modo la testa e ha orecchie nere enormi, come di un topo Disney, e gli occhi color dell’ambra quasi rossi. Tra le orecchie ha una cresta pure nera, ma il resto del pelo è arancione e il muso è grigio scuro, un muso lungo sottile che deve essere affamato e allo stesso tempo troppo debole per azzannare: uno scampato alla catastrofe forse non pensa ad altro che a morire, Ares non sa cosa sia morire o pensare di morire, però sa uccidere, non sa cosa fa, ma sa che è la cosa da fare, anzi non lo sa, lo fa e basta, non ci sono altre opzioni, non può sbagliare, mentre noi invece sbagliamo sempre, pensa Ágnes, noi siamo prevalentemente il risultato dei nostri errori, imitare gli umani vuol dire imitarne gli errori, la bestia continua a tirare per uscire, da qualche parte tira e non smette di desiderare di spostarsi da dove si trova, un moto a luogo qualunque, un movimento senza logica forse solo perché persino il manto peloso chiede di respirare,
respirare
noi siamo aria che entra e che esce
e mani sulla tastiera
noi siamo quasi i nostri comandi
quelli che pensiamo di dare, quelli giusti
e quelli sbagliati
noi siamo
i vincitori
noi abbiamo vinto
la nostra specie,
tu no
tu no
tu sbaglia
non ucciderlo
esce, lo vede, è magrissimo, ha le zampe posteriori rotte, non si regge, deve poter bere,
dategli l’acqua
l’acqua
girati
uccidilo
girati
dagli l’acqua
salvalo
salvalo
ha scritto qualcosa di preciso intanto,
non vincere
dagli l’acqua
non vincere
e poi schiaccia Invio.
Invio.
E Ares esplode.
È una nuvola di fumo scuro nell’inquadratura che non smette di piovere e far cadere il metallo come se cadesse lo Spirito Santo. A quel punto si alza e stacca la presa. È troppo tardi. Hai fatto tardi. Guarda il messaggio: I want you. Guarda lo schermo. E poi ritorna a sentirli, ricomincia a riascoltare il suono che viene da fuori, dei treni che vanno e che vengono, dei treni scassati a freni bloccati. Così va in bagno.
Non ha fatto in tempo a dargli l’accesso. Vede che non è più online. Allora chiede di andare altrove, chiede un’altra posizione: dà le coordinate esatte dell’esplosione e seduta sul water si ritrova improvvisamente ad Aden, Yemen. Lei può. Ha un’autorizzazione speciale. Alcuni pezzi di Ares si riconoscono, riesce subito a individuarli per via del colore. La parte di una gamba, ciò che nei modelli 3D doveva essere la nuca. Sta seduta su un cesso nel mezzo delle rovine del porto, dove ancora non tutto è morto. Una iena la osserva, ma non sa bene se sta osservando proprio lei, non sa che cosa sia la iena. Intanto sente dei passi, non è sola. Un’ombra si stende sul terreno. Qualcun altro è entrato.

Con chi stai giocando, con le pietre?, chiede Lella, la sorella, quando irrompe nella stanza di Michele. Lui sta in piedi con la testa nel casco dinanzi alla finestra, che oltre le tende, oltre la piazza, domina sulla Murgia. Irrompe e gli dice che giù ci sono nuovi clienti e deve accompagnarli nell’appartamento sopra, per aiutarli con le valigie. E andandosene sbatte la porta. Michele aspettava solo di poter entrare nel bagno di Ágnes e invece ha aspettato troppo, ora deve uscire. Gli piace nel bagno, gli piace nel bianco. Resta ancora un po’ nel casco, come incastrato in una tana da cui non sa uscire. Sente tirare, e non smette di desiderare di spostarsi da dove si trova. Nel visore può guardare anche la campagna reale sullo sfondo, le caverne che si aprono fra le margherite, come bocche che parlano, o bocche impazzite, come se fosse Ágnes ad aprirsi, o come quando eravamo bambini, e per farci addormentare mamma diceva che dovevamo fare come le pietre, fare le belle statuine, e io pensavo, come deve essere essere pietra, stare fermo tutto il tempo sotto il sole a stonare, e guardare l’erba e i fiori spuntare come peli: le fissavo, mi abbindolavo e a un certo punto m’immaginavo che parlavano pure, le pietre per dirmi che loro sanno tutto, e che staranno sempre qui a osservarci, perché qui è casa loro e noi siamo solo turisti in vacanza. A quel punto dormivo e spesso sognavo di spaccarle, le spaccavo per vedere dentro cosa c’era. Le aprivo e ci entravo.
Esce.
Le valigie.

 


Foto di Xu Haiwei

 

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