Interview | Chiara Criniti
Che si tratti di illustrazione, di lavori su carta, cartone o tela, le opere di Chiara Criniti, illustratrice italiana diplomata in Scenografia presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce, volgono lo sguardo all’imperfezione, spesso al disagio, certamente ai movimenti dell’anima. I soggetti delle sue illustrazioni sono spesso personaggi provati dal tempo, dalle esperienze, dagli eventi drammatici legati a sentimenti di intolleranza e razzismo. In particolare la ricerca di Chiara indica un percorso intimo, segnato dalla necessità di arrivare alle profondità del “sentire”, in una narrazione che mostra un’umanità fragile, non per debolezza interiore ma per naturale vocazione. La nostra Editor Carla Saracino ha raggiunto Chiara nel suo studio-laboratorio per approfondire il suo percorso artistico, i temi principali della sua ricerca e il ruolo imprescindibile della letteratura nelle sue illustrazioni.
La tua storia inizia da Lecce. Se non sbaglio, è il luogo della tua prima formazione. Raccontaci degli studi che vi hai svolto e se vi hai incontrato figure diventate di riferimento per la tua attività.
Ripensando a quegli anni li rivivo sempre con stupore perchè sono stati un cammino sofferto e tortuoso verso l’autoaffermazione della mia vocazione artistica. Dici bene; a Lecce ho frequentato l’Istituto Tecnico per Periti Aziendali e Corrispondenti in Lingue Estere e successivamente l’Accademia di Belle Arti, con indirizzo Scenografia, non prima però, di aver sostenuto alcuni esami alla facoltà di Lingue e Letterature Straniere. Come vedi è stato davvero tortuoso. L’Accademia di Belle Arti ha rappresentato un felice approdo dopo anni di naufragio in studi che non amavo e sentivo non essermi congeniali, seppur portati a termine con successo e gratificazioni. Non vi è una figura che sia stata per me di riferimento o ispirazione, ma posso affermare che entrare a far parte di quell’ambiente creativo in cui poter condividere la forte pulsione per l’arte, mi ha fatto sentire finalmente nel posto giusto. Questa sensazione non mi ha più abbandonata e ha confermato i movimenti interiori che sentivo nell’infanzia e per tutta l’adolescenza, ma che non avevo saputo assecondare prima, con maggiore determinazione.
Fai riferimento all’infanzia e all’adolescenza come primi spazi di luce, sospetto e mutamento. Accade in certi anni cruciali di “presentire” qualcosa, anticipando in qualche primitiva forma ciò che saremo. Forse il lavoro dell’artista è questo: un proseguimento della vocazione al gioco e al piacere che ne deriva. Sei d’accordo?
Si, certo, ma aggiungerei che nel compimento dell’opera, il gioco assume contorni più stringenti. Mi spiego meglio. La vocazione all’arte presuppone certamente la disponibilità al gioco, inteso come luogo della simulazione di realtà attraverso l’uso della metafora. Aggiungiamoci anche una buona dose di divertimento. Ma non basta. Bruno Munari affermava che “il gioco è una cosa seria”, quella stessa serietà che è richiesta all’artista perché l’opera possa vedere la luce. Il gusto per il gioco è la spinta iniziale all’agire creativo che si sostanzia di duro e costante lavoro. Inoltre, come per il gioco, anche l’arte necessita di uno sguardo aperto verso ogni direzione, in special modo verso sé stessi e la propria interiorità. Un artista che non sia disposto a sondare con curiosità il mondo che lo circonda e non tenda l’orecchio all’ascolto delle vibrazioni della sua psiche e della propria anima, accettando anche di poter fare scoperte sconcertanti e inaccettabili; questo artista è destinato a inibire le proprie pulsioni a favore di una creatività smunta, priva di spiritualità e di quell’Io che la rende unica.
Fino a qualche anno fa lavoravi come illustratrice di libri per l’infanzia. A un certo punto, hai volutamente preso le distanze da qual mondo. Ciò è coinciso con un periodo di inevitabili trasformazioni. Cosa hanno comportato e significato per te?
Questo passaggio posso considerarlo fondamentale al pari della decisione di lasciare la facoltà di Lingue per frequentare l’Accademia di Belle Arti. Non è stata una scelta immediata, bensì maturata in anni di lavoro, scanditi da fallimenti e gratificazioni, crescita tecnica e stilistica. Gli anni dedicati all’illustrazione per l’infanzia sono stati ricchi di esperienze, di studio, ricerca, elaborazione di un progetto artistico, e tutto questo bagaglio è stato decisivo per la mia crescita professionale. In quegli anni ho gettato le basi per la costruzione del mio universo estetico e li considero fondamentali. Lentamente però ho preso coscienza che l’illustrazione per l’infanzia non mi permetteva di essere autentica e libera nei contenuti e nelle forme, e che la mia visione non corrispondeva ai contenuti e alle forme della fiaba. L’albo illustrato ha le sue regole. L’oggetto delle mie investigazioni interiori è una realtà che non posso e non voglio edulcorare perché divenga rassicurante o fruibile ad un determinato target. Non escludo, però, che anche un bambino possa trovare interesse e significato nei miei lavori. Ma questo è un altro discorso. Ho molta fiducia nelle capacità interpretative dei bambini, che sono fruitori privi di preconcetti e capaci di una visione ad ampio spettro di significati, compresi quelli più celati dietro un’apparente mancanza di senso. Mi chiedi cosa ha comportato e significato per me questo passaggio. Un totale senso di liberazione. L’illustrazione per l’infanzia, in un certo senso, rappresentava per me una censura.
La malattia mentale è uno degli sfondi tematici più presenti nella tua opera. Al di là della plurima significazione artistica a cui si presta, l’argomento sembra toccarti con particolare insistenza. Perché questa tenace attenzione verso le forme del disagio esistenziale?
Il disturbo mentale è un luogo che ho attraversato e che continuo a frequentare per esperienza diretta o attraverso la grammatica sconnessa degli equilibri altrui, anche molto prossimi. Negli anni, ho avvertito l’esigenza di visualizzare queste esperienze maturate nel disagio, dare loro forma e colore, dimensione spirituale, poetica; sublimarle. Quasi una forma di catarsi. La mia ricerca artistica racconta questa imperfezione; lo stato di continua precarietà in cui si dibattono la psiche e lo spirito, fino a toccare il tema più ampio della difficoltà del vivere, dei rapporti umani e delle loro complessità.
Lo studio in cui nascono i tuoi lavori è un vero e proprio laboratorio di idee come pure di strumenti d’artigianato. Sei abituata a maneggiare vari materiali quando dipingi. Cosa significa per te questa commistione di stili che rompe le aspettative ordinarie?
Il mio approccio alle tecniche è sempre stato di tipo sperimentale; la mescolanza di stili un’esigenza espressiva. Procedendo per tentativi accosto tecniche che sento vicine al mio linguaggio e che apportano nuova significazione ai contenuti dell’opera. La commistione di elementi eterogenei crea una trama complessa che mi permette di frammentare la realtà creando campiture prive di dettagli naturalistici ma ricche di suggestioni. L’obiettivo è creare equilibrio nell’imperfezione, intesa non come difetto tecnico bensì come metafora della condizione umana, concetto che è alla base della mia ricerca artistica.
Cito il poeta Mario Luzi: “La cosa e la sua anima? O la mia e la sua sofferenza?”. Nei soggetti dei tuoi quadri non vi è mai una univoca direzione di senso, ma sempre una tesa disarmonia tra opposti, talvolta binomi interroganti e in lotta che crescono o decrescono nello sguardo di chi osserva. Una sorta di lacerante dualità che si rivolge al genere umano e al suo vocabolario più complesso, quello che riguarda la vita e la morte, poste faccia a faccia in una lotta estenuante e difficile da decifrare…
Molto bella questa lettura che fai dei miei lavori e ti ringrazio anche per lo spunto offertomi dagli splendidi versi che mi proponi e che mi permettono di riallacciarmi al tema dell’imperfezione, al quale tengo particolarmente, attraverso i concetti di anima e sofferenza.
I contrasti formali, stilistici, annientano il concetto di univocità, escludono ogni rassicurazione. Lo sguardo percepisce le disarmonie, avverte le discrepanze, gli indizi lasciati sulla scena. E’ quasi una caccia al tesoro che si compie nell’atto del decifrare. Ogni tassello avvicina alla scoperta di un contenuto più profondo, ad una difficoltà di più alto livello. Il rebus si complica, richiede partecipazione commossa, come guardare una vecchia foto di famiglia, che riporti alla luce i dettagli più toccanti dell’esistenza, quelli legati alle nostre fragilità, alle parole non dette, agli errori commessi; indizi banali, piccole tracce di un subliminale incontro con le profondità del nostro Io universale, con la complessità archetipica.
Sei legata pure al vasto tema del linguaggio, che non releghi nel solo calco dell’arte figurativa. Mi riferisco al tuo essere curiosa lettrice di prosa e poesia, oltre che fruitrice di metafore letterarie spesso poste in calce o come didascalia alle tue opere. Qual è il ruolo della letteratura nella tua esperienza di artista?
Imprescindibile. Non riesco a immaginare il mio lavoro senza il sostegno della lettura. Il rapporto con i libri è sempre stato intenso, una sorta di innamoramento che ha segnato ogni tappa della mia vita, caratterizzandola. Ogni periodo è scandito dal legame con un genere particolare e questo rapporto è maturato col tempo. Oggi, l’esperienza della lettura non è più soltanto un momento di “evasione”, ma lo spunto costante di ispirazione, conoscenza e approfondimento di quei temi che rappresentano il fulcro della mia ricerca. Il lavoro dell’artista e il suo progetto, ruotano intorno a quella che definirei un’ossessione, che alimenta la creatività e che necessita di un costante flusso di nozioni, esperienze e informazioni per maturare ed evolversi. Considero fondamentale l’apporto della lettura a questa crescita. Inoltre l’esperienza maturata nel campo dell’illustrazione mi ha disciplinata alla ferrea regola del rapporto testo/immagine. Molto probabilmente l’utilizzo di piccoli testi poetici come didascalia alle immagini, deriva da questa formazione.
Che tipo di influenza esercita nella tua arte il paesaggio del Salento, luogo in cui vivi? Esiste una correlazione di sguardi tra ciò che fermi sulla tela e la trasparenza suggestiva delle tue geografie?
Credo di si; anche se non sempre si tratta di una correlazione diretta, di tipo figurativo, come avviene per alcuni lavori astratti evidentemente ispirati più alla topografia del territorio in cui vivo che ai suoi aspetti naturalistici. Se penso al mare come fonte di ispirazione ne avverto il mistero, la sua carica simbolica, metafisica, psicologica. Il paesaggio inteso come scenario naturale è poco presente nel mio universo iconografico. Le ambientazioni che amo creare sono spesso impersonali, prive di connotazioni paesaggistiche, ma appartengono alla sfera dell’inconscio, del sacro; non si tratta di luoghi dell’abitare ma di spazi di significazione.