Interview | Fabbri – Fallone
Monolith incontra e pone a confronto due editori italiani: Gianfranco Fabbri de L’Arcolaio ed Enrica Fallone della Fallone Editore. Raggiunti telefonicamente, ci hanno raccontato delle loro attività, dei loro libri, del loro rapporto con gli autori e di cosa significhi, oggi, dedicare il proprio tempo ai lettori, ai cambiamenti in atto e alle rapide metamorfosi della società.
Il disegno di un’impresa, qualsiasi essa sia, prefigura una preparazione, quasi un’anteprima, che spesso va ricercata in anni ed esperienze non sospetti. Quando e come è iniziata la vostra attività editoriale?
G. Fabbri: La casa editrice L’Arcolaio vide la luce, esattamente, l’8 gennaio del 2008. Nacque da un progetto che avevo in mente da tanto tempo e che si era consolidato grazie al blog “La costruzione del verso”, che nei primissimi anni duemila curavo, in particolare cercando nuove voci poetiche attraverso una rubrica intitolata “Le bacheche”. Si trattò di un vero e proprio lavoro editoriale a cui parteciparono in molti. C’era un turnover interessante, fatto di nomi emergenti che poi si sarebbero affermati nel mondo della poesia. Avevamo flussi di centinaia di commenti al giorno. Successivamente a quel periodo, avvennero fatti dolorosissimi, come la morte dei miei genitori a distanza di pochi mesi e la perdita del lavoro. Fu mio fratello a convincermi della opportunità di cogliere il momento e di fondare la casa editrice, mio antico progetto, offrendomi sostegno morale e materiale, ospitandomi nel suo ufficio. Io lo presi sul serio e così nacque L’Arcolaio, nome che devo a un sogno in cui mi apparve mia madre, a distanza di qualche tempo dalla sua scomparsa, che mi parlava proprio di un arcolaio. Lo interpretai come un simbolo e segno di incoraggiamento per la mia attività.
E. Fallone: Per una serie di circostanze, inizialmente casuali, l’ambiente editoriale è l’unico in cui abbia lavorato, fin da giovanissima, tra giornali, riviste, agenzie letterarie e case editrici. All’università ho intrapreso studi letterari con specializzazione editoriale, senza pensare realmente di aprire una casa editrice, mi sembrava un’impresa troppo grande per essere presa in considerazione. Il desiderio, che lentamente si è fatto progetto, di creare una realtà che avesse la mia fisionomia, un incedere lento ma deciso, è maturato tra il 2015 e il 2017: due anni per meditare un’idea organizzata, una linea editoriale e una scala valoriale che combaciassero con me senza prevalenze egoiche o narcisistiche, nel senso che una casa editrice, dal mio punto di vista, esiste in ciò che pubblica, quando l’editore si eclissa e si fa deus ex machina, lasciando che siano i libri a venir fuori.
Esistono i mestieri e poi esistono le vocazioni. Nei casi più fortunati, le due cose coincidono. Come interpretate il senso del vostro pubblicare libri: c’è dell’altro, oltre a una opportunità unicamente professionale?
G. Fabbri: Dell’altro sì, di sicuro, anche se non sempre è consapevole. L’antico sogno di realizzare una casa editrice si è aggiunto alla volontà di contribuire in altro modo alla diffusione della poesia in Italia. C’è sicuramente una ragione vocazionale, ma ve ne è anche un’altra di tipo pratico, quella cioè di mettere a punto un’operazione di mappatura dei poeti, una sorta di aggiornamento continuo sulle proposte che arrivano e che possono realmente comporsi in un panorama interessante, generoso di diversità.
E. Fallone: Come spesso accade per le professioni autonome, per quelle in qualche modo creative in particolare, essere editore travalica il margine della sfera lavorativa: inevitabilmente la professione coincide con la vita, in senso fortemente identitario. Quattro anni e mezzo fa, quando ormai era tutto pronto, mancava solo l’atto formale, ho vissuto una settimana di assoluto tormento: era quello che desideravo, mancava pochissimo, eppure volevo essere completamente certa di ciò che stavo per fare, perché sapevo che poi non mi sarei più potuta tirare indietro. Ecco, non se ne esce, un po’ come dai labirinti concentrici di Borges, in cui la destinalità si intreccia alla scelta personale: non c’è scampo, come da ogni cosa che sia propria.
Alla luce della realtà in cui viviamo, fatta di repentini mutamenti sociali che spesso non si adattano alle vite intime di ognuno, che significato attribuite alla relazione con le opere che pubblicate e con i loro autori?
G. Fabbri: Il rapporto in generale è diventato più problematico, anche solo rispetto a quindici, venti anni fa. Un tempo era meno “bulimico”, cioè meno sottoposto a così tante sollecitazioni. Ultimamente l’eccessiva inflazione di nascite di case editrici e pubblicazioni danneggia e crea sovrabbondanze inutili. Personalmente ho deciso di ridurre il numero dei titoli editi. Nell’ultimo anno, ad esempio, abbiamo dato alle stampe solo nove unità. Non mi va di assecondare la corsa frenetica all’apparire. Del resto è ridicolo produrre una grossa somma di testi se poi, dall’altra parte, le vendite sono veramente a livello, minimo, “omeopatico” direi. Ne consegue una scelta tesa alla qualità e appunto alla relazione privilegiata, intima, con i miei autori. Di alcuni sono amico, persino geloso quando passano a case editrici differenti! Con alcuni magari non ci si trova per una naturale distanza umana, ma esiste pur sempre un incontrarsi nella comune vicinanza alla letteratura.
E. Fallone: Credo che la letteratura debba nutrirsi del tempo in cui vive senza diventarne schiava. Mi spiego. Se parliamo di linguaggio, mi pare evidente la necessità di stare in un tempo linguistico che non può più essere quello pascoliano o manzoniano (due mostri sacri, Pascoli e Manzoni, ma scrivere come loro nel 2021 è ridicolo, anche perché loro sono già esistiti e non sono replicabili); se parliamo di contenuti, il discorso diventa più complicato, perché bisognerebbe chiarire che la letteratura sta da una parte e la cronaca dalla parte opposta, senza contare i diari privati che stanno bene solo sulla scrivania dell’analista (a meno che non si tratti di testi di un grandissimo autore morto da decenni). Quindi, per rispondere alla tua domanda, non mi occupo tanto della relazione tra l’autore e l’attuale realtà sociopolitica, che sostanzialmente non mi riguarda, anzi non me ne occupo per nulla, quanto piuttosto della relazione tra l’autore e la letteratura, che sia poetica, narrativa o saggistica, tra l’autore e il linguaggio, la semantica, il pragmatismo testuale. Insomma, mi occupo della qualità dell’opera più che della visione del mondo dell’autore. È chiaro che, dopo aver tanto selezionato, dopo aver scelto, con l’autore si crea un rapporto di grande prossimità, di vicinanza, di familiarità direi, perché l’opera appartiene a entrambi, entrambi ne abbiamo cura. L’affettività e la stima che passano sotterraneamente sono i motori immobili che spingono avanti ogni singolo libro.
L’Arcolaio e Fallone sono comunemente annoverate tra le cosiddette “piccole” case editrici. Quali sono i rischi e i vantaggi dell’essere etichettati in questo modo e cosa vi differenzia dalla grande editoria?
G. Fabbri: A livello tecnico ed informatico la piccola casa editrice ha ormai tutto ciò di cui dispone la grande. Noi de L’Arcolaio, ad esempio, abbiamo un distributore efficiente e i nostri libri si vendono sia nelle librerie fisiche sia in quelle online. Siamo raggiungibili da tutti, insomma. Ciò che ci distanzia dalle case editrici più grandi è certamente la potenza economica. Sarà banale dirlo, ma è così, benché anche le cosiddette major ultimamente siano carenti dal punto di vista della quantità di copie proposte. Mi riferisco nello specifico alla poesia. Tra gli scaffali di questo settore langue una certa disponibilità al rinnovamento. Quindi, ribadendo, a livello tecnico abbiamo tutto per farci conoscere. Il dramma è che non c’è mercato.
Tra i vantaggi evidenzio sicuramente il fatto che le piccole case editrici hanno più libertà e meno strategie di difesa, e fanno da apripista per alcuni nomi che poi vengono richiesti dalle grosse vetrine. C’è persino un fatto inverso: può accadere che scrittori o poeti di fama accettino ben volentieri di pubblicare delle plaquette con case editrici di dimensioni più modeste. A noi è capitato di pubblicare Alessandro Fo e Fabio Pusterla i quali, contattati dai miei curatori di collana (che non finirò mai di ringraziare), ci hanno accordato fiducia e disponibilità, pur avendo già prestigiose pubblicazioni alle spalle.
E. Fallone: “Piccolo editore” viene fuori da una classificazione stilata sulla base dei titoli pubblicati annualmente e che, sì, poi rischia di diventare un’etichetta, ma francamente a me non dispiace per nulla. Si adatta bene alla mia indole e al mio punto d’osservazione sul mondo: ha a che fare col lavoro artigianale, quindi con la cura, l’affettività, l’unicità e la disposizione non caotica di ogni singolo elemento. E dà molta libertà, che per me è fondamentale. La libertà di tenermi consapevolmente distante tanto dalle derive del politichese quanto dal rigogliosissimo sottobosco letterario; di tentare una coerenza con me stessa che la produzione serializzata necessariamente complicherebbe. Posso scegliere, e infatti scelgo.
Può succedere che un editore a volte si prenda troppo sul serio, diventando egli stesso autore e abitatore di una casa privata in cui dare spazio alle solite preferenze. Come fate a non cadere in questa tentazione? Come fate ad aprirvi al nuovo, ad accogliere voci sconosciute, a non avere preclusioni?
G. Fabbri: In questo senso devo ringraziare quelli che chiamo, forse un po’ pomposamente ma con autoironia, i miei direttori di Collana, amici che decidono cosa pubblicare, dietro mio ultimo parere, nelle Collane affidate.
Da Gianluca D’Andrea a Diego Conticello, da Luciano Neri a Stelvio Di Spigno, la loro diversità di sguardo, di stile e di visione mi permette di godere di un ventaglio ampio di nomi in catalogo.
Avvicinandomi a collaboratori così diversi tra di loro, per storia e formazione, posso in parte ovviare all’inconveniente di risultare prevedibile o scontato. Se L’Arcolaio ha una qualità molteplice di scelte, lo devo proprio alla profonda interazione del loro lavoro.
E. Fallone: Dare spazio al nuovo credo rientri pienamente nel lavoro artigianale a cui accennavo prima. In un mondo di valore l’opera dovrebbe prevalere sull’autore, e in effetti nella verità del tempo prevale, ma nel breve periodo assistiamo spesso a un processo inverso legato a dinamiche commerciali e necessarie, seppur lontane anni luce dell’affermazione di talento che dovrebbe – vorrebbe – essere l’ultimo baluardo di un lavoro di ricerca letterario. Nel tempo contemporaneo è frequente che un editore, dovendo essere anche un imprenditore, si chieda chi è l’autore, quanto è conosciuto, quanto può vendere, quali vantaggi può apportare alla casa editrice, e solo in un’ultima analisi, forse, si preoccupi della validità del testo: tutto ciò è sacrosanto in ottica commerciale, ma incompatibile con la mia visione forse un po’ idealista del fare editoria. Ben vengano, sia chiaro, nomi affermati e consolidati, ma l’azzardo, il gusto del rischio che dà senso e spinge avanti, sta nell’autore esordiente: è lì che si gioca la partita, lì che si pesano le capacità, le competenze e l’intuito.
Quanto utilizzate gli attuali canali di comunicazione e, se posso aggiungere, come ve ne difendete?
G. Fabbri: Be’ li usiamo, come quasi tutti. Personalmente non ho particolari abilità informatiche (mio fratello mi aiuta molto, per fortuna, e mi dà utili suggerimenti); non sono neanche attratto dalle video presentazioni, che trovo piuttosto fredde. Certo, abbiamo un ufficio stampa che curo personalmente, ad ogni recensione di autore facciamo dei promo che vengono diffusi sui social, diamo comunicazioni sul web a chi ci segue e cerchiamo di raggiungere il più vasto pubblico possibile. Dunque c’è un aspetto positivo che riguarda questi strumenti ma personalmente non eccedo, cerco di valorizzare l’incontro umano, laddove è possibile, compatibilmente con le esigenze del periodo pandemico.
E. Fallone: Mi hai fatto sorridere. In effetti “gli attuali canali di comunicazione” poco si addicono alla mia indole anacronistica, e tuttavia qualche posizione all’evoluzione tecnologica bisogna pur cederla. Nell’ultimo anno e mezzo si è reso necessario esistere in maniera più decisa sul web (con video-interviste, presentazioni online, maggiore presenza sui social), che per un’amante come me degli sguardi e delle strette di mano non è cosa da poco, ma insomma, ci si deve adattare – senza esagerare, perché il rischio in agguato è una noiosissima e fragorosa autoreferenzialità. Non cedo alle lusinghe dell’ebook, che certamente presenta molti vantaggi in termini di costi e di rapidità di diffusione, ma snatura la mia personale concezione del libro, che è sì e in primo luogo contenuto, ma è anche oggetto godibile. Resto legata alla carta, insomma, alle librerie fisiche, agli incontri de visu, alla forma e alla materia che rimandano all’immateriale.
Lavorate in due posti relativamente distanti; L’Arcolaio in Emilia Romagna, Fallone in Puglia. Quanto vi conoscete? C’è qualcosa dell’altro che vi incuriosisce e interessa?
G. Fabbri: Di Fallone ho un’idea positiva, anche se non molto approfondita. Andrò a scoprire più analiticamente il suo sito. In ogni caso, la sento somigliante. Mi ispira simpatia. C’è sicuramente un’affinità di rigore, mi dà l’impressione che sia una casa editrice che punta alla qualità. Il fatto che poi sia nata e viva nel Meridione mi fa molto piacere, anche perché sono legato alle realtà editoriali del sud.
E. Fallone: Gianfranco Fabbri è sul campo da molto prima di me, seguo L’Arcolaio con interesse e stima, per il lavoro di ricerca che porta avanti non scontato e lontano dai canali pop che aprono la strada alle vendite facili e alle luci da palcoscenico: è una scelta che non posso che apprezzare. Penso al lavoro su Antonia Pozzi o su Celan, ma anche, soprattutto forse, allo spazio riservato alle voci contemporanee del panorama poetico, piuttosto eterogenee tra loro e di livello, segno che alla base vi sono scelte editoriali precise, non guidate dal semplice gusto personale o dalla simpatia dei circoli da bar, in cui si dà spazio all’amico o al miglior offerente: vi è analisi imparziale e ricerca di qualità.
Come è cambiato negli ultimi anni il rapporto con la lettura? Chi è, oggi, il vero lettore?
G. Fabbri: Purtroppo non si legge tanto. Se avessimo un mercato, le case editrici lavorerebbero in un clima di maggiore serenità. Personalmente credo molto negli studenti, soprattutto negli universitari, acquirenti curiosi di libri. Ne conosco alcuni che addirittura vanno alla ricerca delle case editrici più piccole per comprare titoli meno noti. Poi ci sono le sorprese: penso agli operai che acquistano i libri, che si cimentano con la scrittura e che sentono il bisogno di bonificare i loro confini culturali. Spesso non ce la fanno per mancanza di sufficiente scolarizzazione, non hanno gli strumenti adeguati per aprire le porte, dal momento che sono in ritardo rispetto ad alcune tappe della vita. Con loro mi sento in colpa perché, essendo titolare di un’etichetta abbastanza sofisticata (anche), non riesco ad aiutarli come meriterebbero. Sarebbe utile se queste persone potessero beneficiare di maggiori occasioni di studio (scuole serali, centri di formazione etc.), se fossero accompagnate più da vicino in un percorso di crescita e di riconquista del loro vissuto culturale.
È un vero peccato lo sciupìo del loro patrimonio di sensibilità e di identità. I lettori colti e le case editrici avrebbero decisamente bisogno di attingere ispirazione dai loro punti di vista.
E. Fallone: Non credo che sia cambiato il lettore, semmai è cambiato – in peggio – lo scenario editoriale che gli si prospetta. Ci troviamo davanti un lettore imbarazzato, che si aggira circospetto nel magma incandescente delle novità editoriali, sempre troppe, a cui bisogna aggiungere le autopubblicazioni dell’amico dell’amico che gli vengono proposte. Ma ha pure una sua coscienza, il lettore, una sua giustizia: sa scegliere, ha degli autori di riferimento o delle case editrici, un preciso background culturale per orientarsi. Insomma, il lettore esiste, è sempre lo stesso ed è l’eroe che tiene in piedi le case editrici: se siamo qui, lo dobbiamo soprattutto a lui. Sto dicendo, insomma, che bisogna sfatare il mitologema della carenza di lettori o dei libri invenduti. I “libri buoni”, mi si passi l’espressione, quelli che trovano una ragione nella stampa editoriale, si vendono. Il problema, lo ripeto purtroppo sempre, è che si pubblica troppo, spesso senza criterio. Sicché, a fronte di un forte invenduto di libri che nessuno avrebbe mai dovuto stampare, ci si imbatte in una falsa statistica e nel profilo di un lettore medio che non corrisponde alla realtà.
Photo by Hatice Yardım.
Gianfranco Fabbri
Un grazie di cuore a Carla Saracino e Michele Montorfano.
Gianfranco.