Interview | Titos Patrikios
“Tutti combattemmo ieri, tutti combattiamo oggi”. La Resistenza dei fatti, edito in Italia da Crocetti, chiama a raccolta, invoca gli altri, li riunisce in “un’unica generazione”, per riprendere ancora un tuo verso. Alla luce della tua vita intimamente legata alla storia del Novecento, come vedi il contemporaneo, la sua socialità spezzata dalla paura, una sua certa diseducazione alla fiducia e alla solidarietà verso l’altro?
Avere solidarietà è importante, stando però attenti a non voler esercitare il proprio potere sugli altri. Il grande problema riguarda quelli che pensano di custodire la verità assoluta e di farne una legge generale. È la caratteristica di tutti i totalitarismi. Per un certo periodo, anche io, come molta gente, combattevo per la libertà, ma soprattutto contro la dittatura di un’idea assoluta. Da ragazzo pensavo che l’unica generazione, accomunata da ideali non solo politici ma pure morali, fosse quella che combatteva il fascismo, sebbene all’epoca vi fossero anche altre forme di totalitarismo, come lo stalinismo, il maoismo... Anche oggi bisogna guardarsi da tutte le forme di totalitarismo, che sono segni di attaccamento al potere, non al popolo. Le ideologie stesse non si sforzano di comprendere la realtà, vogliono semplicemente imporre le loro idee nella realtà.
Essere un abitante del Mediterraneo, stare tra le terre, apparire a una geografia frastagliata, complessa, musiva come quella della Grecia delle isole e del continente, stare tra queste mediazioni geografiche, quanto incide sulla tua opera? Quanto di sensuale c’è della Grecia e quanto di culturale?
Non so dire se culturalmente la Grecia ha avuto un’effettiva influenza su di me; ma in quanto alla sensualità… la prima fase della mia vita, l’infanzia, si è svolta sul mare, tra le isole. Ci sono state anche le montagne, al tempo in cui le attraversavo come partigiano, giovanissimo o come alpinista successivamente. Ho sempre avuto un grande rapporto con la natura e il primo periodo della mia poesia lo esprime. Nella seconda e terza parte della mia opera c’è la vita della città; lì si legge quanto sia diventato, profondamente, cittadino.
Una volta, parlando dei figli, mi hai detto che non bisogna mai avere paura di farli: di farli o di sopravvivere al rischio di vederli esposti nudi alle fatalità? A tal proposito ricordo la tua poesia “I Versi” molto amata in Italia.
Mi fa piacere che I versi, sia apprezzata. La cosa strana è che quella poesia l’ho scritta quando avevo ventitré o ventiquattro anni e non avevo figli. L’ho scritta nel campo di confino.
Perché ti è accaduto di pensare ai figli proprio in quel momento? Forse perché stavi facendo i conti con una situazione di vita precaria, fragile…
Non lo so, forse sì. In seguito ho continuato a pensarla nello stesso modo e cioè che sia necessario avere dei figli, come pure sia inevitabile affrontare i conflitti, ma tutto questo fa parte della vita. Senza figli c’è una solitudine assoluta.
La lotta per la vita deve continuare, mi dicesti una volta. E ripenso a un tuo verso. “Una bellezza che dilagava come carcinoma infettando i passanti di speranze”. Allora forse i figli diventano il senso di questa lotta poiché garantiscono continuità e ci fanno durare…
Sì, e in alcuni casi evitare di farli è espressione, secondo me, di un egoismo assoluto.
Talvolta, chi sceglie di non averne sostiene di farlo per miscredenza verso la vita e odio per i suoi assurdi dolori…
Lo dice chi vuole avere tutto il bene per sé. Spesso è una forma di egoismo.
Una volta hai scritto “C’è sempre una barca che naviga nel vento dei 17 anni”. E una barca per la vita cosiddetta adulta? Esiste? Quanta responsabilità portano con sé le età e quanta ne porta il Tempo?
Avanzando nelle età, una persona ha sempre delle nuove responsabilità. Il punto è quello di avere coscienza del cambiamento di sé e dei propri doveri. Continuare ad assumere un comportamento “da giovane” è qualcosa che scade nel ridicolo. Il problema è riuscire ad avere le responsabilità e i desideri della propria età. Mi piace molto una parola italiana, che ha anche un bel suono: “rimbambito” (ride, ndr). Ecco, un grande pericolo è quello di diventare, nel tempo, rimbambiti. Le responsabilità cambiano con le età. Bisogna saperle riconoscere ed assumere. Del resto mutano pure i desideri. Non posso volere oggi ciò che cercavo a ventitré anni…
E forse certe controversie del contemporaneo sono addebitabili al fatto che alcuni adulti fatichino a dire addio alla giovinezza…
Ciò che dobbiamo mantenere della giovinezza è l’apertura al mondo, il non essere chiusi verso gli altri e verso noi stessi o il non essere mai paghi di noi stessi. Capire come e perché cambia il mondo, questa la vera giovinezza. A proposito di cambiamenti, mi sono trovato spesso ad essere interpellato su cosa pensi della comunicazione digitale e delle fake news, che mi danno l’occasione di riflettere su quante bugie circolino attualmente, ovunque. Ma la verità ha una tale forza che può vincere anche la bugia meglio costruita. È pur vero che la bugia sa mascherarsi e ripresentarsi come una nuova verità.
Non a caso, nella poesia “Il nome di un pesce”, dedicata al tuo amico Kostas Kulufakos, pur nella semplicità e nella schiettezza di un testo di immediata lettura, affronti un tema fondamentale: la forza della verità che pure a distanza di anni chiude il cerchio degli eventi e non tradisce se stessa.
L’essere aperti, di cui dicevamo prima, ci aiuta a comprendere di più i nostri rapporti con gli altri. In quella poesia racconto come sia riuscito a capire, mangiando un pesce al ristorante, che il mio amico Kostas, seppure a distanza di molti anni, era stato sincero con me. Mangiando un pesce! (ride, ndr) Solo gli anni, in tutta la loro imprevedibilità, possono svelare chi ci è amico fedele o chi è stato traditore della nostra fiducia.
Il nome di un pesce
Alla memoria di Kostas Kulufakos
Un giorno, ai tempi della deportazione
il mio amico Kostas pulendo un pesce
mi disse che si chiamava Pantaleo.
Lo disse in tono così serioso
che pensai si facesse beffe di me
(eravamo entrambi giovanissimi, allora,
sia pure con due guerre alle spalle).
Fu nel campo di Aghios Efstratios,
un’isoletta a nord di Lesbo,
prima che esplodessero i dissensi interni
quando sapevamo ridere ancora.
Molto tempo dopo la sua morte
in un ristorante sul mare a Lesbo
il cameriere nominò un pesce di nome Pantaleo.
Lo ordinai subito, cotto alla brace, e lo mangiai
per accertarmi infine che il mio amico
mi aveva detto la verità.
Nei tuoi confini, nei tuoi esili, come è stato vivere fuori dalla Grecia? Su quali forze hai dovuto fare leva per ricominciare ogni volta da capo?
Parigi è la prima città in cui sono andato, alla fine del 1959. Lì ho scoperto tre cose fondamentali per la mia vita. Innanzitutto la libertà. Arrivavo da un Paese che veniva da una guerra civile crudele ed era sottoposto ad un regime poliziesco. In Francia ho scoperto la libertà politica, filosofica, delle idee, del comportamento, dell’amore. A Parigi ho anche scoperto il valore e il senso della ragione. Infine ho imparato come si costruisce un buon testo e come si deve arrivare alla fine del suo sviluppo. Un testo letterario sprovvisto di una buona conclusione non ha un gran valore. I Francesi dicono une chute, una caduta. È interessante come nella lingua greca dalla parola fine, τέλος, venga τελειότης, che è la perfezione. La perfezione, in greco, è legata al senso della fine. Un’altra cosa di cui mi sono accorto è che in Francia è molto difficile fare amicizie. Mentre in Grecia, in Italia e nei paesi mediterranei è più facile conoscere persone, in Francia è più faticoso. Tuttavia le amicizie francesi sono più durature di quelle che avvengono da noi. È la stabilità contro la spontaneità! (ride,ndr)
Hai vissuto anche in Italia…
Sì, anche se i miei soggiorni in Italia sono sempre stati brevi e quindi più piacevoli, spensierati. Avevo degli amici a Roma che mi prestavano la loro casa, mentre erano via, nelle vicinanze di Piazza Navona, un grande privilegio… Ho un forte debito verso l’Italia, in particolare per la sua Arte. In Italia ho imparato a riconoscere l’importanza dell’arte nella vita quotidiana. In Grecia o ad Atene l’arte è di una bellezza quasi lontana, mitica, remota. La pittura, l’architettura italiane, invece, sono immerse nella vita ordinaria e nei suoi problemi. È anche in Italia che ho conosciuto più approfonditamente la critica marxista, stalinista, del potere che vorrebbe dominare l’arte.
La tua poesia è profondamente umana. Anzi, scava nell’umano come una grammatica dei sentimenti all’origine della lingua. C’è spazio per la filosofia nella tua opera? L’hai frequentata?
I filosofi mi hanno molto influenzato. Da giovane, lo hanno fatto i presocratici. Poi ho scoperto il materialismo e il pensiero marxista. Tra i pensatori marxisti, mi sono avvicinato a Gramsci. In questi ultimi anni sono ritornato ad Aristotele, particolarmente per le sue idee di equilibrio e misura. Per anni ho praticato l’estremismo, io stesso sono stato un estremista, oggi mi accorgo che esserlo è catastrofico. C’è bisogno, invece, di misura ed equilibrio.
…che sono necessari non solo nella vita ma pure per scrivere e condividere un buon testo poetico.
Sì, infatti. Pensa alle più belle poesie surrealiste: hanno un grande equilibrio interno. La loro struttura è sorprendentemente razionalista anche se si muovono contro la dittatura del razionalismo più oscuro e assoluto.
È di queste ore la notizia della morte di una grande poetessa greca, Kikí Dimulà. L’hai senz’altro conosciuta…
Molti mi stanno chiedendo di lei. Con te mi piace ricordare la nostra “tournée” in Italia. Credo fosse il 1992, insieme ad altri autori greci eravamo stati invitati da Paola Minucci a leggere tra Roma e Firenze, passando per Milano, Venezia, infine Trieste. A Firenze ci fotografarono vicino alla casa di un “collega” (ride, ndr). Ci chiedemmo chi fosse questa persona etichettata col nome di “collega”… scoprimmo che si trattava di Dante! (ride, ndr) Kikí Dimulà fumava continuamente. Io avevo smesso da poco con grande fatica, ma lei ha fumato fino alla fine dei suoi giorni. Un altro grande fumatore era stato Ghiannis Ritsos. Forse il massimo fumatore!
Ed anche il tuo più grande riferimento in poesia…
Sicuramente. Peraltro il fatto che fumasse molto ebbe una strana suggestione su di me da giovane. Con lui arrivai a pensare che forse occorrono tante sigarette per scrivere dei bei versi! (ride,ndr)
Grazie, Titos!
Grazie a te. Ci vediamo in estate.
Sì, a quest’estate.