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Schiattarella | Cambiare prospettiva

Quando il barone Charles-Louis de Secondat di Montesquieu, il 30 aprile 1729, durante la tappa partenopea del suo impegnativo Gran Tour, assiste alla liquefazione del sangue di San Gennaro non ha alcun dubbio che il prezioso reliquiario sia in realtà un termometro che, a contatto col calore, permette di gridare al miracolo; diversamente, si legge nelle pagine del suo Viaggio in Italia,  “quando il sangue viene portato da un luogo caldo ad uno ancora più caldo o da uno fresco ad uno ancora più fresco, il miracolo non si produce”.

Al di là del valore letterario della testimonianza o dell’affidabilità del suo giudizio, è interessante osservare come in queste righe, dichiaratamente personali, sia rintracciabile lo stesso procedimento letterario adottato dal philosophe in una delle sue prime opere, le Lettere Persiane, pubblicate anonime: la critica sociale e lo scetticismo religioso. Ma perché nel primo caso poteva permettersi di esprimere il proprio parere liberamente e nel secondo è costretto, invece, a filtrare il suo sguardo tagliente attraverso quello di un viaggiatore arabo in giro per la Francia e fingere di aver semplicemente trovato una raccolta di lettere di viaggio? Ma soprattutto perché non è l’unico autore del secolo dei lumi ad effettuare la stessa scelta letteraria? Ebbene, veniamo al cuore della questione, la scelta del genere: un romanzo epistolare scritto da finti viaggiatori. Una cosa è giudicare, infatti, un paese lontano che non ti appartiene o un santo che non è nemmeno riconosciuto dalla Chiesa, altra faccenda, prendere posizione sulla propria patria e la religione ufficiale.

Possiamo immaginare che la scelta del tema, del contenuto della propria opera sia, per uno scrittore, di fondamentale importanza, ma a volte si trascura che momento altrettanto essenziale della creazione è quando si deve decidere il modo in cui plasmare quella materia, rendendo, così, “ciò che è” solo in potenza un organismo attivo. Un impegno di grande responsabilità e di coraggio, soprattutto se a scrivere non sono uomini del XXI secolo, ma dei suoi avi nati sotto monarchie assolute, la Francia e la Spagna del ‘700, rispettivamente patria di Montesquieu e di Jose Cadalso, autore delle Cartas Marruecas, le Lettere Marocchine. Progetto quest’ultimo, nato proprio per confutare, come ha rilevato lo studioso Mario Di Pinto, la “lettera incriminata di Montesquieu” ossia la LXXVIII, che riportava l’opinione di un francese sugli spagnoli, ritenuti orgogliosi, arroganti e pieni di pregiudizi religiosi e culturali; una lettera che suscitò notevole scalpore tanto da alimentare una vera e propria guerra franco-spagnola di opinioni sui rispettivi paesi che si sarebbe protratta fino agli inizi dell’800. Eppure se ci si soffermasse a questa prima lettura patriottica dell’opera di Cadalso,  non si coglierebbe la portata critica del suo lavoro né si comprenderebbe il legame intimo e profondo tra i due romanzi. Per farlo, ci giungono in soccorso, le loro prefazioni, elementi che dal punto di vista linguistico-semiotico si caratterizzano come “segnali accessori” spesso trascurati rispetto al corpo principale dell’opera, ma che risultano di fondamentale importanza nel momento in cui l’autore, scegliendo di affidare la propria voce a personaggi fittizi, decide di rivelarsi, esclusivamente, in quelle rapide e apparentemente futili occasioni. Lo stesso Montesquieu definisce l’introduzione “un lieu déjà trés ennuyeux”, un luogo noiosissimo, insomma, ma di cui ha segretamente bisogno. Il fatto stesso che vi ricorra ce ne dà conferma, attestando il carattere strategico di questa posizione rispetto al resto del testo. Il critico Federico Bertoni ha giustamente evidenziato come le prefazioni e gli altri segnali paratestuali diventino indispensabili nel ‘700, perché si pongono a servizio di una particolare tattica retorica, la denegazione romanzesca , si legge nel suo Realismo e letteratura-Una storia possibile, questa tecnica “ diventa la clausola fondamentale di un nuovo patto narrativo: caro lettore credimi questo non è un romanzo”. E allora cos’è?

Alla luce di quest’ultima considerazione è possibile notare come né le Lettres Persanes:

“Les persanes qui écrivent ici étaient logés avec moi […] Ils me communiquaient la
plupart de leurs lettres […] Je ne fais donc que l’office de traducteur: tout ma
peine a été de mettre l’ouvrage à nos mœures.”

Né le Cartas Marruecas:

“La suerte quiso que, por muerte de un conocido mío, cayese en mis manos un
manuscrito cuyo título es: Cartas escritas por un moro llamado Gazel Ben-Aly a
Ben-Beley [….] me he animado a publicarlas.”

sembrano sottrarsi a questa prassi che Rousset ha chiamato «finzione del non fittizio ».

L’autore, trasformatosi per l’occasione in mero curatore, finge di aver trovato un documento autentico che ha semplicemente raccolto e pubblicato. La procedura va di pari passo, paradossalmente, con la richiesta di una maggiore verità e, di conseguenza, di una maggiore aderenza alla vita comune richiesta dalla classe borghese che, emersa nei secoli precedenti, si stava sempre più affermando come classe egemone nel corso del XVIII secolo, anche reclamando per sé una piena dignità letteraria attraverso la proposizione di nuovi schemi e contenuti narrativi. Proliferano, infatti, in questo periodo, diari, memoriali, autobiografie, lettere e relazioni di viaggi: da questi ultimi due, come è noto, trae origine il romanzo epistolare. Il genere offriva la possibilità di unire la curiosità tipicamente settecentesca che spingeva numerosi animi assetati di conoscenza ad intraprendere lunghi viaggi per entrare in contatto con nuove culture- ricorda ancora Di Pinto: “ Si può dire che non si è mai viaggiato tanto come in quell’epoca malgrado i disagi, la lentezza e le difficoltà vettoriali” – ad una forma più breve e diretta di comunicazione, la lettera, diventata nel XVIII secolo il veicolo primario di informazione, scelto dagli intellettuali per uno scambio di opinioni non ufficiale. È vero che le origini di questo genere, come afferma lo storico Perry Anderson, «sono antiche ed eteroclite: dalle Eroidi di Ovidio alla corrispondenza di Cicerone, da Abelardo ed Eloisa ai galatei rinascimentali alle opere delle précieux.»”ma ricorrendo ancora una volta a quel luogo “noiosissimo”, la prefazione, si potrà cogliere l’originalità dell’utilizzo nel secolo della ragione.

In quella di Cadalso,  quando l’autore cerca di delineare una storia del genere, pur ammettendo di conoscere i suoi predecessori (le Cartas Persianas, Turcas e Chinescas) connette il suo lavoro, e di conseguenza quello degli altri, ad un’opera spagnola pubblicata circa un secolo prima:

“Desde que Miguel de Cervantes compuso la inmortal novela en que criticó con
tanto acierto algunas viciosas costumbres de nuestros abuelos, que sus nietos
hemos reemplazado con otras, se han multiplicado las críticas de las naciones más cultas de Europa en las plumas de autores más o menos imparciales.”

È chiaro, a cosa, l’autore stia accennando ,il Quijote, ma potrebbe non risultare del tutto evidente il motivo di un tale riferimento. Cadalso, consapevole dell’estraneità dell’opera di Cervantes ad epistole e relazioni di viaggio autentiche, scelse quel testo, come suggerisce Emilio Martínez Mata, in quanto «novela satírica»’, rivelando così il vero intento dell’opera. La raccolta di lettere del Cadalso, infatti, lungi dal voler essere un mero resoconto di notizie e particolarità annotate da visitatori che effettuano una gita in terra straniera, sottopone ad un’arguta critica la Spagna, paese estraneo agli occhi dei personaggi-viaggiatori, ma ben conosciuto in tutti i suoi pregi e difetti dal reale autore. Quale altro romanzo se non quello di Cervantes poteva fungere da modello a una tale operazione letteraria? Lo sguardo sognatore di Don Chisciotte aveva rivelato, infatti, quello stesso mondo disincantato che Cadalso voleva sottoporre allo sguardo estraneo ma lucido dei suoi personaggi. Non a caso il famoso saggista francese Albert Thibaudet ricordava che era stato proprio Don Chisciotte il primo a pronunciare il suo «No! Di fronte ai romanzi» ovvero alle chanson de geste, ai poemi cavallereschi, quindi a tutti quei racconti di viaggi che mescolavano realtà e finzione tanto da trasformare «la topografia del mondo in una topografia della meraviglia”. Riconoscere, inoltre, a capo della tradizione del romanzo epistolare un capolavoro spagnolo, non dovette essere del tutto casuale. Cadalso, in questo modo, riconduceva un’intera produzione che sembrava prerogativa dei paesi più notoriamente illuminati, la Francia e l’Inghilterra, ad un archetipo sorprendentemente spagnolo, ovvero appartenente a quella nazione che, con il ferreo ed inquietante cattolicesimo della sua Inquisizione, appariva come la terra dei conservatori contro i progressi della ragione.

Al pari di un mezzo magico delle fiabe, giunge in soccorso ai raziocinanti autori illuministi, l’espediente letterario del viaggio, non più semplicemente scelta contenutistica ma di forma: attraverso la curiosità innocente e imparziale del suo alter ego forestiero che tutto indaga, l’autore realizza quell’incantesimo rivelatore, lo straniamento, che permette al lettore, assuefatto alla sua realtà quotidiana e menzognera, di svelarne le verità nascoste. Non è questa forse l’essenza dello straordinario viaggio di conoscenza che solo l’arte può permetterci di compiere?

 


Photo by Anika Huizinga

 

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