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Schiattarella | Diversamente figli

Se vi dovesse capitare, un giorno, di passeggiare tra i quartieri della mia città, fate caso a come le madri chiamano i loro pargoli perché, a Napoli, i bambini non sono solo “figlie” ma “criature”. Attenzione, però, i due termini non sono interscambiabili. “E figlie so’ piezze ‘e core” affermano i genitori soddisfatti per il proprio capolavoro o preoccupati per un malanno. “Comme è belle ‘o figliu mie” rincara la mamma orgogliosa. Ma se quella stessa madre deve giustificare una propria mancanza non le sentirete mai dire “Scusate, ho un figlio” ma “Scusate, teng ‘a criature” e se quello stesso bambino “tanto bello” –perché non scordatevi che “ogni scarraffone è belle a mamma soje”- dovesse macchiarsi di qualche colpa -una pallonata in una vetrata, un calcio ad un compagno, un’offesa alla maestra- sarà giustificabile non in quanto “figlio di” ma perché “è sul na criature”.
Ricapitolando, insomma, se il bambino è “bravo, buono e bello” può essere considerato “figlie”, se genera qualche complicazione è “criature”. Un vero capolavoro di transazione linguistica che solo a Napoli poteva avvenire. Eh sì, perché significa che, nel passaggio dal latino al volgare napoletano, nel primo caso, si fa riferimento al termine derivato da “filius” appartenente alla famiglia di “fecundus, femina…” e quindi geneticamente compromettente perché legato a chi l’ha concepito in terra. Nella seconda accezione, invece, si scomodano le alte sfere. Il fanciullo è parte del “creato”, e questa linea dinastica, diretta con Dio, rende di colpo il piccolo peccatore perdonabile in quanto figlio di tutti. Se la prima conseguenza è, di solito, nefasta, perché crea deliri di onnipotenza, la seconda qualità è, invece, la parte che preferisco di questa pittoresca espressione. Sì, perché non tutti i figli “so’ piezze ‘e core” e non tutti i genitori meritano di essere considerati tali.

E quando un bambino, un ragazzo ha la sola colpa di essere nato nel posto sbagliato al momento sbagliato, pensare a quel giovane non come “figlio di un altro” ma come “creatura” che deve trovare il proprio posto nel mondo, la sua missione nel creato, un semplice cambio di prospettiva può rappresentare l’unica possibilità di salvezza.

Lo sanno bene le 5 comunità familiari e le 65 famiglie in rete dell’Associazione Cometa di Como che hanno scelto di accogliere bambini e ragazzi con storie difficili, superando il tradizionale concetto di “figlio” a favore di un significato più ampio, più generoso.
Come specifica Patrizia Foti nell’opera Questa è una storia d’amore dedicata a diverse realtà che hanno trasformato momenti bui in stelle luminose, in Cometa:
“Gli ospiti (nel senso biblico del termine), cioè i figli naturali, in affido o in adozione, sono accolti, amati, educati e accompagnati alla vita in tutti i suoi aspetti”
Di certo, l’architetto Erasmo Figini e sua moglie, quando negli anni ’80, pronunciarono il loro primo “Sì” ad un bambino di 5 anni, orfano sieropositivo, non potevano immaginare la straordinaria realtà che sarebbe nata grazie a quel semplice atto di comunione, perché una cosa dicono essere certa, non è mai nato niente sulla base di un calcolo preliminare. Né la comunità ospitante né quella formativa della scuola Oliver Twist dove i ragazzi vengono accolti, afferma sempre il noto Interior Designer:

in una bellezza che è stata pensata per loro. Come quando due genitori aspettano un figlio e gli preparano la stanzetta più bella possibile, non l’accolgono nello squallore. Non è ricchezza, è bellezza. Il senso dell’accoglienza è questo, non sai chi ti può arrivare, e arriva il sano e il malato, il bello e il brutto e tu lo accogli e lo ami.”
Esempio virtuso, portato avanti oggi, tra i tanti, anche dal figlio Giovanni, preside della scuola e giovanissimo padre di 5 figli, o “criature”se vogliamo a questo punto, due naturali e tre in affido.
Ma questo viaggio Napoli-Como, non è di sola andata, la realtà di Cometa mi riporta ancora una volta nella mia città per dare un senso, almeno nella mia mente, al verso finale di una canzone, considerata tra le più belle ma al contempo enigmatiche della tradizione italiana. La voce che canta è quella di Pino Daniele e il testo è “Quando”:
“Tu dimmi quando, quando


siamo angeli 
che cercano un sorriso 


non nascondere il tuo viso


perché ho sete, ho sete ancora.



E vivrò, sì vivrò 


tutto il giorno per vederti andar via 


fra i ricordi e questa strana pazzia


e il paradiso che forse esiste 


chi vuole un figlio non insiste.”

 


Photo by Ignacio Campo

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