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Schiattarella | Espiazione

Neanche la calura di un pomeriggio di mezza estate -che, nonostante l’ombra del vicolo, si alzava dall’asfalto- ci impedì di tuffarci in un morbido medaglione di bucatini, besciamella, prosciutto cotto e piselli perfettamente domati da una pastella croccante. È il miracolo della frittatina napoletana, regina dello street food partenopeo, alla quale è impossibile resistere anche a trenta gradi e soprattutto se, come noi, vieni dal Nord e sei in piena crisi d’astinenza.

Sia per ingannare l’attesa che ci separava dall’ingresso della Cappella Sansevero, sia perché ormai il clima era di grande convivialità, mio marito ne acquistò tre “pezzi”: una a testa per noi e l’altra per il nostro nuovo amico, l’intrattenitore di file. Salvatore, o meglio Totore, aveva tre figli, di notte, lavorava come sorvegliante, attività che amava perché gli permetteva di leggere durante i turni più tranquilli e di avere il pomeriggio a disposizione per arrotondare lo stipendio, allietando l’agonia di qualche turista tra un ingresso museale e l’altro.

Finalmente compresi chi mi avesse riportato alla mente quell’uomo sin dal primo sguardo: mio nonno che, dopo mille lavori, aveva deciso di lasciare, quello che definiva, con un’ inconsapevole paronomasia, il “posto nelle poste”, per fare il tassista, cioè per avere il piacere di vivere ogni giorno la sua amata città, attraverso lo sguardo di turisti affascinati, e di leggere un buon libro tra una corsa e l’altra.

A dispetto di quanto si racconta sul popolo dei lazzari, questa è la vera essenza dei partenopei: instancabili lavoratori che sanno, però, godersi le piccole gioie della vita.

Come al solito, da perfetta Bilancia, mi stavo perdendo nelle mie riflessioni filosofiche, quando il Capricorno che ho sposato è sopraggiunto per riportare l’attenzione sulla questione lasciata in sospeso: perché era stata edificata Cappella Sansevero?

Totore, mandando giù l’ultimo boccone e sorseggiando dell’acqua, annuì col capo verso mio marito, soddisfatto di poter riprendere il discorso.

“Forse la domanda corretta, non è perché ma per chi è stata eretta.”

Ridivenne serio di colpo, smise le vesti dell’amico al bar e indossò quelle del narratore esperto.

“Quando quella sera si recò al ballo, Fabrizio Carafa, duca d’Andria, aveva già sentito parlare della principessa Maria d’Avalos. La fanciulla era sulla bocca di tutta Napoli, per la sua bellezza e per come avesse fatto a convolare a nozze per ben tre volte, a soli ventotto anni. Certo, era curioso: vivevano nella stessa città, appartenevano entrambi alla nobiltà napoletana e non si erano mai incontrati. Del resto, come diceva sua moglie -facendosi nervosamente il segno della croce per ben tre volte- meglio stare alla larga da una così. Non doveva portare molta fortuna, vista la fine dei primi due mariti, morti entrambi, e del terzo, il povero cugino minore Carlo Gesualdo, signore di Venosa, che stava alla moglie come il diavolo e l’acquasanta. E non era difficile intuire, a prima vista, che il diavolo non era lui.

In effetti, sua moglie, Maria Carafa dalla quale Fabrizio spesso dissentiva a causa della sua morbosa, per non dire patologica, osservanza alla morale cattolica, non aveva tutti i torti: il talento del ventiquattrenne musicista era indubbio, qualche volta a Fabrizio era capitato di ascoltarlo suonare, ma non era mai riuscito a soffermarsi sui suoi madrigali perché, pur non conoscendo la sua celebre consorte, tutte le volte si ritrovava a fantasticare su quell’unione così male assortita, lui così introverso e austero, lei così proverbialmente vitale.

Ecco, questo era ciò che sapeva di Maria d’Avalos, quando, quella sera al ballo, la vide per la prima volta. Conosceva bene quello che poteva lo sguardo di una donna appassionata, lui che, nell’alta società, era noto come l’Arcangelo, per il suo fascino, si era sentito desiderare mille volte e questo l’aveva sempre fatto sentire gonfio di orgoglio. A trent’anni, poteva dirsi appagato: un matrimonio con una rispettabile nobildonna, tre figli e qualunque diversivo avesse voluto per soddisfare il suo piacere.

E invece, non era preparato. Maria, stretta nel suo abito di velluto, color porpora, sembrava una bambola di porcellana animata da un’energia frenetica che irradiava chiunque le stesse intorno. Danzava e i suoi capelli ramati, ad ogni passo, pareva volessero sfuggire alla rete di perle che li imprigionava, per incorniciarle il viso, proprio come facevano i profili dorati del suo vestito con le curve del suo corpo.

La guardò ballare tutta la sera e per tutto il tempo cercò il suo sguardo come un cieco desidera la luce, ma lei era talmente impegnata a vivere da non accorgersi dello stato di disperazione in cui l’aveva gettato. Era questo che la rendeva così diversa dalle altre: non era la sua bellezza, ma la sua voglia di “essere”. Era amica, era madre, era amante, era donna. Incurante di tutte le malelingue che si nascondevano dietro a rigidi sorrisi e corpetti scintillanti, era quello che doveva essere: semplicemente se stessa. Si sentì mancare. Capì, allora, che era perduto per sempre.”

La nostra guida si interruppe come vinta dalla troppa tensione. Nel frattempo anche altri compagni di fila si erano aggiunti all’ascolto. E tutti aspettavamo che il racconto riprendesse “E allora? Cosa è successo, poi?”

“Cosa volete che vi dica…” riprese” che Fabrizio impazzì d’amore? Sì, successe, ma quello che non immaginava, è che anche lei, in realtà, era rimasta tanto colpita da lui da non pensare più a nient’altro e… a nessun’altro. E credetemi, non c’è niente di peggio, in una società che fonda la sua esistenza sulla falsità, che scoprire la genuinità di un sentimento vero. A quel punto, tutto è smascherato e non c’è salvezza per nessuno”

“Fabrizio e Maria, prima più attenti, si incontravano furtivamente negli eventi mondani, ma poi persero qualsiasi prudenza vinti dalla passione e iniziarono a vedersi anche nelle stanze della principessa, a Palazzo Piccolo, proprio accanto a Palazzo di Sangro.

Quando il cicaleccio divenne certezza si chiesero se non fosse giunto il momento di lasciarsi andare, ma affidarono ad una lettera quella che sarebbe diventata la loro sentenza di morte: meglio la fine che un giorno senza l’altro.”

E così fu. Lo zio di Gesualdo, geloso dell’amore di Maria per Fabrizio, perché respinto da lei, avvisò il nipote del tradimento e gli consigliò una vera e propria imboscata: fingere una battuta di caccia, lontano dalla dimora, per coglierli in flagrante . Il diabolico piano fu messo in atto la notte del 18 ottobre 1590: i due amanti non solo furono uccisi, proprio mentre si trovavano a letto insieme, ma i loro corpi brutalmente straziati, furono esposti per giorni sulle scale all’ingresso della loro abitazione, per disonorarne la memoria.”

“Ma è terribile! E i colpevoli dell’omicidio non furono arrestati?” si sentì chiedere da qualcuno.

“Nient’affatto. Gesualdo, per l’epoca aveva tutto il diritto di vendicarsi dell’affronto subito, tuttavia, credette bene di fuggire da Napoli, temendo qualche ritorsione da parte dei familiari dei due amanti. In realtà, però, c’era qualcosa che l’avrebbe perseguitato per sempre.”

“Cosa?” sentii chiedere alle mie spalle

“Il senso di colpa” dissi con un filo di voce, commossa per la tragedia improvvisamente riesumata tra quei vicoli.

“Esattamente. Il senso di colpa e la conseguente richiesta di perdono sono il fulcro della nostra storia e di un’epoca intera, quella della Controriforma.

Gesualdo finì i suoi ultimi anni rintanato nella sua tenuta di Avellino, ma commissionò al pittore Giovanni Balducci la tela, intitolata “Il perdono di Carlo Gesualdo” , visibile nella chiesa di Santa Maria delle Grazie, per accaparrarsi un posto in Paradiso.

“La mamma di Fabrizio Carafa, distrutta per la tragica fine del figlio, ne ricompose il corpo donandogli degna sepoltura nella Basilica di San Domenico Maggiore e cercò di salvare la sua anima grazie all’edificazione di una chiesa, chiamata Santa Maria della Pietà o meglio nota come Pietatella.

Fu così che Adriana Carafa della Spina, moglie in seconde nozze di Giovan Francesco di Sangro e prima principessa di Sansevero -antenata, quindi, del principe diavolo Raimondo di Sangro- per espiare il peccato del figlio costruì, senza volerlo, quella che nel Settecento sarebbe diventata un vero tempio del peccato, Cappella Sansevero.

Tutti, insomma, hanno avuto il loro passepartout per il Paradiso, l’occasione per espiare i propri peccati. Tutti, eccetto una. Maria.

Per lei, nessuno ha mai chiesto il perdono. Persino il suo corpo, cercato di recente, risulta disperso perché non rinvenuto nella tomba in cui si diceva dovesse essere e, forse, non sbaglia chi, ancora oggi, giura di vederne il fantasma per queste vie e di sentirne le grida strazianti.

Io, ragazzi miei, che per queste vie ci sono nato e cresciuto, posso rassicurarvi, dicendovi che non l’ho mai vista. E…posso aggiungere un’ultima cosa? Mi piace pensare che alle porte del Paradiso, Maria ci sia arrivata senza aiuti e che qualcuno, lassù, le abbia sollevato il capo, chino per il peso del peccato, e le abbia detto: “Cara Maria, sei stata una figlia, un’amica, una madre, ma soprattutto una donna audace per aver avuto il coraggio di amare senza paura. Entra pure e riposa in pace.”

 


 

 

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