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Schiattarella | Il sesso delle città

Ci avete mai pensato? Esistono città maschili e città femminili. Lo so, il genere delle città nella lingua italiana – a parte qualche eccezione come “Il Cairo”- è sempre femminile per coerenza con il sostantivo “città”, appunto. Norma cui la disciplinata Milano si è subito adeguata, provvedendo ad evirarsi dei suoi attributi, o meglio del suo articolo maschile, perché se oggi “Milàn è Milàn”, nell’800, in dialetto meneghino, Alessandro Manzoni avrebbe detto virilmente: “Milan l’è un gran Milan”. Femminile per scelta non per nascita, quindi, come invece fu Partenope, l’antica Napoli. Secondo la leggenda, nata da una vergine sirena (donna metà pesce o uccello, poco importa) che, per non essere riuscita ad unirsi al suo amato, l’eroe acheo Ulisse o il giovane greco Cimone, – forse, se i pareri sono così discordanti, la figura maschile non è, poi, così importante, almeno in questa storia, sia chiaro!- si lascia morire in mare, giungendo sulle coste di quella che sarebbe diventata la sua città. I primi coloni greci da poco approdati su quei lidi la raccolgono, la seppelliscono e ciò che non si è compiuto in superfice, avviene nelle viscere della terra. Il suo corpo antropomorfo ne feconda il suolo: è l’atto di nascita di Neapolis e la neonata città è femmina. Ce lo dicono i seni e i golfi che ne solcano la figura, ce lo dice il suo ventre, di pietra, sì, ma accessibile, penetrabile, malleabile: ogni cellula di tufo e piperno estratta dal suo utero funge da mattone per i suoi edifici dotati di vita propria fuori dal suo corpo svuotato. Essendo femmina, è cava. Non perfora, accoglie. Non giudica, protegge. La sua anima è donna: i suoi culti primordiali sono rivolti alla Grande Madre, la Vergine Fondatrice, o ad altre divinità femminili come l’egiziana Iside o la romana Diana. Nel cuore della città, dove si pensa possa essere anche il sacello di Partenope, sorge, oggi, la Basilica di Santa Maria Maggiore alla Pietrasanta, così denominata proprio perché prima chiesa consacrata alla Madonna. Ma tra i due monumenti -se fosse vera l’ipotesi della sepoltura della sirena sull’Acropoli- non tutti sanno che proprio in quello stesso punto, dove il Vescovo Pomponio decise di erigere la sua cattedrale, si trovava un altro edificio sacro: il tempio di Diana o Jana. Non semplice luogo di culto ma rifugio, a volte unica salvezza, per tutte quelle donne destinate, altrimenti, a una vita d’infelicità perché promesse in matrimonio senza il loro consenso.

E ciò spiega anche la scelta di rinunciare al sesso: diventare una “Dianara” o “Janara” significava, infatti, far voto di completa castità. Stoica rinuncia delle passioni? Nient’affatto. In quanto sacerdotesse della protettrice delle donne, dei parti e della Luna erano esperte ostetriche, grandi conoscitrici dei misteri della Natura e del Cielo e pertanto anche delle conseguenze, sia fisiche che sociali, di una gravidanza: avere un figlio con un uomo avrebbe determinato la perdita della loro indipendenza.

Si comprenderanno, ora, le ragioni dell’estremo sacrificio: la gioia di diventare madri immolata sull’altare della Libertà, insieme naturalmente ai classici maialini che nei riti pagani dell’epoca erano soliti esser sgozzati, emanando grugniti raccapriccianti. Avete mai assistito all’esecuzione di un esemplare di questa specie? Ecco, se pensate al sottofondo musicale sinistro che ne deriva, si comprenderà anche che non ci volle molto affinché una parte della popolazione -ovviamente quella che si può definire “eterna” in quanto presente in tutte le epoche perché esente dal naturale processo evolutivo di miglioramento della specie- giungesse a giudicare la loro condotta insolente, blasfema, adultera…Opinione pubblica avvalorata dalla neonata dottrina cattolica del VI secolo d. C che finì per bollare il culto come eretico e le sue adepte come adoratrici del Diavolo-Porco, demone inviato nel quartiere, secondo gli accusatori, dalla Dea in persona per vendicare l’oltraggio subito dalle sue discepole. Contro gli anatemi della divinità pagana si schierò il paladino della Cristianità, il vescovo Pomponio, che, come detto, eresse la sua Basilica liberando definitivamente il quartiere con un vero e proprio esorcismo. Ad alimentare la leggenda, le tracce disseminate nello spazio e nel tempo: nel campanile, il più antico esemplare d’Italia, straordinario esempio di arte paleocristiana, dalle cui finestre superiori sporgono delle piccole e inconsuete sculture a forma di testa di suino e nella Festa della Porcella praticata fino al XVII sec., ogni maggio, proprio per ricordare la liberazione dal demone, poi, soppressa perché considerata troppo pagana. Delle antiche sacerdotesse, invece, resta l’appellativo “Janara”, usato nella lingua napoletana -e nei dialetti del Sud in generale- nell’ accezione di “strega” e, quindi, per designare una donna considerata particolarmente “cattiva, dispettosa, vendicativa…”. Il triste destino del termine -da titolo rispettabile a marchio d’infamia- sembra rappresentare bene quello di tutte le donne che nella storia hanno tentato di liberarsi dal giogo di una società sessista finendo per pagare il loro sapere, le loro conquiste, la loro libertà tra le fiamme di un rogo o semplicemente vedendo sminuito ciò per cui hanno lottato.
Che la stessa sorte sia toccata anche alla bella Napoli? Adorata, poi, sfruttata, amata e, al contempo, odiata, elogiata per essere invidiata. Forse, semplicemente, dannata solo perché donna?


Photo by Marianna Berno

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