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Schiattarella | Una pandemia letteraria

Se c’è un tema che, in letteratura, potremmo definire più che ricorrente, “endemico”, questo è proprio quello della peste. Ma, se consideriamo che, nel corso dei secoli, quando si parlava di peste non sempre si trattava del bacillo proveniente dalle pendici dell’Himalaya -visto che si tramandavano con il medesimo termine anche il colera, il vaiolo, il tifo…- possiamo, forse, dire che a diventare un vero e proprio topos letterario non sia tanto la malattia quanto la sua diffusione, la “pandemia”. Del resto, la considerazione non deve sorprenderci: il letterato non è uno scienziato interessato alla eziologia del morbo, ma un osservatore della realtà, interessato agli effetti emotivo-sociali che il morbo genera nel mondo. Non è il corpo ricoperto da pustole, non sono gli alveoli privi d’ossigeno, ad essere oggetto di analisi dell’autore, ma l’anima della società che intende descrivere. Un’anima ferita, abbrutita, sconvolta dal contagio di un pensiero negativo dilagante più che dalla pestilenza vera e propria. In attesa di scoprire come il materiale fornito dal nostro presente sarà rielaborato dagli autori contemporanei, sono quelli del passato a fornirci un quadro di come le pandemie sono state affrontate nel corso dei secoli.

Partiamo da Milano, non quella flagellata dal Covid-19, ma quella della peste del 1630, descritta nei Promessi Sposi e non solo. Sì, perché i quattro capitoli del romanzo non sono l’unico locus in cui viene trattato il tema. Nella Storia della colonna infame, appendice all’ultima edizione, la cosiddetta quarantana, Alessandro Manzoni riprende l’argomento concentrandosi su un aspetto, quello che maggiormente doveva destar preoccupazione: la diffusione, appunto. Si tratta della straziante storia degli untori, sospettati di spargere volontariamente il morbo, che già nel romanzo aveva un precedente: quando a Milano si scatena la peste e la città diventa un deserto, proprio Renzo Tramaglino rischia di essere preso per untore, ma il destino mancato del personaggio, che vivifica le pagine del romanzo, diviene invece realtà feroce e irreversibile per i condannati –spesso ingiustamente- dell’altro. Si intravede in questo libello la conclusione definitiva a cui approderà Manzoni, negli ultimi anni della sua vita, quando arriverà a decretare la superiorità della Storia, della verità, rinnegando il Romanzesco, la finzione. La lettura della Colonna Infame diventa, quindi, la chiave dell’inserimento del tema nelle controverse vicende dei due promessi: offre l’opportunità di riflettere sul senso effettivo non tanto della provvidenza ma della giustizia umana e, quindi, dell’incapacità di gestione dell’evento da parte delle autorità spagnole nel ‘600 alias di quelle austriache nell’800.

“Ai giudici che, in Milano, nel 1630, condannarono a supplizi atrocissimi alcuni accusati d’aver propagata la peste con certi ritrovati sciocchi non men che orribili, parve d’aver fatto una cosa talmente degna di memoria, che, nella sentenza medesima, dopo aver decretata, in aggiunta de’ supplizi, la demolizion della casa d’uno di quegli sventurati, decretaron di più, che in quello spazio s’innalzasse una colonna, la quale dovesse chiamarsi infame, con un’iscrizione che tramandasse ai posteri la notizia dell’attentato e della pena. E in ciò non s’ingannarono: quel giudizio fu veramente memorabile.”

(Manzoni, Storia della Colonna Infame.)

 

Restiamo sempre nel secolo di ferro, ma spostiamoci a Napoli perché all’epidemia scoppiata in questa città, nel 1656, fa riferimento Giovan Battista Valentino, autore dialettale dell’ opera in versi Napoli scontraffatto dapö la peste. “Titta”, così era noto il Valentino, si sofferma sul momento successivo al morbo per mettere in luce il mutamento dell’ordine sociale: la peste viene vista come una gran ruina non tanto perché portatrice di morte, ma perché gente di dubbia moralità, approfittando della prematura e fulminea dipartita di notabili e possidenti, si era appropriata, comm’a mosche a ccarne scorticate, come mosche su carne putrefatta, dei loro beni, occupando i quartieri più prestigiosi della città, Mergellina e Posillipo. A conferma della tesi iniziale, ancora una volta l’attenzione è puntata non sulla malattia, ma sul modo in cui il popolo affronta il flagello. Uomini ridotti a insetti, soggiogati da un istinto primordiale, quello della fame. Ma anche le ottave del Valentino, pur mostrando la ferocia di uomini disumanizzati, non è sulla “povera gente” che dirige la sua invettiva, vittima inconsapevole della miseria oltre che del morbo. La polemica indiretta è tutta per il viceré spagnolo, il conte di Castrillo, rivelatosi inadeguato e inetto nel gestire sia la calamità che la città.

Neanche Omero, nell’Iliade, si sottraeva a questa condanna degli uomini, dei capi, riconosciuti come i veri responsabili del dilagare del flagello: “Dalle navi al cospetto: indi uno strale liberò dalla corda, ed un ronzio terribile mandò l’arco d’argento. Prima i giumenti e i presti veltri assalse, poi le schiere a ferir prese, vibrando le mortifere punte.(Iliade, Libro I)” È vero, in questo passo si legge che è un Dio, Apollo, a scatenare la pestilenza nell’accampamento greco, contrariato per l’offesa subita dal suo sacerdote, Crise, al quale è stata rapita la figlia; ma, alle origini della collera divina, c’è Agamennone, comandante dell’esercito acheo, che si rifiuta di restituire la prigioniera. Acconsentirà, ma non prima di aver infiammato un altro animo quello di Achille, la cui proverbiale ira si ritorcerà -peggio della peste- contro lo stesso irragionevole comandante.

“A quanto si dice, comparve per la prima volta in Etiopia, al di là dell’Egitto, calò poi nell’Egitto e in Libia e si diffuse in quasi tutti i domini del re. Su Atene si abbatté fulmineo, attaccando per primi gli abitanti del Pireo”

( La guerra del Peloponneso, Lib.II)

Sempre in Grecia, ma con Tucidide, si assiste ad un’analisi più attenta, più “scientifica” del morbo: l’occhio critico dello storico, non può esimersi dal ricercare le origine e dall’enumerare sintomi ed effetti sul corpo, ma anche in questo caso è l’anima malata della società ad interessare l’autore: la solitudine, lo scoraggiamento, la minaccia alle norme della convivenza umana, la sfrenatezza dei costumi.

Nessun timore degli dei o della legge terrena li tratteneva, poiché da un lato consideravano indifferente essere religiosi o no, dato che tutti senza distinzioni morivano, e dall’altro, poiché nessuno si aspettava di vivere fino a dover rendere conto dei suoi misfatti; essi pensavano che una pena molto più grande era già stata sentenziata ai loro danni e pendeva sulle loro teste, per cui era naturale godere qualcosa della vita prima che tale punizione piombasse su di loro.

 

Aspetti che diventano parte fondamentale del topos letterario fino a Manzoni, come dimostrano alcune testimonianze del ‘300: le cronache di Matteo Villani e Marchionne di Coppo Stefani sulla peste nera giunta a Firenze nel 1348. Nel caso del Villani si assiste alla ricomparsa dell’elemento religioso già visto in Omero, questa volta non motivato dal rancore di una divinità nei confronti di un uomo, ma dalla punizione del Dio Biblico nei confronti del suo popolo riprendendo letteralmente le sacre scritture con la citazione del profeta Isaia “non è abreviato  il furore di Dio, né la sua mano stanca, ma molto si compiace nella sua misericordia, e però lavora sostenendo, per ritrarre i peccatori a conversione e penitenzia, e punisce temperatamente.”

La cronaca di Marchionne di Coppo Stefani, invece, pur rispettando maggiormente l’impostazione tucididea, esaspera l’elemento relativo al comportamento umano e al disfacimento dei costumi e delle leggi “Come uno si ponea in sul letto malato quegli di casa sbigottiti gli diceano: io vo per lo medico, e serravano pienamente l’uscio da via e non vi tornavano più […]” e continua con questi toni fino ad arrivare a paragonare gli strati di cadaveri nelle grandi fosse comuni, separati da un po’ di terra e calce come si minestrasse lasagne a fornire di formaggio”. Spiccata teatralità che ritroviamo nell’introduzione del Decameron di Boccaccio, dove però l’attenzione alla disgregazione morale causata dalla peste non è motivata dal semplice intento di scrivere una cronaca o di rintracciare la causa del male, ma dalla volontà di dare un significato al progetto dei protagonisti, membri dell’agiata borghesia fiorentina, che si rifugiano in campagna non solo per evitare i rischi del contagio ma soprattutto per «non trapassare in alcun atto i segni della ragione»

Ancora una volta è questo che spaventa: la perdita della ragione, la rottura dell’equilibrio, la mancanza di stabilità politico-sociale. Più che delle pagine trecentesche ci sembra di osservare le pagine dei Social nell’ultimo anno. Ma, allora, se le pandemie si somigliano nella storia quanto nella letteratura non può essere che quest’ultima possa offrire la soluzione che la pima non ha trovato? Cosa ha permesso realmente ai giovani protagonisti del Decameron di non impazzire, di non farsi contagiare dal terrore della pandemia che avanzava? Non la fuga in campagna, perché la pan-demia, lo dice il termine stesso, è “di tutto il popolo”, interessa tutti. Ma se non c’è scampo fisico, allora, la soluzione deve essere in un’altra dimensione. È quella della parola. La parola che si fa racconto, anzi, cento racconti che distillati in dieci giorni, a mo’ di un balsamo miracoloso, nutrono l’anima dei loro narratori-ascoltatori, sanando ferite e razionalizzando il caos esterno.

Che sia la vera cura di cui abbiamo bisogno?


Photo by Clay Banks on Unsplash.

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