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Zlatarova | Resistere al disordine

Questa testa non parla. Resiste al disordine.

Sembra costruita con un eccesso di materia, una mole di piccoli pezzi premuti uno sull’altro, schiacciati, raschiati, aggiunti ancora, ripremuti. Un pieno che risuona di ombre. L’accumulo nervoso di una tessitura. L’ordito vivente su un bordo, un confine, una  frontiera.

Bordo tra l’ancora umano, ovvero antropomorfo, e il già informe. Ancora riconoscibile nella sua funzione e già del tutto inutile. Ancora cosa determinata e già materia indeterminata.

Confine tra il fuori che vediamo, la testa dagli zigomi pronunciati e dalle labbra chiuse in un bacio, e un dentro che immaginiamo, fatto dagli interstizi tra la materia accumulata, piccole insenature dove lo sguardo può sognare di infiltrarsi, di sollevare frammenti di nudità, aprire gli scrigni della carne.

Frontiera tra il senso del pudor, quando l’umiliazione si fa umiltà, modestia, decenza; quando si affermano i riti del pudore -o, al contrario, di nudità, di vittima- e il senso dell’horror, quando l’umiliazione passa il limite e diviene punizione: quando la modestia insita nell’atto di sacrificare la carne diviene la crudeltà insita nel gesto di ferirla, di aprirla.

 

Ma quando proviamo a vedere questa testa sotto una luce chiara, la luce gentile che cade dall’alto e bagna le cose come per risvegliarle, quando proviamo a guardare questa testa da altre angolazioni, un diorama di piccoli incisioni e particolari si dispiegano davanti ai nostri occhi affiancandosi a tutto ciò che la materia, nel suo eccesso, suggeriva.

Così la testa diventa qualcosa di familiare, di tenero, fragile e all’unisono, freddo, sterile, tagliente. Qualcosa come la purezza che è vita ma anche, infecondità. Perché se la testa, avvicinandoci, è diventata un volto, continua a mantenere una carica di ambiguità, di duplice che si nasconde per confondere. Come quegli occhi che ci fissano e non capiamo se siano aperture oppure cavità, siano cecità. Doppia allegoria tra il guardare e l’essere guardati, tra il vedere la nostra storia e il chiudere gli occhi per interpretala. Guardare che non è guardare perennemente, ma è l’insieme di luce e buio, l’intermittenza tra il presente e l’assente dello sbattere dei nostri occhi. Allora salgono le lacrime, mentre il visibile si nasconde dietro il sottile panneggio delle nostre palpebre. Per guardare bene bisogna saper aprire ma anche chiudere. Iniziare, finire.

La testa lascia i suoi brandelli, e si biforca nell’emozione del rammemorare per liberarvi un fascio di significati. Volto conosciuto, volto familiare, il tocco perennemente lasciato sul punto di svanire.Volto non ricordato, quasi dimenticato, visto con la coda dell’occhio attraversando la strada oppuresui giornali, sulle riviste o su qualche cartellone pubblicitario. Qualcuno di ormai morto o la debole sensazione di un breve incontro, quei momenti docile che si logorano rapidi nella nostra memoria.

Ma il volto è lì, guardante e guardato. Immerso in quei piccoli segni, quelle croci, in quelle rughe, o massa di pelle che cade. Volto immerso in un “quasi”, un “pressappoco” che è il “sempre” e l’“ovunque” dell’intimità.

Volto intimo e confine, bordo, frontiera della testa, il caldo del cuore e il gelo della notte, quando ognuno di noi è solo e il buio distrugge ciò che il giorno ha creato. Questa scultura della Zlatarova èscivolare nell’ombra dove le cose restano in agguato. È uno scrigno, è una casa, è il bivio tra la cura e il prendersi cura, è il presente e l’assente, è il qui e l’ora che il tempo scolora e incrina. È il mai più e l’ancora ma in un altro posto, lontano o dietro l’angolo dove la pioggia non arriva.

 


All sculptures by: Valentina Zlatarova | @valentinazlatarova

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