Santhyanathan – Serving quarantine
Before being remanded to death-row of the sick,
I was locked in a cell
the size of my smart phone’s screen.
Serving my time, I read many books.
First, on pathology and medicine,
then the Indian Penal Code.
Then came lexicons of necessity,
and the end-rhyme between need and greed.
Finally, books on economics to
choose between two nightmares—
first, death heralded by a sensation of drowning,
second, the prospect of a slow, starving death.
A little ventriloquism surrounds me.
Prima di essere trasferito nel braccio della malattia
sono stato rinchiuso in una cella
grande come lo schermo del mio smartphone.
Scontando la mia pena, ho letto tanti libri.
Da principio su patologia e medicina,
poi sul codice penale indiano.
Quindi sono arrivati lessici del bisogno
e la rima tra necessità e avidità.
Infine, libri di economia per
scegliere tra due incubi…
primo, morte annunciata dalla sensazione di affogare,
secondo, la prospettiva d’una lenta morte per fame.
Un po’ di ventriloquismo mi circonda.
Prigionia e quarantena si susseguono e sovrappongono in questa poesia del poeta indiano Chandramohan Santhyanathan. Il titolo Serving quarantine riprende quello della poesia di Charles Simic, Serving time e in inglese “to serve time” allude infatti allo scontare la pena che il giudice commina a seguito di un reato.
Ma qual è il reato commesso da chi viene condannato alla quarantena? E qual è l’atto conoscitivo necessario per giungere a una riposta?
Nella poesia di Santhyanathan, come in quella di Simic, c’è il ricorso al libro quale strumento di conoscenza. Sono i libri infatti che sembrano poter fornire una riposta; libri di medicina e il codice penale indiano, nei quali ancora una volta ritorna la sovrapposizione tra quarantena e prigionia.
Se in Serving time la conoscenza è data come impossibilità: “the more i read, the less understand”, qui l’atto conoscitivo è un atto affermativo. La conoscenza è possibile ma quando finalmente sembra si sia trovato il libro giusto, la realtà che si presenta ai nostri occhi è quella di un doppio incubo, un’altra prigionia da cui forse non è dato uscire.
La poesia di Santhyanathan non si limita a mettere in scena l’indagine introspettiva del soggetto. I dubbi che essa solleva non sono solo dubbi esistenziali ma politici, in quanto tirano in causa i limiti di governabilità delle società complesse; limiti che l’emergenza pandemica ha contribuito a sottolineare. È infatti un’impossibilità politica quella a cui allude il doppio incubo. La polis ipertrofica in cui bisogno e avidità si confondono è malata e la cura va forse ricercata nelle cause della malattia più che nei suoi sintomi.
Matteo Galluzzo
Che la metafora della prigionia venga utilizzata per definire lo stato di restrizione della libertà non è certo una novità dell’ultima ora. Eppure non mi era mai capitato di leggerla declinata all’habitat ospedaliero.
Premettiamo che l’ambientazione riguarda luoghi della sanità non occidentali e forse nell’immaginario non esattamente idilliaci (ma quale ospedale lo è?). Di fatto il poeta di cui commenteremo il testo Serving quarantine è Chandramohan Sathyanathan, poeta indiano, autore delle raccolte di poesie Warscape Verses (2014) e Letters to Namdeo Dhasal (2016) e Love after Babel & other poems (2020), selezionate per il Srinivas Rayaprol Poetry Prize e l’Harish Govind Memorial Prize.
La poesia è percorsa da questa impietosa immagine di un individuo che passa trasversalmente diversi livelli di prigionia, uno sicuramente fisico ed uno mentale. Tuttavia, quello che in prima istanza potrebbe apparirci come una serie descrizioni metaforizzate, in ultima analisi, dopo la chiusa magistrale, lo è solo in parte: “Un po’ di ventriloquismo mi circonda” ci dice che l’imbruttimento della pandemia investe ogni cosa perché è in ogni parola: dalla ricerca infruttuosa dove il libro diventa incubo di affogamento fino alla poesia, che fuoriesce come una voce soffocata “ventriloqua”, proveniente da polmoni malati, manifestazione di una parola corrotta.
Fabio Prestifilippo
Chandramohan Sathyanathan (nato nel 1986) è un poeta e critico letterario anglo-indiano Dalit; vive a Trivandrum, Kerala. I suoi riconoscimenti includono la presenza nella rosa dei finalisti per il Srinivas Rayaprol Poetry Prize 2016, e la borsa di studio dell’International Writing Program (IWP-2018) presso l’Università dello Iowa. Lettere a Namdeo Dhasal pubblicato nel 2016 era fra finalisti per lo Yuva Puraskar della Sahitya Akademi.
Con il suo libro Love after Babel and Other Poems (Darija), pubblicato a marzo 2020 in Canada, ha vinto il Premio Nicolás Cristóbal Guillén Batista Outstanding Book 2021.
Nota dell’autore
Questa poesia è in parte ispirata a una specifica strofa della poesia di Charles Simic intitolata Serving Time. Ho provato a tracciare un parallelo tra la vita in prigione e la vita in quarantena.
Traduzione di “Serving Quarantine” in italiano di Matteo Galluzzo
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