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Ambrosini | Creatura di Confine

“Tra le modalità dell’essere e le modalità dell’apparire vi è uno spazio, delineabile a tratteggio, fra un nucleo forte, uterino, non consumabile – talvolta pauroso – ed un gioco di sguardi, di specchi, di rimandi; spazio dove si può scegliere di volta in volta chi vogliamo rappresentare e quale parte si debba mettere in scena. In questo spazio si scrivono le personalità e le successive convinzioni, le conseguenze passibili e i divorzi ideologici. In poche parole, “io scelgo”, e con la mia decisione perpetuo un moto febbrile, di sopravvivenza esistenziale, modellandolo sulla base del contesto.Tale è lo spazio destinato ai poeti. Uno spazio immaginario, una forma che si modella su memorie antiche, una ricerca ostinata di qualcosa destinato a rimanere per lo più ignoto e indescrivibile. Tale spazio è lo spazio dell’incomunicabilità. Quando il poeta si percepisce come negato dallo spazio e dal ciclo degli eventi esterni, diventa essenziale per lui ridefinire il proprio concetto di limite. L’estroflessione permette di saggiare i propri confini esterni, l’introflessione di ricodificare la propria memoria genetica. Nasce così la poesia.”

Quando ho scritto questo paragrafo non ero completamente consapevole di quale fosse l’argomento della mia ricerca. Quel pomeriggio, vagando nel giardino di una villa storica, mi soffermai a osservare alcune piante tropicali in una serra; tese nello sforzo di raggiungere la luce, erano arrivate a modificare la propria forma adattandosi perfettamente, in maniera armonica, allo spazio che avevano a disposizione. Scattai una foto e tornata a casa, mi misi a scrivere. Quello che ne uscì fu una sorta di prosa poetica, ossia l’unico modo, per quanto oscuro, che avevo a disposizione per fissare dei concetti a me ignoti. Qualcosa che sentivo risalire dalle mie profondità. La mia penna correva sul taccuino, niente di più. Stavo facendo il mio lavoro di poeta, ovvero avevo iniziato a rappresentare con le parole una visione. Avevo iniziato a pensare per metafore, a tracciare delle linee sommarie attraverso la mia lingua madre. Occhio e linguaggio sono strettamente collegati: vediamo qualcosa e dobbiamo trovargli un nome. Pensiamo a qualcosa e dobbiamo raffigurarcelo con un’immagine. Questo accade da tempi molto antichi. Mi stavo avvicinando a esplorare il concetto di limite. Continuai a scrivere.

“Tempo, spazio, eventi esterni fanno parte del contesto socio-culturale di appartenenza. All’interno di questo insieme, descrivibile tramite generalizzazioni che rispettino coordinate condivisibili, si sviluppano una serie di microcosmi che fanno certo parte del contesto ma, allo stesso tempo, necessitano di una ricollocazione specifica, di una ridefinizione appropriata. Ciascun microcosmo si percepisce come entità isolata e periferica rispetto al contesto.”

Il poeta, mi chiesi, non è dunque un essere allo stesso tempo vitale e estraneo al contesto che lo circonda? Altrimenti, se così non fosse, se non percepisse una differenza rispetto al suo vissuto quotidiano, perché mai dovrebbe sentire il bisogno di scrivere?

Poco dopo incontrai un semiologo russo sul mio cammino, un certo Jurij Michajlovič Lotman, e scoprii due concetti molto interessanti per il mio lavoro: quello di byt e quello di semiosfera. Si può definire la semiosfera come uno spazio semiotico, un continuum semiotico pieno di informazioni di tipo diverso, collocate a diversi livelli di organizzazione. Si oppone alla biosfera, che è invece simile al concetto di contesto esposto sopra, in quanto definibile come l’ambito necessario all’essere vivente per la sua sopravvivenza biologica. La semiosfera ha due caratteristiche principali: la necessità di limitazione e la irregolarità strutturale. La prima, sembra proprio avere a che fare con il concetto chiave di confine, limite: la semiosfera è sempre circoscritta rispetto allo spazio che la circonda. Tale confine ha una doppia funzione: di limite (delimita lo spazio semiotico, garantendo così anche una certa omogeneità di significato al suo interno) e di filtro (consente il passaggio di informazioni tra semiosfera e biosfera, tra il microcosmo e il contesto). La seconda funzione, quella di filtro, ha a che fare direttamente con i processi di elaborazione messi in atto dal soggetto ( cioè, nel nostro caso, la semiosfera stessa). Il confine semiotico non è una frontiera ma un passaggio e, in quanto tale, luogo di continui processi di trasformazione. Il testo (composto da elementi verbali e non verbali), passando il confine viene tradotto in altre forme; tradurre significa ricodificare. Ciò che viene tradotto e ricodificato dal soggetto può rimanere all’interno della semiosfera oppure uscirne, tornare al contesto. Questo passaggio di informazioni e la sua successiva elaborazione dimostrano che il confine, la periferia, il luogo prediletto dal poeta è allora un luogo permeabile perché permette il contatto e la comunicazione tra due sfere semiotiche differenti (la propria e quella del contesto), ed è perciò anche un luogo instabile. Veniamo qui a trattare la seconda caratteristica della semiosfera, la sua irregolarità strutturale. E’ la caratteristica fondamentale del sistema perché permette l’elaborazione di nuove informazioni. Lo spazio semiotico è, per definizione, colmo di testi di vario genere che, essendo diversi ma posti nello stesso contesto, creano una tensione dinamica, una ricerca di nuovi percorsi di senso. Se la biosfera, il contesto socio-culturale, storico e geografico di appartenenza del poeta sembra essere un insieme ben strutturato e definibile, così non è per la semiosfera, dove le informazioni hanno bisogno di un lavoro di catalogazione più complesso. Appare ovvio che questo modello è applicabile a qualsiasi essere umano, in quanto essere nel quale sono depositate memorie di diverso tipo, che devono necessariamente entrare in dialogo con il contesto (quello che Lotman chiama byt, ovvero le cose che ci circondano e che determinano le nostre abitudini e i nostri atteggiamenti). Chi scrive, però, si avvale in maniera critica e creativa di uno strumento peculiare a nostra disposizione: il linguaggio.

Il linguaggio è lo strumento principale attraverso il quale avviene il lavoro di codificazione, traduzione, invenzione e ristrutturazione, strumento necessario al lavoro del poeta: la costruzione identitaria come microcosmo, come spazio semiotico, parte proprio da un lavoro di traduzione dell’esterno e rielaborazione del proprio vissuto, delle proprie memorie. Il poeta, come qualsiasi individuo, può utilizzare la lingua intesa come: linguaggio non verbale, linguaggio verbale, linguaggio dei sogni. Quella che non tutti gli individui fanno è creare il proprio linguaggio, il proprio microcosmo semiotico della parola.

E’ chiaro che tempo, spazio, eventi esterni, fanno tutti parte del contesto socio-culturale, il byt lotmaniano.
Ciascun microcosmo tenderà a percepirsi come periferico rispetto al contesto socio-culturale: è questa percezione del sé poetico, del sé poetante, che mette in gioco i due movimenti di cui sopra (che corrispondono poi a capacità e moti interiori individuali): il rivolgersi verso l’esterno (estroflessione) per mappare quelli che sono i limiti esteriori del proprio spazio/tempo specifici (limite corporeo, tragitti, abitazioni, geografia del paesaggio); e il rivolgersi verso il proprio interno (introflessione), per cercare quanto più possibile di tracciare i propri limiti identitari. Il movimento che definisco qui come introflessione è un’attività di continua elaborazione di memorie: la memoria personale ed esperienziale, la memoria storica e la memoria genetica.

Questi due movimenti del poeta, l’esplorazione dell’esterno e l’indagine sul proprio Sé, sono movimenti ciclici, di continuo passaggio di informazioni tra un insieme e l’altro (il contesto, il poeta). Questo passaggio di informazioni attraverso il confine semiotico, che è uno spazio quindi poroso e creativo, poiché aiuta il passaggio, l’assorbimento e l’elaborazione di tali informazioni, fa sì che si creino sempre nuovi linguaggi partendo sempre dagli stessi elementi.
Con il passaggio di informazioni dal contesto socio -culturale al microcosmo esistenziale del poeta e viceversa, avvengono traduzioni, invenzioni, il linguaggio comune viene plasmato per i propri scopi, viene trasformato e ricodificato.
Partendo da elementi comuni si arriva a costruire qualcosa di strettamente personale: il linguaggio del poeta è una memoria personale, un edificio costruito con mattoni cosmici, parti essenziali di memorie collettive.


Testo già pubblicato su “Rivista” n. 3

Photo by Brent Gorwin

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