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Anghilieri | C’è luce nella notte

“Né tu contenderai benigna Notte,/ che il mio Giovane illustre io cerchi e guidi/ con gli estremi precetti entro al tuo regno”. Con questi tre versi d’invocazione alla Notte, si apre il terzo e incompiuto poemetto dell’autore Giuseppe Parini, il “milanese di Bosisio”, come ebbe a definirlo padre Paolo Onofrio Branda in una polemica letteraria che li vide coinvolti. L’intera opera, Il Giorno, ha un intento satirico – didascalico: la rieducazione della nobiltà settecentesca, un mondo da lui giudicato banale e vuoto. La poesia del maestro nato sulle sponde del lago di Pusiano (dell’Eupili per dirla alla latina) è estremamente seria, forte di una permanente tensione morale, e denota una consumata abilità stilistica.
La Notte, come gli altri poemetti, si apre con un contrasto: quello tra le tenebre medievali, popolate da fantasmi, e la luminosissima e festosa notte dei nobili moderni. È uno dei principali temi illuministi: infatti alle tenebre oscure del passato si contrappone il chiarore, favorito dall’uso della ragione.
Ma questa antitesi luce – ombra, che separa la notte antica da quella moderna, è fondata in realtà su un doppio contrasto: un tempo le tenebre popolate di orrori oscuravano ogni luce, al contrario del presente settecentesco in cui la vita notturna della nobiltà sconfigge l’oscurità e irradia il mondo con la sua “nova luce”. Ma è solo ironia: il significato vero e profondo della contrapposizione mostra come l’ombra degli antichi tuteli il sonno ristoratore degli uomini operosi (Tal fusti, o Notte, allor che gl’inclit’avi,/ onde pur sempre il mio garzon si vanta/ eran duri e alpestri; e con l’occaso/ cadean dopo lor cene al sonno in preda;/ Fin che l’aurora sbadigliante ancora/ li richiamasse a vigilar su l’opre/ de i per novo cammin guidati rivi/ e su i campi nascenti; onde poi grandi/ furo i nipoti e le cittadi e i regni/), mentre la luce dei tempi presenti nasconde ozio ed imbecillità, appunto caratteristiche che Parini attribuisce alla classe nobiliare per la quale voleva attuare una rieducazione. Una volontà di riformare l’aristocrazia che, a causa della mancanza di una forte spinta politica, sembra scomparire, lasciando trasparire il senso del fallimento del programma illuministico e un clima di sfiducia.

Così il contrasto tra le due notti è un aspetto di quello più vasto fra due età e tra due nobiltà, e al centro di questa opposizione sta il Giovin Signore, del quale Parini sembra assumere il punto di vista, ma solo per criticarlo dall’interno, per giudicarlo e corroderlo nel gioco dell’ironia.

C’è un enorme distacco tra il nobile moderno e i suoi antenati, della cui vita egli ha erroneamente un’immagine fosca, mentre la sola notte sacra al Giovin Signore è quella dell’ozio, del gioco e del divertimento che accomuna lui e i suoi giovani amici, ognuno fissato in una sua particolare mania: “Tutti son pari. Ognun folleggia e scherza;/ Ognuno giudica e libra; ognun dei pari/ l’altro abbraccia e vezzeggia; in ciò sol tanto/ non simil tra lor, che ognun sua cura/ ha diletta fra l’altre onde più brilli”. È la cosiddetta sfilata o galleria degli imbecilli in cui spicca il Giovin Signore che impiega “egregiamente” il suo tempo facendo schioccare la frusta sotto il ritratto degli avi. Lo scontento del poeta di Bosisio qui è tangibile: se fino al poemetto de Il Mezzogiorno la sua prospettiva pedagogica di rieducazione era viva e auspicabile, qui c’è la piena consapevolezza di una classe sociale senza vita e senza slancio, senza esempi positivi e senza futuro. Niente sembra poter richiamare in vita quel mondo di anime morte dalla notte nella quale è precipitato. È una notte illuminata dai soli tesori di “auree cornici”, “cristalli”, “specchi”, “tabacchiere preziose”, “fulgide fibbie ed anella” che moltiplicano in una giostra del nulla le imprese tutte mondane del Giovin Signore. La luce dunque non è sinonimo di uso consapevole della ragione, con il suo carico di novità, ma solo della vacuità aristocratica del mondo nobiliare, bramoso di svago ozioso e di potere. E forse Parini precorre i tempi: tempi bui quelli in cui egli si trova a vivere, dove inascoltate restano le parole illuminate dei saggi, in balìa dei capricci di nobili stanchi e annoiati. Tempi bui quelli in cui ci troviamo a vivere oggi, catapultati in una notte fatta di guerra e tenebre, a causa dell’interesse e della bramosia di potere di pochi.
Ma la speranza non muore per il poeta di Bosisio: nel finale la madre Venere e Amore diventano simbolo della forza generatrice della natura, andando oltre la contrapposizione tra passato e presente e forse preludendo a una riscossa dal torpore e dall’avidità in cui la nobiltà era piombata: “Così l’eterno caos, allor che Amore/ sopra posovvi e il fomentò con l’ale/Sentì il generatori moto crearsi,/ Sentì schiuder la luce; e sé medesmo/ Vide meravigliando e i tanti aprirsi/ tesori di natura entro al suo grembo”.
E la speranza oggi diventa anche per noi iconicamente uno spiraglio di luce, affinché il sole possa tornare a splendere in un universo in cui c’è chi, nelle tenebre, cerca di dividere l’umanità per accaparrarsi la prima alba.

 


Photo by Fábio Lucas

 

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