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Anghilieri | La cognizione del dolore

Non c’è semplicemente un’assenza fisica. Il dolore emotivo, i cambiamenti radicali e identitari, la nostalgia, i rimpianti, la ricerca spesso esasperata di nuovi significati e scopi sono strettamente connessi alla perdita, un’esperienza dolorosa e complessa da affrontare nella vita di ciascuno di noi. La morte è solo una, la più lacerante, tra le cause della rottura di un legame significativo. Ma anche la fine di una relazione, una distanza fisica irreversibile, la dissoluzione di valori e un disaccordo profondo, che comporta una distanza incolmabile, possono generare la sensazione di perdere una parte di sé. Tutte queste situazioni si ritrovano nel mondo de La cognizione del dolore, testo autobiografico di Carlo Emilio Gadda, figura chiave della letteratura italiana del Novecento. Dalla prematura scomparsa del fratello al distacco morale e affettivo con la famiglia e con la società in cui vive: l’autore intesse un dialogo profondo con il tema della perdita, affrontandolo in ogni sua sfaccettatura ed esplorando le dinamiche emotive ed esistenziali dei suoi personaggi nel contesto del Ventennio fascista in terra brianzola. La Brianza, infatti, si rivela la cornice ideale della sua opera. Gadda la chiama Maradagal e ce la descrive in modo ironico e quasi grottesco: “E si sa che il Maradagàl è nazione dall’economia autoctona rasa al suolo, in preda al caos istituzionale e sociale, al barocco dell’arbitrio amministrativo, ai risentimenti di guerre lontane o ancora vicine e al terrore dei furti in villa. In quelle ville che prosperano soprattutto nel delirio architettonico della Nea Keltik e dei suoi arrondimientos brianzoli: quella terra di ville, di villule, di villoni ripieni, di villette isolate, di ville doppie, di cose villerecce, di ville rustiche… con cui gli architetti avevano ingioiellato, a poco a poco, un po’ tutti i vaghissimi e placidi colli”. È attraverso questa ironia che percepiamo la rottura col passato, quel tempo felice in cui la Brianza, mondo di contadini e artigiani, aveva le sue radici profonde nella terra con il suo paesaggio un tempo completamente caratterizzato da campi verdi, piccoli borghi e antiche cascine e la sua storia intrisa di tradizioni. Il lavoro rurale, le fatiche quotidiane, ma anche la solidarietà tra la comunità hanno saputo col tempo forgiare un legame unico tra gli abitanti e il loro ambiente. Ma La cognizione del dolore ci descrive la cessazione inesorabile di quel senso di appartenenza. Il Maradagal è una trasfigurazione, barocca e grottesca, della Brianza fascista, di cui Gadda elenca tutti i mali: il caos, l’assenza di senso civile, la burocrazia. Elementi descritti mescolando un tono fantastico con caratteri meschini e stralunati. “Nessuno conobbe il lento pallore della negazione. Balie torquate di filigrana o d’ambra, scarlatte chiocce tra i bimbi: occhi e riccioli di bimbi nei sereni giardini. E clamorosi fredoni dentro i loro stalli, dove a disegno dello Scamozzi o del Panigarola s’è fatta rara la tarsìa, l’immagine s’è articolata nel racconto, è divenuta poema. E Santi d’argento, vescovi mitrati sul pulvinare, bevono la nube ricca, l’ebbro crassume della gloria. Ma i momenti del negare anche questi il tempo li adduce verso chiuse anime, suggeritore tenebroso d’una legge di tenebra”. La fine della tradizione, la trasformazione del territorio e la scomparsa di antiche consuetudini rappresentano cambiamenti che generano nostalgia profonda e intensa per un passato che sembra sfuggire di mano, senza che nessuno se ne renda conto, pur percependo nel proprio animo una vena di malinconia. Il linguaggio criptico, un pastiche che mescola più stili (termini aulici, tecnici, espressioni provenienti dal lombardo, dallo spagnolo e dai dialetti meridionali), denso di immagini concrete e suggestioni oscure e misteriose, esplora il senso della perdita che diventa poi più evidente, anzi, lo si può definire un elemento centrale nell’identità dei personaggi e della comunità, dove ogni ruga sul viso racconta una storia di sacrificio e dolore.

La morte di una persona cara, quel fratello così tanto amato e invidiato al tempo stesso, deceduto in guerra, la rottura di un legame affettivo tra il figlio superstite e la madre e la delusione per il fallimento di un progetto di vita sono eventi che plasmano la psicologia del protagonista, l’onnivoro e vorace mangiatore Gonzalo Pirobutirro, discendente di un celebre e omonimo notabile dei primi tempi della Colonia. Gonzalo avverte prepotentemente di essere il figlio meno amato e ne ha la certezza assoluta non appena giunge la notizia che il collaudo di un aereo militare è finito male e ha spezzato la giovane vita del fratello. La perdita del familiare diventa così inesorabilmente la consapevolezza del distacco dalla famiglia che lo considera da sempre inferiore.

E Gonzalo reagisce a questo nuovo sentimento con aggressività verso la madre, per cui prova rancore e al contempo tenerezza per le sue fragilità senili, ma riesce solo a rivolgersi a lei con toni aggressivi, tanto da giungere a isolarsi e a trincerarsi dietro un profondo silenzio: “Il figlio, di sopra, stava a lavarsi: a riporre una spazzola in un tiretto. Ella ne udiva il passo, ammorzato, sopra la soffittatura. […] Gonzalo, allora, sedette a tavola: e cominciò a recare il cucchiaio alla bocca, senza che l’introito del liquido sfigurasse la gentile figura del silenzio”. Il vuoto tombale dietro cui il protagonista sceglie di vivere è la chiave per comprendere questa perdita: allentamento di un legame che si rompe e si spezza poi in via definitiva col decesso della madre, senza che venga prima ricucito lo strappo affettivo. Strappo reso ancora più forte dal primo atto con cui comincia la nuova vita dopo la morte della donna: vendere quella casa fonte di debiti, una vera e propria ‘’fisima casalinga’’ della sua famiglia, frutto dell’esibizionismo borghese a cui la madre voleva andar dietro e che non ha fatto altro che dilapidare le sostanze familiari. In nome di ottusi ideali, infatti, i genitori di Gonzalo avevano imposto alla famiglia duri sacrifici, dei quali il simbolo principale era la villa in cui abitavano. Quindi, l’odio verso il mondo borghese e i suoi valori illusori da cui scaturisce e matura la sua cognizione del dolore. La cessione dell’edificio dal punto di vista simbolico assume così un valore molto forte: rappresenta l’ulteriore uccisione della madre, la cui morte avviene peraltro in circostanze particolari. Nel testo non sono chiari i motivi che portano alla scomparsa della donna: sul finale “l’ampia folla richiamata assiste al ritrovamento dell’essere immobile così orrendamente offeso” e la madre del protagonista appare esanime con un colpo mortale infertole al viso, è agonizzante nel suo letto, coperta da un drappo che sembra a tutti annunciarne la morte. Le cure del medico, convocato d’urgenza, si rivelano inefficaci. La scena si chiude allo spuntare del nuovo giorno, lasciando in sospeso il dubbio sull’origine dell’aggressione, senza favorire l’ipotesi di un matricidio rispetto a quella di un atto violento commesso dal peone o da uno dei contadini che frequentano la villa. Quello che invece è certo nell’opera è la perdita di tutti i punti di riferimento che non fa che rivelare e confermare le vulnerabilità umane di fronte all’ineluttabilità della vita. La cognizione del dolore offre dunque un esempio tangibile di come morte, rottura di legami, dissoluzione di valori appartengano all’esperienza umana universale. Chi si accosta alla varietà di questo testo ne esce arricchito, pur nella difficoltà legata alla comprensione e nell’ideologia di fondo nichilista che trova spunto dall’autobiografia dell’autore e del suo turbolento rapporto con la madre. Le emozioni umane legate alla perdita vengono esplorate e indagate a 360 gradi e al lettore non resta che prendere atto di come l’umanità si manifesti ormai come “questo mare senza requie […]” che “offre la sua perenne schiuma, ribevendosi la sua turpe risacca”.

 


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