Anghilieri | Una vita
Una vita, immutata per secoli, all’insegna di stenti per la larga maggioranza della popolazione che viveva del lavoro della terra, scandito lentamente, ma inesorabilmente dall’alternarsi delle stagioni. A descrivercela la penna sottile e arguta dello scrittore Carlo Cattaneo nella sua opera Lombardia antica e moderna, ripresa anche da Alberto Conti nel suo articolo Contadini dell’antica Brianza sulla Rivista di Storia dell’Agricoltura ( n.1 Giugno 2011).
Nella Brianza contadina dell’Ottocento fino al Secondo Dopoguerra era importante generare molti figli. Un vecchio proverbio, infatti, ricorda: “Dona de tri man, dona de du man e dona de una man”. La “donna di tre mani” era quella che aveva più di dieci figli, la “donna di due mani,” invece, ne aveva oltre cinque e la dona de una man era quella ne generava meno di cinque. L’appellativo “dona de una man” assumeva così il significato dispregiativo di una donna di poco valore, perché aveva procreato pochi figli.
Il genere del nascituro, fin dalle prime ore, era un elemento discriminante. Se maschio, già dall’età di sei o sette anni, il bagai (il termine non a caso significa “bagaglio”, perché l’infante veniva immobilizzato, fasciandolo e costringendolo così a stare attaccato alla mamma) poteva aiutare nel lavoro dei campi e, man mano che cresceva, aveva l’onore e l’onere di contribuire al bilancio della famiglia. Mentre, tra la povera gente avere una femmina, una tusa, era avvertito come “problema”: ul pà (il padre) già all’atto della nascita della bimba pensava a come avrebbe potuto darle una dote. Consapevole che, appena giunta in età adulta, la si dovesse maritare, così da avere una bocca in meno da sfamare.
Le donne naturalmente avevano tutt’altro pensiero rispetto agli uomini: quando nasceva una bambina, la madre gioiva, in quanto avrebbe potuto contare nell’aiuto che avrebbe dato in casa e nei campi.
Anche l’età della scolarizzazione dei figli era vissuta come un ostacolo, perché i genitori avevano bisogno dell’aiuto dei propri pargoli. Motivo per cui l’ordinamento scolastico prevedeva che si frequentasse la scuola tutti i giorni feriali, tranne il giovedì, giorno in cui il bambino tornava ad aiutare nei campi il padre. Da qui un celebre detto brianzolo che veniva usato in passato per dare dell’ignorante ad una persona: “Te set ‘na a scola ul giuedì” (“Sei andato a scuola di giovedì”).
Nei mesi estivi c’era però bisogno di tutta la manodopera dei componenti della famiglia e, in aiuto della popolazione contadina, giungeva l’interruzione dell’attività scolastica: quelle che oggi sono lunghe vacanze estive per gli studenti, ai tempi per i minori rappresentavano una “licenza” agricola.
L’adolescenza coincideva semplicemente con l’iniziare a lavorare a pieno titolo, come gli adulti. I maschi, già all’alba, erano nei campi, la sera a governare le bestie. In inverno, quando c’era poco da fare in campagna, andavano a lavorare come stagionali nelle cave di argilla o di arenaria, “fasevan ul paltè o ul pica prea” (“svolgevano il compito di lavoratore dell’argilla o dell’arenaria”) oppure migravano verso la città per “fare giornata”. Le ragazze, d’altro canto, lavoravano in casa e le fatiche non erano di certo minori, perché alle giovinette, oltre a sbrigare le faccende domestiche, era affidato il compito di crescere i fratelli più piccoli e assistere gli anziani. In quanto donne, badavano agli animali da cortile e andavano anch’esse nei campi nel periodo della mietitura; erano impegnate nella cura dei bachi da seta (i “cavaleè”, ovvero “cavalieri”, perché i bachi erano delicati e bisognava trattarli bene come se fossero dei cavalieri) e all’orizzonte si prospettava anche il duro lavoro in filanda che, spesso per la prima volta nella vita, le costringeva ad allontanarsi dalle scomode, ma, allo stesso tempo, rassicuranti pareti domestiche. Ultima tappa nella crescita dei figli era il raggiungimento della maggiore età.
È difficile dire con precisione quale fosse la maggiore età ai tempi. Perché se la legge, datata 1882, conferiva il diritto di voto ai soli cittadini maschi che avessero compiuto i 21 anni, d’altra parte le ragazze già intorno ai sedici anni si potevano considerare in età da marito. E qui si concentravano le attenzioni e le speranze della famiglia contadina che auspicava per le figlie un buon matrimonio e, per fare un buon matrimonio, bisognava avere una dote adeguata: lenzuola, asciugamani, tovaglie, pentolame e tanto altro.
Per i più, tuttavia, la vita della campagna significava solo fatica e miseria, a causa dell’asprezza della quotidianità, delle ricorrenti crisi che andavano dal cattivo raccolto alla diffusione di epidemie (la provincia di Como fu invasa per tre volte da una forte diffusione del colera a fine Ottocento) e della costante insidia della pellagra, prodotta dalla scarsa nutrizione.
Tuttavia, nessuno, meglio del contadino, conosceva e “amministrava” la natura, così da poterne essere considerato “l’economo”. E da buon economo il contadino stesso conosceva il valore dei beni e strumenti a disposizione, ma anche del “capitale umano”. E i figli rappresentavano una risorsa devota e pronta a fare squadra per superare ogni avversità. Ciò, naturalmente, sino all’avvento del “miracolo economico” che rivoluziona abitudini, valori e obiettivi. Anche in Brianza, là dove il tempo sembrava scorrere lento e immutato. Ma questa è già un’altra storia.
Photo by Werner Sevenster