Bajec | L’apertura
Al pronto soccorso lo psichiatra mi fa presente che ho avuto fortuna. Testuali parole. « Le poteva capitare uno psicopatico ».
« E che fa uno psicopatico? »
Un agente grida a tutti che ha trovato un assorbente sotto il mio cuscino. Ora mi sento obbligata a spiegargli perché l’ho tolto. Come se non bastasse, mia madre al telefono mi domanda se è tutto a posto. E fa un rumore strano quando le rispondo. Le dico che ormai vivrò con quella cosa, e lei mi ferma all’istante. « Ah no, tu non vivrai così ».
« Si, invece ».
Passano tre giorni. Tornando al lavoro, trovo un mazzo di fiori sulla scrivania. È la prova schiacciante che tutti hanno saputo. Sono tornata abbronzata. Ho passato del tempo al sole, in campagna. Ma in realtà è come se fossi stata placcata al suolo, come un soldato troppo debole. Ai colleghi racconto quei tre giorni di ripresa: « Grazie dell’interessamento ».
Continuo a sentirmi a disagio con quell’abbronzatura. E ho ancora voglia di giustificarmi.
Esco a pranzo con mia madre, che mi ha invitata in un ristorante greco dove andava ai tempi dell’università. Mi parla di associazioni femministe, di Simon de Beauvoir, e dei benefici del volontariato. Ma d’improvviso mi tocca il braccio, come per una verifica urgente, e sobbalzo, mi metto a gridare. Piango.
Un momento dopo siamo nel mio futuro appartamento. Il posto è vuoto e mi piace. Lo confermo a mia madre che chiama l’agenzia per bloccarlo. La scelta non è stata lunga. Ho solo fatto qualche domanda al proprietario sulla porta blindata e ho firmato.
È difficile per me dire di cosa si tratti. Di cosa si è trattato, in fondo? Scrivere quella parola su un foglio bianco mi fa una strana impressione, estranea all’evento, senza alcun legame con esso. È un suono duro e brutale che mi ricorda la vita di una donna, il sesso di un uomo. Silenzio e solitudine. Ho vissuto entrambe le cose. All’inizio preferivo rivelarlo subito alle persone che incontravo. Dovevo sputarlo fuori, riversarlo sugli altri, sbarazzarmi di quella parola. Dicevo: « mi sono fatta violentare », anche se sentivo che quella costruzione suonava falsa, perché in realtà non avevo fatto proprio niente. Non mi ero fatta nulla. Mentre parlavo con altri mi rendevo conto di quella costruzione passiva, utilizzata per dire che qualcuno si è fatto fregare la bici o la borsa, si è fatto infinocchiare. Ma dire: « sono stata violentata » riduceva improvvisamente la distanza tra la parola e la cosa.
Dopo qualche tempo, ho cominciato a dire « l’aggressione ». Era più facile per tutti, meno evidente. Ognuno capiva quel che voleva. Non scioccava nessuno. Ma ripetendo la parola nuova, immancabilmente iniziavo a piangere. Non fuori, ma dentro. Ero arrabbiata e disgustata dal modo in cui raccontavo quell’evento.
In fin dei conti, non ero stata picchiata, non mi avevano riempita di botte. Non si trattava della violenza che ero solita vedere nei film. Nessuna ferita addosso, niente Aids, non ero nemmeno incinta.
Un poliziotto che mi aveva interrogata qualche settimana dopo, rileggendomi il verbale, mi disse che in ogni caso, dopo una storia come quella, se il tizio si fosse fatto beccare, non era neanche sicuro che sarebbe finito dentro. Avrebbero sempre potuto chiedermi cosa cercavo di fare dormendo tutta nuda e senza chiudere a chiave.
Arrivai anche al punto di dubitare di ciò che era successo. E se fossi stata io a fare entrare un uomo nel mio appartamento?
Un amico, cercando di consolarmi, osò fare qualche paragone. Disse che io, tutto sommato, mi sarei rimessa, a differenza di un’altra donna che conosceva e che se l’era davvero vista brutta con tre uomini contemporaneamente. In quel momento sentii che la mia storia non contava molto. Non dovevo farne un dramma.
Col tempo, il bisogno di raccontare si faceva meno forte. Saltavo alcuni frammenti, cose che volevo nascondere. Però i ricordi sorgevano in pieno giorno. Dettagli che avevo completamente rimosso, sensazioni molto precise: le dita dell’uomo infilate in bocca o sulle mie gambe, l’odore dell’alcol, il calore della stanza.
La mattina, al risveglio, mi capita anche di non pensarci. Meglio ancora se presto, all’alba. Le ventiquattr’ore passano senza che io debba nascondermi. Ma c’è sempre un momento, e il ricordo è lì. È come avere un nome e un cognome.
« Non avresti dovuto rivelarlo » mi fa notare una collega. Come se fosse un segreto. Non c’è niente da rivelare, penso. È un fatto di cui vorrei parlare onestamente. Come dire che ho avuto un incidente in macchina e mi sono fatta male. Per questo ora ho dei problemi di salute.
Da qualche parte conservo ancora il foglio della denuncia, con la data e il luogo dell’infrazione, il mio nome, il nome del commissariato che ha accolto la mia deposizione, e la scritta in maiuscolo: L’AUTORE SORPRENDE LA VITTIMA NEL SONNO.
L’autore aveva detto di conoscermi. E quindi volevo sapere se faceva parte del mio passato, in maniera anonima ma presente, e se potevo tirarlo fuori da lì, come da un sogno, per fornire nuovi elementi alla mia indagine. Era diventata la mia indagine. Per molto tempo avevo cercato di mettere insieme i minimi dettagli della giornata che aveva preceduto quella notte. Come se scrutando tutte quelle ore, avessi potuto trovare la causa, il punto di ribaltamento che mi aveva fatta precipitare nella violenza. In che modo ero stata preparata a quella brusca intrusione dell’altro nella mia vita? Quale porta avevo aperto o non chiuso – continuavo a chiedermi a voce alta – perché qualcuno si permettesse di entrare? Non avevo chiuso a chiave quella notte. Se avessi chiuso la porta, non sarebbe successo. Era così semplice, ma continuavo ancora a girare attorno a quell’idea.
Era una giornata come le altre. Bella e calda. Dovevano essere forse le undici e mi incamminavo in direzione della piscina comunale. Per strada mi ricordai di fare delle foto per l’abbonamento. Perciò devo avere ancora una foto di me prima dello stupro. Rammento di aver nuotato tre quarti d’ora e che portavo un vecchio costume a due pezzi.
Due settimane prima, avevo rotto col mio ragazzo, per motivi che ancora oggi non mi sono chiari. Un periodo difficile. Volevo riflettere alla maniera in cui avevo organizzato la mia vita. E nuotando pensavo proprio a questo, a come cambiarla. Non sapevo che sarebbe accaduto il giorno stesso. Quella notte.
Uscendo dalla piscina, mi sentii a disagio. Ma credo di aver aggiunto il disagio in seguito, al commissariato, immaginando che lui mi avesse individuata in quel frangente.
Alle due del pomeriggio avevo una lezione privata con un allievo simpatico. Mi ero molto divertita correggendo la sua lettera. Gli errori si prestavano ai doppi sensi.
Il mercoledì successivo sono tornata a dare la stessa lezione. Tutto mi sembrava irreale. Non capivo come potevo stare lì, una settimana dopo, con quello che era successo nel mezzo.
Dopo le diciotto, il mio ex è passato in bici sotto il mio ufficio, per sapere se fossi ancora lì, se fossi viva, dato che non gli telefonavo più. Ma non mi vide, perché ero uscita dalla porta sul retro. Quindi ci siamo mancati per poco, e io ero ancora viva. Che sarebbe accaduto, se ci fossimo incontrati? Avrei accettato o no di passare la notte da lui?
Quel tragitto mi è rimasto come un ricordo insopportabile. Ebbi l’impressione che tutto fosse iniziato lì. Uscendo dal lavoro.
Notai un piccolo commissariato all’angolo della strada, dietro casa. Ricordo di aver pronunciato chiaramente queste parole: « Vedi ? Un commissariato vicino casa ». Più lontano, due giovani davanti a una farmacia. Uno dei due mi fa: « Buona sera ». Ho ricambiato il saluto. Per la polizia era un dettaglio importante. Si trattava forse di Lui. Lo avevo inconsapevolmente invitato.
Verso le due di notte, mi spogliai per mettermi a letto. Finii le ultime pagine di un romanzo di Marguerite Duras e chiusi gli occhi, stordita dalla birra.
I miei amici dicevano che in quel periodo potevano capitarmi solo cose spiacevoli. Tredici mesi dopo lo stupro, ebbi un incidente con la bici. Due incisivi rotti. Un amico commentò: « Certo che tu non hai molta fortuna! ». Sei mesi dopo, me l’hanno rubata, la bici. E sempre lo stesso amico, in presenza di altri: « Comunque lei si fa rubare tutto. La bici ecc. »
Arrivai alla conclusione che in quel tempo dovevo essere particolarmente fragile. Era la spiegazione più ragionevole. Qualcuno aveva approfittato della mia fragilità per violentarmi. Quindi non c’era da sentirsi colpevoli. Non era certo un errore essere fragili. Ma non appena mi sentivo fragile e triste, l’angoscia dell’aggressione tornava.
Mesi e mesi vissuti come in assenza del mio corpo. Mi sentivo leggera, immateriale. Una parte di me restava seduta a guardare l’altra agire.
La mia scelta, in materia di abbigliamento, ricadeva sui vestiti larghi. Mi rendevo conto che vestendomi in quel modo andavo verso la sottomissione. Corrispondevo all’immagine della donna violentata che ha paura del suo corpo e dei segnali che può inviare. Ma il mio corpo, in realtà, non aveva più il posto che gli spettava. Era tributario delle angosce che nascevano spingendomi alla finestra, con quella voglia improvvisa di librarmi nel vuoto. Lo spazio, di colpo, si restringeva. Il monolocale diventava una morsa. E non c’era altra uscita se non le finestre. Mi fermavo sempre prima di saltare. La vita continuava ed era insopportabile.
Durante il lungo periodo passato da sola, cercai di provare a me stessa che avevo energia sufficiente. Agli altri apparivo infatti piena di entusiasmo, fiduciosa, e volevo impegnarmi ovunque: nei centri sociali, nella vita del mio quartiere. Avevo cambiato certe frequentazioni e pensavo perfino di aver cambiato classe sociale, spendendomi per combattere le mie paure e i miei pregiudizi. Ora andavo verso la gente in difficoltà.
Tornando dal lavoro, sentivo salire dentro di me una rabbia vulcanica: « Non mi fotteranno! No! Nessuno ha il diritto! Andate tutti a fare in culo ! ». Sulla porta di casa, all’interno, avevo scritto tutte le ingiurie che conoscevo. Quando passavo davanti a un ospedale, in bicicletta, gridavo al personale medico di andare al diavolo. Mi rendeva più forte. In borsa tenevo una bomboletta lacrimogena e un coltellino che aprivo e facevo scivolare all’interno della manica. Sarei stata incapace di servirmene.
Cominciai a svegliarmi automaticamente alle quattro e mezza. Mi stupivo della precisione del mio corpo nel commemorare la notte del 25 maggio. La ragione non aveva più posto. Sognavo molto più di prima, situazioni pericolose, omicidi infantili ad opera di donne dai capelli lunghissimi.
Durante un incontro con la polizia, mi avevano fatto visionare uno schedario di uomini arrestati almeno una volta per aggressione sessuale. Ce n’erano più di duemila. Duemila stupratori potenziali solo nella città dove abitavo.
Nella metro sospettavo chiunque di volersi avvicinare e strofinarmisi addosso. Stessa cosa ne giardini pubblici, nell’erba.
Quando su una piazza vedevo una manifestazione dicevo a me stessa: « Ecco la gente che resiste ». Li capivo e ne ammiravo la forza. Forse lo stupratore faceva parte di quel gruppo. Mi spingevo fino a volerlo capire. Senza perdono, ma solo con l’idea di poterlo accettare. Era già tanto. Ma nel momento stesso in cui pronunciavo quella parola: « accettare », una furiosa rivolta si innescava. Guardavo passare la manifestazione ripetendo: NO! NO! NO!
Se tutto è aperto, tutto è possibile. Allora è un rischio. Avevo preso un rischio. E adesso mi allenavo ad essere aperta, non pensavo che a questo, all’apertura. Una persona aperta, un luogo aperto, un paese, lo spirito. Presto mi appariva l’immagine del mio sesso aperto. Panico. Chiudevo tutto.
L’unica soluzione: stare da sola. Era comunque facile, perché non avrei mai accettato che un uomo mi toccasse.
Mia madre mi disse che da quella notte di violenza le mie cellule avevano avuto il tempo di rigenerarsi, con le lacrime, il mestruo, l’urina, i tessuti, e le mucose. Il mio corpo di oggi non era più quello di prima.
Pensai fosse mio fratello a farmi una sorpresa, dietro la porta, proprio a causa di quel berretto. Mio fratello ne portava uno simile. Non riuscivo a vederlo in volto. Così mi disse:
« Non aver paura, non ti faccio male. Voglio solo guardarti mentre ti masturbi ».
Allora lo supplicai. Credevo davvero che si sarebbe fermato e che potevo convincerlo con le buone.
« Fa quello che ti dico. E non guardarmi ».
Mi appoggiò il lenzuolo sul volto, senza premere. Cercai di gridare, ma mi uscivano solo profondi sospiri. Quando mi scoprivo il volto, lui me lo ricopriva sempre, delicatamente.
Finii per mettermi una mano sul sesso e cominciai e muovere le dita, supplicandolo sempre di andarsene.
« Non vedi che sono asciutta? Non serve a niente ».
« Toccati ancora… Adesso girati ».
Quando mi voltai, lui capì che ero del tutto sottomessa. Non a lui, ma alla paura.
« Ora ti prendo ».
Gli ricordai la promessa che mi aveva fatto. All’inizio si trattava solo di guardare. Gli dette fastidio. Mi tolse la mano dal sesso e ci mise la sua. Si aprì i pantaloni.
« No, ti prego! »
« Se fai così, te lo metto nel culo. Cosa preferisci? »
Mi chiese di godere forte e chiaro e di mostrargli come facevo quando il mio ragazzo mi era sopra. E io ripetevo tutto ciò che mi obbligava a dire.
« Non morirai per questo, tranquilla! »
A me non importava più.
« Chiamerai la polizia, lo so ».
Scossi la testa.
« Non ti conviene chiamarla. Sta attenta. Ti conosco. So dove vai, dove lavori. Non c’è modo di nasconderti. Ho gli occhi ovunque ».
Un momento dopo mi consolava, sempre da lontano, non riusciva a lasciarmi da sola. Eppure doveva andarsene. Mi passò un pullover perché avevo freddo.
« Te ne puoi andare, adesso? Ti prego ».
Mi ero messa a lavorare in un cinema, dopo aver dato le dimissioni in ufficio. Durante le pause, andavo spesso a mettermi in prima fila, sotto il grande schermo dove correva la famosa scena in cui una voce fuori campo chiede a una donna cosa farà adesso. Io rispondevo prima dell’attrice: « Non lo so, voglio essere un’altra ». Era solo per quella scena che entravo in sala. Le ultime parole erano quasi incomprensibili, tanto la voce era bassa. Ma io capivo tutto. Le pronunciavo al buio con la protagonista. Avevo così tanta voglia di vivere. Ero stata disperata e felice. Non depressa e mai malata. Andava tutto bene. A volte guardavo la mia vita in faccia. Bisognava arrendersi all’evidenza: la notte del 25 maggio era cambiata. Finalmente ero diventata felice. Riuscivo a considerare questo stato di benessere come qualcosa di inevitabile. Tutti sapevano che ci sarei arrivata. Adesso ero intoccabile.
Uno dei primi effetti che avevo sentito in maniera più forte, subito dopo la terapia, fu il desiderio di avere dei figli. Prima ero malinconica, non credevo a molte cose, conoscevo poco l’amicizia, ero gelosa e possessiva. E dopo: eccomi gentile, aperta, innamorata di tutti. C’era questo punto zero intorno al quale si tesseva la mia storia. Mi ero creata completamente partendo da quel punto. Ero nata a me stessa. Avevo tracciato il mio destino.
Sapevo di essere sul bordo. Lo dicevo anche da sola, di notte : « Sei sul bordo, ma sul bordo di cosa? »
Una sola volta, per un istante, presi coscienza di cos’era realmente quello stupro. Era immenso. Non diviso in ricordi o impressioni, piccole cose che potevo controllare. Era troppo grande per me. Anni prima, mi ero detta che di fronte a una tale violenza non ce l’avrei fatta. Sarei morta, piuttosto. Ma sono sopravvissuta. Ho scelto di sopravvivere, non ricordo neppure quando. Mi sono arresa alla vita. Ho lasciato stare.
È da questo che non mi rimetterò mai.
(Questa è una versione narrativa di un monologo intitolato Ouverture, scritto e andato in scena nel 2006, al Teatro Colosseo di Roma, per la regia di Luciano Melchionna e l’interpretazione di Tiziana Avarista, come seconda parte dello spettacolo Lesioni).
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