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Montorfano | Dal grido al silenzio

Il sesso deve rimanere confinato.
Così potremmo dire guardando a ritroso la storia in quanto è sempre stato oggetto di prescrizioni particolari. Non solo con l’avvento della chiesa ma nell’intera storia dell’umanità, sia che si tratti dei culti rivolti agli organi genitali, dei tabù o delle clausole di impurità, delle condanne di alcune forme di sessualità come l’omosessualità o la sodomia. Ma le prescrizioni sono sempre state un breviario per superare la paura, circuirla, farla esplodere nel proprio segreto notturno che la tiene prigioniera. La paura è il bisogno di ritornare a vedere.

Sarà per questo o per le regole segrete scritte in ognuno di noi, che il sesso ha sempre provocato imbarazzo. Non si parla apertamente del sesso ma lo si tiene confinato alla propria sfera privata. Anche quando viene presentato con audacia, la descrizione dell’atto performativo acuisce i caratteri della commedia e del grottesco come se, per riuscire a raccontarlo, sia necessario ingrandirlo, accelerarlo, scolorire un lembo delle carni toccate per colorarne maggiormente altre, micro avvenimenti che non concentrino gli occhi sull’azione. Ogni racconto che abbia il sesso come centro è mancante di qualcosa. Quando si parla, quando lo si racconta o lo si ascolta, nasce sempre a fianco del racconto il riso. Il sesso ci imbarazza. Tutte le culture sembrano conoscere la comicità a sfondo sessuale. C’è una violenza o una sconvenienza del sesso dalla quale ci allontaniamo tramite il riso e il pudore. Il riso offre sempre un’eccellente mascheratura, un celarsi per sottrarsi all’imbarazzo, un celarsi per difendersi. Ma nelle grandi complicanze del riso, nelle sue infinite sfumature, non sempre svolge la funzione di tutela. A volte sorge per una manifestazione di mancanza di conclusione, la risoluzione in nulla di un’attesa. Si ride o si sorride perché l’attesa ha svelato un bluff, ha toccato le corde del nostro penetrare la notte e ci ha fatto ritrovare nello stesso luogo poco illuminato dove eravamo.
Ridere, può essere anche il nascondiglio dove la malizia si ritira. Una malizia inconsistente, che oscilla su se stessa, imprigionata tra la curiosità di avanzare, raccogliere più particolari possibili e quella che traccia nello spazio delle parole dell’altro la propria consacrazione. Un percorso alternativo, aiutato dalla trasgressione della fantasia che lentamente colora di immagini e azioni proprie le parole, i segreti, le omissioni del racconto ascoltato.
Ma il sesso non porta nulla se non al proprio piacere, scrisse Nancy. Il piacere è stato a lungo interpretato come un mezzo di cui la natura dispone per invogliare la riproduzione. In ogni epoca si è stati tuttavia capaci di praticare il sesso senza esporlo alla fecondazione. Saremmo tentati di dire che il figlio è una produzione (poiesis) e l’amore un comportamento (praxis). Ma è una distinzione semplice perché è difficile stabilire dove cominci e dove finisca il sesso. Esso attraversa tutta la vita. È (per dirla con Freud) la figura nuova e antichissima di ciò che ha sempre aperto il vivente a un sovrappiù di vita e il vivente parlante a un’esclamazione sempre ai limiti del senso. La prossimità è qui la categoria più importante. La prossimità o l’intimità e, più in generale, un ordine del superlativo: il più vicino, il più interno, ciò che penetra maggiormente nei paraggi, nelle adiacenze, nel segreto tanto dell’uno quanto dell’altro. Toccare il limite, ecco la questione del rapporto. Il rapporto sessuale è l’epifania del toccare: del baciare, del fare l’amore.
Potremmo supporre che il toccare sia l’azione che spoglia il segreto. L’azione che abbatte il codice dell’enigma. Il toccare non è sollevare, accarezzare, prendere ma inizia più oltre. Quando il corpo propone tutto se stesso e si prepara ad essere occupato.
Se l’erotismo è il gioco del rallentamento del tempo per innescare l’invenzione, l’emozione, la sorpresa, in altre parole, il meccanismo della Rivelazione, il sesso sostituisce al linguaggio del segreto quello della pratica fino a condurla alla sua dissipazione, al proprio struggimento: il godimento.
A favore di questo potremmo tracciare tre vertici atti a liberarlo: il corpo, il tatto, il linguaggio. Se il tatto è il ritorno sensoriale del gioco dell’immaginazione, il corpo è il luogo dove il godimento avviene. Dire che il corpo umano è esposto non significa soltanto affermare che è fragile, vulnerabile, ma che la sua esposizione, il suo modo di essere scoperto è il centro e il pilastro del proprio essere. Il corpo nudo è, per eccellenza, il corpo del desiderio e del tatto. Ma allo stesso tempo, il corpo nudo si ritrae dal rapporto. Quando due persone si spogliano, si mettono prima di tutto nella condizione di non comunicare più. Questo silenzio scivola verso due strade divergenti. Da un lato vediamo sorgere l’intimità, dall’altro l’unione di una fragilità e una potenza.
L’intimità è abbandonare, rinunciare alle mire che si avevano sull’altro, privarsi di ogni strategia nei suoi confronti, dire addio ai progetti di annessione e cattura, trattenersi da ogni intenzione, ricrea, potremmo dire, l’isolamento del deserto perché è abbandonare ciò che si conosce e si possiede. Come scrive Jullien: “Nell’amore, l’altro deve essere mantenuto nella sua esteriorità perché permanga la seduzione; al tempo stesso il desiderio, che è desiderio di possesso, vuole distruggere l’esteriorità. Da qui si deduce che l’intimità sfugge egualmente a entrambi, perché comporta l’incontro di un Fuori, un aprirsi alla sua esteriorità, ma questo fuori, invece di vederlo assorbire in sé lo fa cadere in un dentro condiviso. Il dentro comune è il frutto di una conquista”.
Il corpo nudo invece è la tangenza tra la superficie delicata della trasparenza e l’intensità della ripetitività e della dissipazione. La nudità trema, indifesa, costretta all’umiltà nello stesso tempo in cui afferma una sovranità pura e cioè non una potenza superiore ma un certo modo di tirarsi fuori dall’ordine stesso della potenza e dell’impotenza.
Il terzo centro che marca il godimento e lo stringe verso una singolarità irraggiungibile è il linguaggio. L’esclamazione erotica ha la strana caratteristica di essere uno degli usi in cui il linguaggio si porta al limite della significazione. La formula è l’esclamazione ripetuta in Sade “Io godo!” -dice Nancy- dove alla ridondanza linguistica del sesso si avvicenda e si intralcia la ridondanza sessuale del linguaggio come se l’uno continuasse ad avvicinarsi all’altro senza mai confondersi con esso ma senza cessare di rimandare ad esso come alla sua condizione o al suo esito più lontano e segreto. Parliamo per godere e godiamo per parlare. Come a dire che tra sesso e linguaggio si innesta l’energia della sostituzione. La parola viene qui a mostrare ciò che non si mostra oppure viene a sottolineare che c’è un eccesso del mostrabile come un eccesso paradossale di senso sulla sessualità stessa e come un supplemento di confessione dell’inconfessabile.
Le esclamazioni: Godo! Scopami! Non ne posso più! non fanno che proliferare un’evidenza, enunciando ciò che ha luogo e che, di per sé, non ha alcun bisogno di essere enunciato. Quest’uso della parola rinvia tanto alla tautologia quanto al performativo: come se “io godo”, “io scopo”, ecc facesse effettivamente godere o almeno, come se l’enunciato appartenesse al godimento. Come se il “dire” è esso stesso godimento. Così le espressioni dell’osceno e del vergognoso sono tentativi disperati di raggiungere il cuore nascosto del godimento, di esibirne l’eclissi. È per questo che, se la pornografia consiste nel restare attaccati al fantasma dell’esibizione, l’amore si libera invece del fantasma tornando dal grido al sussurro e al silenzio.


Cfr. J-L. Nancy; Del sesso, Cronopio, 2016.

Photo by Nino Liverani

 

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