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Bregoli | Dastidar – Broken Pixels

Today I am living
in someone else’s
metaphor for the

future / a screen
that seizes, freezes
in its promise

of touch / haptic is
to help as waving
is to drowning / you

in the UX is just
a run of broken
pixels / a glittering

spectrum / fritzing
my status update

 


 

Oggi sto vivendo
nella metafora
di futuro di

qualcun altro / uno schermo
che cattura, agghiaccia
nella sua promessa

di contatto / il touch screen sta
all’aiuto come l’onda
all’annegare / tu

nell’esperienza utente sei soltanto
una corsa di pixel
rotti / lo spettro

luccicante / che freeza
l’update del mio status


 

La poesia di Rishi Dastidar tratta un tema di evidente attualità, che si impone, soprattutto in questi ultimi mesi di pandemia e conseguenti lockdown, con un’impellenza e un’autenticità nuove. I moderni mezzi di comunicazione, in particolare le reti a banda sempre più larga che consentono il trasporto di informazioni multimediali ad alta risoluzione, consentono oggi un’interazione a distanza, anche, ma non solo, attraverso lo strumento della videocomunicazione e della videoconferenza, che permette sulla carta la sostituzione dell’incontro in presenza: ne abbiamo avuto ampia dimostrazione negli ultimi mesi in cui anche “absolute beginners” della tecnologia hanno appreso, facendo di necessità virtù, i rudimenti dell’uso della videocomunicazione, come alternativa all’impossibilità di una interazione fisica. Da qui il proliferare degli “streaming”, spesso anche per i motivi più futili, come reazione all’isolamento, come palliativo obbligato. Siamo assolutamente certi che questo non conduca a un’assuefazione pericolosa dalla quale può essere arduo arretrare?
Dastidar nei suoi versi si interroga proprio sul ruolo e sulle implicazioni derivanti dall’uso di questi nuovi strumenti di comunicazione: ne nasce una poesia dalla dizione molto netta, scevra da qualunque tentazione sentimentalistica o ideologizzante. I versi, molto brevi e frammentati, ulteriormente franti dai “/” all’interno, fanno uso di inarcature molto forti, spezzano nettamente piano metrico e sintattico, contribuendo a tenere alta l’attenzione del lettore, grazie al ritmo nervoso e concentrato. La suddivisione strofica regolare in terzine con un distico finale amplifica la frantumazione del discorso, a conferma di quel “broken” che compare fin dal titolo come elemento chiave, ribadito all’interno della composizione con un enjambement forte: “broken / pixels”, come se anche il verso si dovesse ugualmente spezzare per dare forza plastica alla parola.
Il linguaggio impiegato da Dastidar attinge a piene mani dal linguaggio della tecnologia, dal suo “slang”: si vedano i termini “freeze” (che si riferisce al classico effetto del fermo immagine), “pixel”, “haptic” (che si riferisce al mondo della sensoristica di largo uso nelle esperienza della realtà virtuale e della cosiddetta realtà “accresciuta”), UX (addirittura un acronimo informatico, da riferirsi alla “user experience” nella accezione delle interfacce uomo-macchina realizzate mediante strumenti software), “spectrum” (termine tecnico-scientifico riferito allo spettro del segnale, e quindi ben distinto dalla sinonimia possibile nella traduzione italiana fra “spettro” e “fantasma”, coincidenza che non è tale nella lingua originale), “fritzing” (termine tecnico-gergale che si impiega nell’espressione “on the fritz” per indicare un guasto, una malfunzione), “status” (termine ascrivibile alla teoria dei sistemi e alle macchine digitali a stati finiti), “update” (usato, per esempio, per l’aggiornamento del software). L’autore è capace di innestare questi elementi nel linguaggio poetico vivificandolo; se ne serve come strumenti per incidere, sezionandolo, sul tema esistenziale che approccia, allargando così sostanzialmente il loro perimetro istituzionale d’impiego.

L’impossibilità del contatto fisico, l’obbligo forzato all’impiego del mezzo informatico perché la comunicazione sia possibile, diventa la “metafora” di un futuro che si annuncia come inquietante, impossibile da accettare, fino al punto di diventare il futuro di “qualcun altro” – non più nostro, quindi.

Questo concetto viene sottolineato da una serie di immagini efficaci e penetranti che si succedono in un climax crescente di tensione e inquietudine: lo schermo che agguanta (“seize”) come un predatore, il senso del tatto che viene ibernato nella sua impossibilità a esprimersi fisicamente, il rifiuto della “protesi tecnologica” (“haptic”) sancito dalla similitudine con l’onda che sommerge e travolge e, infine, il riemergere del tema centrale dei “broken / pixels” che cercano di adulare con il loro “glittering / spectrum”, ossia con una vacua e sterile cosmesi che falsifica la realtà. Il concetto chiave della frantumazione viene ulteriormente amplificato dall’impiego in forma di gerundio del termine “fritz”, già commentato prima: nella chiusa la rottura è diventata irreversibile, congela ogni possibile cambiamento, trasformazione (lo “status update” inteso nel senso più ampio del termine). La riappropriazione di una condizione umana più autentica e originaria, del contatto fisico vero, sembra essere irrimediabilmente compromessa nel panopticon informatico: resta il dubbio, molto inquietante, che stiamo assistendo al superamento di una soglia drammaticamente pericolosa nei rapporti fra gli uomini, un varco dal quale è problematico fare ritorno. Dastidar ci impone uno sguardo disincantato verso questa eventualità, con le parole di una poesia categorica, senza compromessi, ma non immune anche da una certa amara ironia.

Fabrizio Bregoli

 


Featured Image by Jason Krieger on Unsplash

Traduzione di “Broken Pixels” in italiano di Matteo Galluzzo

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