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Brullo | Ingrid è il nome del Labirinto

“Ciao Davide, darò alla luce il mio primo figlio: sarà un anno di grandi cambiamenti, di nuova luce”. Mio padre si era suicidato esattamente trent’anni prima, non sentivo mia sorella da sei e rispondeva così ai miei auguri. Quando mio padre è morto, mia sorella aveva un anno, io dieci. Prima che mio padre morisse, l’ho vista soltanto una volta, mia sorella, un grido di carne dentro la culla. Mio padre l’aveva chiamata Ingrid perché amava Ingrid Thulin, una delle tante muse di Ingmar Bergman. Come Bergman, mio padre era un traditore, viveva nella menzogna, godeva nell’ordire altre vite, la propria gli era insufficiente, quella di chi lo circondava era troppo banale, stava in un cassetto. Tutte le donne con cui è stato avrebbero voluto da lui un figlio, perché è bello credere alla fuga più che alla bellezza. Studiando, avevo scoperto che Ingrid proviene dal gotico “Gries”, che significa pietra. A Ingrid avevo consacrato la mia ispirazione dedicandole libri di cui lei era all’oscuro. Mi sembrava affascinante l’idea del fratello che da lontano, nell’invisibile, custodisce e condanna la vita della sorella, destinando la sua vita più intima a chi non saprà mai riconoscergli la grazia, il perdono – una idea che mi affascina ancora. Ingrid è la figlia della donna per cui mio padre ha lasciato mia madre – e me. Ingrid è la figlia di un tradimento, credevo – oppure, di un amore più grande, mi dico, ora. L’ultima volta che avevo parlato con Ingrid, sei anni prima, lei mi aveva scritto, “quello è tuo padre, non il mio”. D’altra parte, Ingrid indossava due cognomi – il secondo, quello dell’uomo che sua madre aveva sposato poco dopo la morte di mio padre, aveva sopraffatto e ucciso il primo. Ingrid aveva ripudiato il padre e il padre, trent’anni dopo la morte, la ricambiava con un figlio. Come l’avrebbe chiamato?

 

Compivo quarant’anni ed era l’anniversario della morte di mio padre. Si era ucciso a quarant’anni – ora che sono più grande di lui, potrei confortarlo: conosco la regola per sopravvivere, la norma che non deteriora? Ma mano che si avvicinava l’anniversario, giocavo con la morte. Magari mi uccido il giorno in cui si è ucciso mio padre, sembrerà un compimento, un compleanno. La vita, se non si è predestinati, però, non ha la nitidezza di una sfera, è garantita dai nodi – e i nodi vanno inghiottiti. Mio padre è nato il 10 febbraio, come Boris Pasternak, io sono nato l’8 febbraio, mia sorella Ingrid qualche giorno prima. Il giorno in cui si è ucciso mio padre è nata la mia prima amante, un’alunna di mia moglie, al liceo, l’ho conosciuta grazie a lei – non me lo perdona, ignorando che per me amare non è attendere a un patto, ma conoscere, riassumere una vita estranea in un sospiro. 4 dicembre 2019: mio padre è morto da trent’anni. Non sono stato sulla sua tomba, in un piccolo cimitero di paese, circondato dai boschi, sopra Verbania, da cui si vede, come una rosa d’acciaio, il Lago Maggiore. Ho pensato così intensamente a quell’anniversario da dimenticarmelo.

Ero certo che mio padre mi avrebbe dato un segno: ho destinato la mia vita al suo ricordo, nulla è superiore a un morto, niente possiede, in questo mondo, la stessa santità. La sua morte attraversa come un’ascia la mia vita.

Il segno, infine, è arrivato: trent’anni dopo la morte di mio padre, la figlia che lo ha ripudiato avrà un figlio. Sembra un episodio biblico: il padre, morto, riconosce la sua benedizione alla figlia che non ha voluto riconoscerlo. Indelebilmente, il segno sancisce il mio esilio dal padre, che ha preferito la secondogenita. Certamente, mio padre rivivrà nel figlio di Ingrid, è ineluttabile, lei non può arginare la presenza di un morto. Glielo vorrei dire – non so dove abita, a Torino, a Parigi, non so che lavoro faccia, ignoro se sia sposata, e lei non sa che i suoi nonni, i genitori di nostro padre, sono morti, non sa dove siano sepolti, non sa che, corrotti dalla demenza, sono svaniti, dimenticando il suicidio del figlio, il figlio. In questo caso, esiste una logica. I genitori dimenticano di aver avuto un figlio, mio padre; mio padre preferisce la figlia che lo vuole dimenticare. Quanto io ho tentato di far vivere la memoria di mio padre così Ingrid ha cercato di ucciderlo: la benedizione è sempre una forma di vendetta. Ingrid non vuole sapere dove è sepolto suo padre, non ha mai visto la tomba dei nonni; io non faccio visita alle tombe di nessuno. C’è qualcosa di storto, di storpio, di mostruoso in questo – come se lasciassimo i morti a pascolare, a quattro zampe, in un anfratto del sogno.

 

 

Di solito, porto le mie amanti sulla tomba di mio padre. Si lasciano affascinare dalla sua fotografia, dalla storia del figlio del suicida che porta la morte ovunque e ha lupi al posto delle dita. Quando si avventano su di me – lascio sempre l’iniziativa della lascivia a loro, per essere certo del dominio – immaginano di fare l’amore con mio padre. Lei, però, è una sconosciuta, ha la mia cintura sul braccio, come uno che incanta i serpenti, vuole farsi scopare contro il muro di un paese, Santarcangelo, forse, e sibila, che male c’è?, ti fai dei problemi? Se la amo è perché mi fa sentire schifoso, incapace, un debole. La sua bellezza è debordante, dice di chiamarsi Diana, non so quanti anni abbia, ci mordiamo ed è a lei, improvvisando, che racconto di Ingrid e del mio nuovo libro. Comincio: “Ciao Davide, darò alla luce il mio primo figlio: sarà un anno di grandi cambiamenti, di nuova luce”, gli aveva scritto Ingrid, non la sentiva da sei anni, da quando lei gli aveva detto che ripudiava il loro padre, morto trent’anni prima, suicida, e quello, pensò lui, è un segno, un segno indelebile. Il padre, nel giorno del suo anniversario, ha scelto di dare un segno alla figlia che lo ha ripudiato e non a lui, il figlio fedele, vissuto all’ombra della sua memoria. Quel figlio, ora, si sentiva tradito e libero, allo stesso tempo. Vado avanti per un po’. Le frasi, miracolosamente, escono limpide, lineari, con la punteggiatura, dovrei registrarmi. Quando termino, siamo in un bar, Diana mi salta addosso, mi bacia, mi toglie la maglia, mi morde il petto – ci guardano, e io guardo altrove, pensando, avvelenami, ti sono devoto perché tu mi uccida, dimenticandomi.

 

Dall’autostrada vedo gli aironi. Volano solitari, come nuotando, con eleganza micidiale. Nella mia mitologia, gli aironi trasportano i morti nei mondi al di là di questo. Chi è morto senza accorgersene, senza superare la prova, di morte violenta, si aggira ancora su questa terra. Di solito, questi morti si accumulano nelle periferie delle metropoli, nei luoghi acquitrinosi e marziani. Si acquattano lì, gonfi di rabbia, guardinghi, senza occhi, con denti esagerati. Attendono un airone, per scappare al giogo della nostalgia, gli si avventano sul collo, lo implorano di portarli nell’al di là. L’odore della vita è insostenibile per i morti che presto disimparano la natura eretta. Diana non conosce gli aironi, è affezionata ai corvi e alle cornacchie, dice che gli si posano sulle spalle. Vuole fare l’amore in macchina, è notte, entriamo a Bologna, piove, è su di me come un cappio e la allontano. Lei se ne va, mi saluta con malizia, incontra uno, lì per lì, in una stazione di benzina di fianco alla strada statale, e si fa prendere da dietro, perché la guardi.

Vado via. Vedo un airone, ancora, come un’esplosione – penso che forse sono uno dei morti.

Un paio di mesi prima che Ingrid mi scriva, credo. Su un treno per Milano. Mi pare di vederla. È seduta di fronte a me. Stessi capelli chiari, viso squadrato, bellezza sprezzante. Ingrid mi somiglia molto – è uguale a me, donna. Chissà se suo figlio mi assomiglierà, chissà come lo chiamerà. Forse, con buoni motivi, potrei essere indicato io come il padre di quel bambino. Per anni ho coltivato questa idea: unirmi a mia sorella. Salvarla dalle strettoie familiari – e salvare me stesso –, rapirla, vivere insieme. Le stirpi dei re si fondano così, unendosi tra fratelli. Per anni, da quando ho scelto di incontrarla, era poco più che maggiorenne, non ho mirato ad altro che a questa lenta e coerente opera di seduzione. Da quando mia sorella ha scelto di non vedermi più, ho pensato di dovermi uccidere. Entrambi gli atti – unirmi a mia sorella o uccidermi – tentano, in fondo, di dare un senso al suicidio di mio padre. L’unione con mia sorella, l’incesto, si fondeva con un’altra immagine, mitica. Ho sempre pensato che il filo rosso di Arianna – simile e contrario al filo con cui Penelope tesse la sua tela per disorientare i Pretendenti – non abbia come fine quello di aiutare Teseo a uscire dal Labirinto, ma di consentire alla donna di ricongiungersi con il Minotauro, suo fratello. Arianna è certa che Minotauro ucciderà Teseo e che, attaccandosi al filo, il mostro risalirà le spirali del Labirinto fino all’uscita, fino a lei. Per questo, quando vede Teseo, sanguinante di gloria, una vacua tristezza la occulta – per questo Teseo si libera di lei, figlia della donna ingravidata dal toro, sorella del mostro. Il Labirinto, nella mia immaginazione, è una creatura viva, che si contorce, come un pitone. La ragazza sul treno continuava a fissarmi. Guarda fino a che punto ti ho dimenticato, pensai che volesse dirmi mia sorella. Poi scese dal treno, e mi guardò ancora, il suo sguardo pieno di superiorità e indifferenza. I figli dei suicidi sono come Arianna sul ciglio del Labirinto: diffondono la morte ovunque, cercano di sedurre il mostro. Mia sorella Ingrid, al contrario, spadroneggia sul Labirinto. Non ha conosciuto suo padre e ha avuto molti padri, molti uomini. La sua natura è guerriera, ispira ostilità, non so immaginare chi possa averla penetrata, se non con violenza o sotto intimidazione. Forse suo figlio sarà Minosse, la legge, forse Minotauro. Forse è l’esito di un riscatto, il crisma della vendetta, la restaurazione.

 


Photo by Ashley Batz

Comments (2)

  • Paolo

    Davide brullo, uno dei più interessanti autori italiani degli ultimi anni. E’ anche un bravissimo poeta.

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  • Daniela

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