Camurri | La distanza di un padre
Ifratelli Karamazov è l’ultima opera scritta da Fëdor Dostoevskij, e in un certo senso rappresenta un vero e proprio testamento spirituale, prima ancora che letterario, del grande autore russo. Molte sono le tematiche affrontate in questo libro, ma quella prevalente è senza dubbio la contrapposizione tra il bene e il male, o anche, detta diversamente, tra l’amore e l’odio. La vicenda, o per meglio dire l’intrecciarsi e il sovrapporsi di parecchie vicende, del romanzo ruota attorno alla figura di Fëdor Pavlovič Karamazov, un uomo abietto e amorale, e a quelle dei suoi figli, avuti da donne diverse. Tra questi, il turbolento Dmitrij, il maggiore, ha addirittura nel genitore un rivale nelle questioni sentimentali, mentre il più piccolo, Alëša, è letteralmente intriso di religiosità.
Oltre ai fratelli, un ruolo fondamentale nel romanzo è rappresentato dallo starec Zosima, il padre spirituale di Alëša. Si potrebbe dire in un certo senso che Alëša ha una figura paterna, seppur anomala, a cui fare riferimento.
Nella narrazione, assume un rilievo del tutto particolare la figura di Ivan, che nei dialoghi e ancor più forse nei soliloqui illustra la propria dolorosa e tormentata concezione dell’esistenza, caratterizzata dalla presenza/assenza di un Dio che appare come un padre “distante”.
Per certi aspetti, Ivan Karamazov può essere visto come l’evoluzione finale del personaggio scisso, o diviso, così ricorrente nell’opera di Dostoevskij: tra di essi, si possono citare l’innominato “uomo del sottosuolo”; Raskol’nikov, il protagonista di Delitto e castigo; l’aggressivo Rogožin de L’idiota; e Stavrogin, il nichilista de I demoni.
Ciò che più di tutto, agli occhi di Ivan, risulta inspiegabile e incomprensibile nell’operato di Dio è l’insensatezza delle sofferenze provate dai bambini: come è possibile, si chiede e chiede al fratello minore, narrando nei minimi particolari dei fatti – e Dostoevskij ha tragicamente riportato degli eventi realmente accaduti, presi dalle cronache locali – che Dio abbia voluto un qualcosa di così terribile e agghiacciante come l’indicibile dolore provato dai più piccoli, per portare a compimento il suo disegno? E’ la mancata risposta a questa inquietante e straziante domanda che porta inevitabilmente Ivan alla disperazione.
Per mettere a fuoco i punti salienti della propria pessimistica e cupa Weltanschauung, Ivan concepisce La leggenda del Grande Inquisitore: un poemetto (non ancora scritto, ma esposto a voce a Alëša), in cui egli immagina che Cristo ritorni sulla terra quindici secoli dopo la sua prima venuta, ai tempi dell’Inquisizione. Numerosi sono stati i tentativi di interpretazione di questo celeberrimo e originalissimo “racconto nel racconto”; in questa sede, ci si limita a osservare che esso getta una luce, una luce inquietante, sulla psiche e sulla visione del mondo di Ivan, con tutte le sue laceranti e terribili contraddizioni.
Al culmine della propria parossistica crisi interiore, Ivan ha un’allucinazione in cui sperimenta un incontro con il diavolo: un diavolo davvero particolare, un “doppio” che beffardamente lo impersona e caricaturizza i suoi pensieri e le sue azioni.
In seguito a questo “incontro”, Ivan ha un attacco di febbre cerebrale. A differenza di Dmitrij e Alëša, Ivan non riesce a rigenerarsi: la distanza con il Padre Creatore non si colma, e il suo intelletto ne esce distrutto.
Mi sia consentito dedicare questo brevissimo scritto a Fausto Malcovati, che è stato il mio docente di Letteratura Russa all’Università Statale di Milano.