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De Falco | Fragilità

Guardo poco, pochissimo la televisione, ma l’altra sera ho visto in una trasmissione un uomo andare via dallo studio dicendo di non voler partecipare al dibattito che sentiva troppo manovrato o impostato in modo denigratorio. Non voglio parlare però dell’argomento della tensione, dato che ciò che ha acceso il mio interesse (a tal punto da accorgermi che ero di fronte a qualcosa di illuminante per le mie riflessioni che da giorni mi interrogavano), è stata la modalità con cui è avvenuta questa contrapposizione.

Formigli era l’anchorman e Crosetto colui che è andato via, un uomo così alto ma dallo sguardo calmo e pacifico, simile quasi a certi giganti buoni delle favole…
Brevemente riferisco i fatti. Formigli sta per dare la parola a Crosetto chiedendogli un commento sull’inchiesta che ha visto protagonista la destra italiana. La camera inquadra l’uomo ripiegato su se stesso in un atteggiamento assolutamente antitelevisivo, che pensieroso si tocca la fronte. Crosetto parla e dice di stimare il giornalismo e la politica ma che preferisce abbandonare la trasmissione, di fronte all’impostazione data alla vicenda. Dice anche che il suo commento su ciò che ha visto e sentito è umano e non tanto politico (del resto lui è uscito dalla politica attiva da alcuni anni ormai); così si alza e se ne va tornando sui suoi passi solo per aggiungere che di solito a quell’ora mette a letto i suoi figli e che non doveva accettare l’invito.

Formigli, in un primo momento, cerca di provocare la discussione, di “trattenere” il suo ospite difendendo il suo operato giornalistico, ma, vedendo l’altro avviarsi fuori dallo studio sancisce con orgoglio: “guardi io non ho mai rincorso i miei ospiti però… la sua mi sembra una posizione di debolezza…”

Ecco, debolezza.
Credo che questa sia la parola chiave, ma andiamo per ordine.

Da diverso tempo m’interrogo sul perché la sinistra italiana oggi sia così attenta a stare al potere, su come ami il potere e su come, per questo, cerchi a tutti i costi di non restare minoritaria, evitando di prendere posizioni troppo rischiose o troppo “rivoluzionarie” per mostrarsi, al contrario, come una forza sostanzialmente interessata alla gestione del potere, alla conduzione politica più che alla trasformazione profonda e reale del tessuto sociale.

Mi domando perché gli uomini e le donne che oggi si sentono, diciamo, dentro l’area di sinistra, indipendentemente dal fatto di sentirsi sufficientemente rappresentati dalla classe politica di riferimento, cerchino in ogni modo, consciamente o inconsciamente, di stare nella parte dei più forti, di quelli che riescono a sopravvivere al caos, alla povertà, alle malattie, alla solitudine. E non dei perdenti. Perché, cioè, essi tendino al realismo e non all’utopia, al sistema e non allo sviluppo autentico dell’individuo….

La sinistra italiana è, però, fatta di persone, e le persone sono ancora qualcosa che è difficile definire; potrebbe essere, quindi, molto complesso e forse impossibile analizzare queste ragioni. Eppure, dentro una società di massa come quella in cui viviamo, dove gli individui sembrano quasi scomparsi o affiorare, diciamo così, solo con le loro fenomenologie patologiche, non appare tanto improbabile poter parlare attraverso delle generalizzazioni. Del resto, nonostante il capitalismo abbia creato una società di consumatori e non di persone, alcune differenze generazionali, culturali, psicologiche e soprattutto economiche continuano a esistere e anzi, per certi versi, a essere ancora più reali.

Certo, le diseguaglianze economiche, così cresciute negli ultimi anni, sembrano essere il fattore più importante, ma un cinquantenne di sinistra ha naturalmente uno sguardo sul mondo diverso da un ottantenne o da un trentenne, e se ha studiato (e come l’ha fatto) o se ha viaggiato (e come l’ha fatto) o se ha figli o un lavoro di cui è soddisfatto, questo ha un indubbio peso sulla sua percezione delle cose.

Forse, però, se proviamo a riflettere ancora su alcuni fattori, su questa riduzione apparentemente irrimediabile che il capitalismo (globalizzato) ha operato sulla complessità umana e sociale, potremmo scorgere qualcosa che unisce questo paesaggio antropologico, oltre le differenze esistenziali.
Pasolini lo aveva visto molto lucidamente prima di morire quando notava come in Italia non ci fossero quasi più differenze tra cattolici e laici, tra borghesi e proletari, tra fascisti e comunisti. E come l’Italia fosse un paese passato troppo velocemente da uno stato di arretratezza a uno di sviluppo dettato dalla rivoluzione consumistica ovvero della seconda industrializzazione.

Cos’è che oggi mi sembra di vedere costante più di tutto nelle persone di sinistra? Lo voglio dire subito, in modo da provocare nel lettore un’immediata reazione. A me sembra che sia la paura della fragilità.
Che cosa intendo per fragilità?

Forse sarebbe meglio che a spiegarla fosse una poesia di Ungaretti o di Pavese o di Bukowsky che da anni impazza sui social, spesso citato proprio da quel mondo culturale.
O la musica di Chopin o certo jazz intimista.

Eppure, visto che ho cominciato con le televisione, voglio riprendere quell’episodio.
Non credo di volerlo fare perché la televisione è più vicina alla “realtà”, ma perché essa appare ormai come un’astrazione illuminante, un mondo chiuso che rappresenta ossessivamente la patologia in cui la vita umana si è costretta per sopportare il peso della realtà.

La frase finale pronunciata da Formigli l’ho trovata, infatti, emblematica, e anche la modalità comunicativa, il linguaggio del corpo espresso dalla situazione mi è sembrato piuttosto interessante.
Formigli è uno dei tanti giornalisti che impazzano fieri e risoluti in tv; con la loro baldante sicumera, credono di essere fondamentali, di svolgere una funzione necessaria e illuminante per l’opinione pubblica. Infatti, poco prima dell’episodio con Crosetto, egli aveva incontrato la Gruber, interrogandola sul ruolo del giornalismo contemporaneo. Insieme si erano autoincensati, definendosi con convinta “serenità” dei fondamentali arbitri e mediatori della verità.

Egli definisce la scelta di Crosetto come una “posizione di debolezza”. Usa la parola posizione che fa pensare proprio alla postura fisica: quella testa abbassata del suo interlocutore colto dall’inquadratura o forse volutamente rappresentatosi in una posizione non solo introspettiva ma addirittura depressa, sembra essere stata registrata dal suo inconscio.

C’è, infatti, più clamore o oscenità in quella posizione che in qualsiasi parola o discorso. Mentre esclama queste parole Formigli, però, appare insieme vittorioso e perdente. Il suo tono è sicuro eppure, a ben guardare, i suoi occhi sembrano provati da quell’abbandono: non tanto dispiaciuti quanto, direi, per un attimo, privati della certezza, della “serenità”.

Ora, la debolezza a cui si riferisce Formigli è probabilmente quella di chi, ritirandosi dal confronto, esprime un’incapacità a sostenere il contradditorio oppure la negazione di una accusa, di un rimprovero invece possibile…

A me interessa però non la parte conscia o razionale della questione, quanto quella inconscia, quella segreta.

M’interessa vedere, seppure mascherato e velato, quel fastidio di Formigli che risolve il suo imbarazzo accusando l’altro di debolezza.
E mi attira l’inquietudine di Crosetto che vuole stare nel mondo e se ne va… che vuole ragionare ma non riesce a sentirsi utile, a dimenticare i figli, il loro diritto ad avere un padre che li ascolta e protegge con lo sguardo.

In un giornalismo che racconta solo i fatti e non dei fatti, che non ammette né pudore né complessità, mi sembra interessante prendere questo episodio come indicativo di qualcosa d’importante o addirittura decisivo.
Bandire la fragilità, dunque il dolore, o forse la morte, non è infatti cosa da poco.

Una società, un’umanità che ha paura della fragilità umana (salvo poi usarla quando fa comodo), è un’umanità pericolosa che ha perso per strada non solo una consapevolezza importante ma la radice stessa della sua condizione. La vita, infatti, è un dono di passaggio, qualcosa che dobbiamo lasciare per forza di cose.

Potrebbe apparire esagerata, questa mia osservazione, questa deduzione che traggo da parole e posture che si sperdono con la velocità della luce nel blob mediatico, potrebbe sembrare una forzatura, quando, invece, il giornalista voleva solo esprimere la sua libertà o il suo diritto di critica, l’importanza di un dibattito…

Lascio al lettore, alla sua sensibilità, la valutazione. Per me è stato, ripeto, illuminante.

Cosa c’è, infatti, dietro il green pass? Dietro a questa incredibile virulenza mediatica che il potere sta esprimendo per legittimare una scelta politica che ha spaccato il paese, inquinando ancora di più l’atmosfera sociale di un’Italia già così corrotta dall’invidia, dall’ignoranza, dall’egoismo?

Cosa c’è dietro il comportamento di tante persone che di fronte alla paura di morire si sono convinte a restare in casa e poi ad accettare un vaccino problematico e ora a farsi schedare simbolicamente e concretamente per potersi muovere nel mondo?
Cosa c’è dietro la paura di non seguire la scienza o l’interesse collettivo, di non fare sistema di fronte a un attacco pandemico convalidando le scelte dell’occidente o dei paesi ricchi di vaccinarsi il più possibile mentre altrove il vaccino neanche arriva?

La razionalità? Il buon senso, la considerazione che il mondo è un sistema, che siamo o dobbiamo pensarci come un insieme ordinato e gestito?
O anche altro?

Com’è possibile che tanti uomini e donne mediamente informati e in grado di leggere e scrivere, di fare di conto, possano ancora credere alla comunicazione del potere mediatico e politico (ormai una sola cosa) che ha dimostrato su vari piani non solo la vanità del sistema democratico ma la pericolosità e l’inaffidabilità di un sistema tecnologico-capitalistico, dove le persone sembrano sempre più macchine che si cercano senza trovarsi? Come è possibile che la tragedia della vita, il suo mistero, la sua meravigliosa monotonia abbia lasciato il passo a un orizzonte di sopravvivenza svuotata non tanto da qualsiasi senso, ma da qualsiasi tensione se non quella di sopravvivere, uccidendo per questo l’altro ogni giorno (fisicamente e idealmente)?

Da una parte s’invoca il sistema, dall’altra si distrugge ciò che lo compone, l’individuo, la sua unicità, il suo destino, la sua mancanza. Eppure, se si leva ciò che ci manca, se si sgretola la funzione simbolica della morte, non resta forse solo una pulsione distruttiva nevrotica? Voglio dire che se non crediamo più alla morte, se non riconosciamo più la sacralità del vuoto, la nostra energia creativa non viene inghiottita da un fare che procede senza base, senza radici, senza centratura?

Le radici nella terra sono radici nel cielo; perché anche la terra si trasforma continuamente come fanno le nuvole lassù. Un dio del cielo e della terra non esiste, forse, se non come un dio della continua trasformazione, della continua ricerca…

Per questo non esiste, non può esistere, a mio parere, un vaccino per la vita.
La scienza ci ha illuso di poter modificare tutto, proteggere ogni cosa, e per questo, apparentemente, ha migliorato la condizione di tanti uomini sulla terra, ha aumentato la durata del loro passaggio, ma come facciamo a non vedere il prezzo che questo è costato? Come facciamo a non accorgerci che la nostra fragilità è un patrimonio, il nostro dna più interessante e fertile, la nostra forza?
Si può tornare indietro? Si può tornare al paradiso perduto? Si può tornare alla civiltà umanistica ora che siamo in quella tecnologica?
Oppure sarà proprio questa tecnologia a portarci verso l’uomo nuovo? L’uomo clonato capace di aiutare suo fratello a sconfiggere il male egoistico dell’uomo antico, di quello primitivo?
E quando gli uomini-macchine resteranno soli a regnare sulla terra, senza più dubbi né dolore, cosa faranno? Proveranno a spogliarsi? Per ritrovare il corpo che gli aveva dato quel potere?

La sinistra crede nella competenza di Draghi, cerca di fare affari con la Cina ma ne ha paura. Si affida agli Stati Uniti perché pensa di conoscere meglio la loro natura… prova a incantare la Russia, anzi i russi, con il silenzio.
Invece che viaggiare veramente fa finta di farlo, fa finta di salvare il mondo… fa finta di prendere la Via Appia… la via della seta, la via…
Fa finta di fare cultura, fa finta di amare, indaffarata com’è a tentare in tutti i modi di sopravvivere alla sua scissione interna, alla sua lacerazione “originale” che è quella di pensarsi progressista senza accettare il pericolo e la magia della morte.

La destra paradossalmente ha meno paura della fragilità, della devianza. Seppure usa ancora la forza, la violenza (verbale e non), seppure mette al bando gli emigrati o gli omosessuali, seppure cerca un apparato immaginario corporativo e “squadrista”, in cui gli echi del passato, le radici storiche, sembrano pulsare convintamente (anche se poi il tutto appare piuttosto patetico), la destra italiana oggi è meno ossessionata dal potere e dunque, per questo, più libera, più vitale. Più fuori dal mainstream, più underground.

Pasolini moriva in un novembre di tanti anni fa lasciando un’eredità molto pesante, non tanto intellettuale ma esistenziale. La sua morte violenta dimostrò ai comunisti e agli inquieti in cerca di un regno possibile che non c’era scampo per i diversi. Più dell’eroina, più delle stragi assurde o strategiche, Pasolini prima e poi il piccolo Alfredino Rampi hanno dimostrato all’italiano medio come a quello alto, l’impossibilità di camminare soli sulla terra senza finire male. Con quella caduta nel reale e il pessimismo che ne conseguì (di cui la tensione nostalgica e il complottismo sono facce della stessa medaglia) il comunismo perse la sua scintilla vitale, il suo orizzonte metafisico e sensuale. Il suo desiderio.

L’India e il potere non bastarono a placare l’ira della sua (nuova) cecità. Come un Ciclope trafitto cominciò a piangere. Piangeva e invocava il nome di Nessuno, cercava quel marinaio che gli aveva tolto la vista senza avere il coraggio di ringraziarlo davvero.

Senza più sguardo l’isola non c’era più. O sembrava non esserci più. Eppure quel pianto finiva da qualche parte… Anche il suono crea il mondo, in qualche modo.
Piangeva e aspettava, fino a scambiare il suo pianto per una voce “altra”… La voce di sua madre forse.

Da allora le madri hanno preso troppo potere e insieme lo hanno perso.
Da allora l’Italia governa il mondo senza governarlo…
Da allora il pensiero è diventato solo una voce e la grande culla del Mediterraneo un’anfora sporca di sangue.

Verrà l’alba del vento rosso? Verrà la guerra o la pace, il grande ritorno o la fuga perpetua? Dove distruggeremo il virus delle corone, del linguaggio, del progresso senza mondo, dove incontreremo ancora i nostri demoni paterni? Sarà forse nel tuono, nel lampo o nella pioggia? E Dante sarà infine compreso, incontrerà la sua Beatrice senza doverla uccidere nella luce perpetua?


Photo by Joseph Chan

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