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De Falco | La solitudine del denaro

Vanno, vengono, come le nuvole, come le onde, come il vento…

Riflettere sul denaro è come ingaggiare una battaglia con l’acqua.
L’acqua che vince da sempre, con noi, dato che ci sta dentro e dunque ci precede e aspetta ovunque, aldilà di ogni nostra possibile strategia.
Meglio sarebbe optare per il silenzio. Il silenzio che ci attrae, come però fa anche l’acqua. L’acqua che resta e si muove su questo pianeta. Mentre tutto si muove nell’universo.

Abbiamo così bisogno dell’acqua che sembra che l’acqua… abbia bisogno di noi. Quando la vediamo, è difficile non bagnarsi e si sa, quando ci si bagna, si ragiona poco.
Gli schizzi, le gocce ci arrivano da tutte le parti e allora ci viene l’istinto di immergerci fino in fondo (come quando tutto cominciò per noi) dentro questo elemento così semplice e complesso che pare avere anche una memoria. Oppure di ritirarci sulla terra ferma dove l’acqua non può raggiungerci; magari su quelle montagne che aspettano laggiù, altezzose e inespugnabili. Del resto, buttarsi nell’acqua o fuggire sulle montagne hanno questo in comune: la voglia di non essere sopraffatti, di pensare di vincere anche arrendendosi o ritirandosi. La voglia di illudersi.

Forse, il denaro è simile all’acqua; liquido, nero, azzurro, verde e incolore sembra non avere memoria; eppure qualcosa si nasconde in esso. Magari il mistero umano.
A volte i soldi possono finire in acqua (come in alcuni meravigliosi noir) e allora l’acqua non solo finisce nei soldi, ma li sbriciola piano piano fino a farli diventare uno strano cibo per pesci. I pesci che, come si sa, restano muti di fronte a qualsiasi cosa. Sarà per questo, che il pensare di parlare del denaro mi fa sentire un po’ come uno spione inconcludente? Che il riflettere sull’avventura di quei pesci coi soldi smaterializzati nello stomaco, mi porta a naufragare nel dolce mare dell’esistenza senza farmi poi giungere da nessuna parte che non sia un paesaggio fatto della stessa consistenza di quello da dove ero partito? La logica del denaro non è affatto difficile, eppure, forse, a ben vedere, sembra sfuggire a una reale comprensione. Sembra essere solo roba per muti, per saggi, per gente che accetta la sua natura segreta senza farsi troppe domande, senza tanto opporsi.

Alcuni pensano che i pesci non si accorgano dei limiti dell’acqua, che abbiano, cioè, una strana concezione dello spazio, riuscendo per questo a resistere a lungo anche negli acquari. E se fosse, invece, che questi poveri pesci hanno trovato solo la capacità di arrendersi a questi limiti, trovando, perfino nell’acqua di un secchio, l’infinita possibilità del movimento? La resa, infatti, (o l’illusione) è un istinto molto importante, basilare per la vita. Molto utile.

Chi potrebbe, dunque, negare che la resa ai soldi, come all’acqua, non sia fertile? Eppure… c’è resa e resa, l’adattamento al gioco è variabile. Probabilmente, se così non fosse, saremmo tutti ricchi, tutti muti come pesci!  Sta di fatto che la questione è complessa: meglio sarebbe optare per il silenzio.

Eppure, voglio parlare; nonostante questa inutilità evidente, questa innegabile difficoltà. Sperando che questa mia ribellione non mi porti a sfasciarmi la testa, a marcire anzitempo, visto il marcio che c’è dappertutto… in Danimarca; sperando di non diventare, per questo, solo un negazionista del potere del silenzio, del potere del denaro e di quello perfino dell’acqua. Insomma un no money, come già quasi sono, ridotto al mutismo dal troppo chiacchiericcio del nostro misero tempo. In fondo ai morti i soldi non servono…

Del resto, parlando seriamente, può un artista scrivere un articolo sul potere dei soldi? Anzi, (perché no?) perfino un saggio di economia?
Può farlo, cioè, chi, in un’epoca così dominata dal materialismo, dalla massificazione e dalla tecnologia, cerca (anche senza riuscirci) di declinare la sua esistenza non solo creativa su quel confine un po’ astratto e disordinato che assolve e dissolve (mischiandole continuamente) l’essere nel non essere, l’umano nel non umano, il desiderio nel sospetto? Dunque, chi non cammina solo sulla concretezza terrena? Non sto ipotizzando che gli artisti non abbiano bisogno dei soldi (anzi!) o che non siano sedotti dal loro potere; penso piuttosto all’ipotesi che un artista possa trovarsi, se focalizzato autenticamente sul suo bisogno creativo, a prendere un po’ il punto di vista del Creatore, il quale probabilmente, all’inizio del suo lavoro, non pensò tanto di creare le monete d’oro ma altre cose, forse, più interessanti…

Pare, infatti, che i soldi siano invenzione dell’uomo. E che Dio pensava invece alla libera circolazione o scambio di merci di ogni tipo…Eppure questo denaro, necessario per organizzare la vita degli uomini, nel tempo è diventato così importante da elevarsi proprio a dio dell’uomo. D’altra parte, il Creatore sapeva bene che l’uomo avrebbe avuto mille bisogni, tra tutti proprio quello di inventarsi milioni di forme che sopperissero alla mancanza del Dio originario, che, come si sa, esiste e regna… proprio in quanto non esiste e dunque probabilmente non regna.

Si parla tanto di fine del mondo. Ci sono varie ragioni per questo. La mia generazione ha vissuto sempre di più dentro questa possibilità, insieme una tentazione e la più grande paura. A volte, assurdamente, perfino una speranza…
La fine del mondo, la fine dell’uomo su questo pianeta. O forse solo l’inizio di un’altra esistenza. Saranno i soldi, il loro potere a portare l’uomo a questa nuova vita? O al contrario sarà la loro caduta a farlo, il fallimento del Dio denaro?

Eppure, può fallire un Dio? Può diventare così vano da ritornare al suo stato originario, al magma primordiale, senza dare più alcun ordine, alcuna direzione? Certo, se l’uomo è fragile, tutto ciò che crea è fragile, dunque sono fragili anche gli Dei creati dall’Uomo. È questa l’assonanza tra il dio denaro e il dio Creatore originale? Qualcuno dice che entrambi non esistono davvero, che sono un’illusione, sono qualcosa in nome del quale si aprono porte che possono anche chiudersi, in un attimo. Che, come tutte le illusioni, sono destinati alla fine a svanire…

Sarà… ma c’è una cosa che mi permette di pensare agli Dei anche quando non ci sono più.
Si tratta di una strana spinta ad andare oltre, che chiamo immaginazione e che, per esempio, mi fa domandare: dove vive l’invisibile? Dov’è il suo Olimpo? E soprattutto cosa fanno gli dei quando gli uomini li lasciano soli, anche solo per un attimo? La solitudine dell’uomo è simile a quella di Dio o a quella del denaro?
Mi sembra innegabile che se Dio è sempre più solo, se lo sono gli dei che abbiamo creato, anche noi stiamo seguendo questo stesso destino.
La solitudine inizia a regnare su questa terra, forse perché tutto è cominciato con la solitudine. Deve esserci qualcosa che non va in quella che potremmo chiamare la dimensione divina, qualcosa che tende inevitabilmente al disfacimento, all’entropia, a un caos che bussa al portone del tempo e trova solo un suono senza più voce.
La prova paradossale di questo è il fatto che, se un Dio è un Dio, lo è allora di tutti e tutto? Nel fatto che la sua funzione è proprio quella di unificare l’esistente?

C’è chi dice che il nuovo ordine mondiale non può che portare un unico uomo, un unico dio, un unico governo al potere assoluto.
È l’inevitabile deriva della globalizzazione e della tecnologia. Mi sembra una teoria molto ragionevole: è evidente che la tecnologia è diventata il nostro Dio.
La tecnologia ci conforma, ci rende tutti uguali; o quasi. Diciamo che ci dà quest’illusione. Dove il Dio Creatore ha fallito, dove hanno fallito il denaro, l’ideologia e la politica, sembra che non fallisca la tecnologia. Così possiamo osservarla ogni giorno, mentre si sforza di portare sempre di più libertà, uguaglianza e fratellanza tra tutti gli uomini.
Libertà dal lavoro, dalla fatica, dal dover viaggiare; uguaglianza di fronte a ciò che c’è di più importante ovvero la possibilità di sconfiggere la morte (vaccinarsi è gratuito, come lo è il lasciare un nostro ricordo sui social, e congelarsi o modificare i nostri organi sarà sempre più accessibile a tutti); fratellanza nel senso di riconoscere che siamo tutti sulla stessa barca, fragile e finita nonostante la nostra onnipotenza. Eppure sono queste la libertà, l’uguaglianza e la fratellanza che Marat, padre della Rivoluzione francese, sognava per noi?

I soldi sono un mezzo, hanno detto o ricordano a volte gli illuminati; certo, ma un mezzo per che cosa? Per la felicità? Per la felicità di chi? Di tutti o solo di alcuni? O solo di Uno?
Se i soldi sono un Dio, cosa vuole questo Dio? Vuole costruire possibilità infinite per tutti o per quell’Uno, somma di tutti? O vuole distruggerci? Vuole ricordarci ogni istante che ci sono dei limiti?

I soldi vanno e vengono, creano e distruggono, si mascherano e si denudano. Distruggono ogni ipocrisia, riportano l’uomo alla sua radice.
Eppure qual è questa radice e può l’uomo tornare indietro e rinascere? Chissà, magari potrebbe farlo davvero attraverso una distruzione non proprio totale, una distruzione che lasci qualcuno o qualcosa ancora in vita, in modo tale che gli uomini rimasti su questo pianeta possano ricominciare partendo quasi dalle origini; che ci sia insomma un azzeramento. Chi sopravvivrà, si troverà così a esistere come Adamo ed Eva. Certo, non si troverà nello stesso paradiso, fatto di natura incontaminata, di fiumi, mari e boschi incantati. Si troverà invece a camminare sulle macerie di una civiltà tecnologica che aveva pensato di sconfiggere ogni male; e soprattutto con dentro le macerie culturali del fallimento della vita umana sul pianeta. Potranno allora questi sopravvissuti riuscire a tutto ricordare e tutto dimenticare, come consigliava un mio maestro alla fine del Novecento?

Se l’uomo è fragile, tutto ciò che crea è fragile. È fragile la sua tecnologia, la sua filosofia, è fragile la sua speranza. Forse i politici, gli economisti, oggi, cercano di governare qualcosa che non si può governare. Io credo che questa cosa sia il grande, immenso e potentissimo bisogno dell’uomo di autodistruggersi. Un’autodistruzione che ha (o può avere) una logica, però, paradossalmente creativa. Perché dove l’uomo finisce, dove si sgretola, come fa l’acqua sugli scogli, egli comincia a pulsare, a vibrare davvero. La funzione della morte è di rigenerare la vita. Basta guardare il gioco delle stagioni.

Il marchese de Sade l’aveva visto nel ‘700, nell’epoca della rivoluzione, di quella liberté, égalité e fraternité, che l’illuminismo e la ragione sembravano desiderare davvero: egli vide con chiarezza che in quella voglia di abbandono (il vero piacere), in quel bisogno di ragionare col buco del culo (proprio o altrui poco importa), c’era il grande bisogno di annichilire la propria identità. Il marchese scopriva che l’identità è la morte dell’uomo. La sua vita invece è la pulsione, il desiderio…che necessita, per sopravvivere, di impattare costantemente col disfacimento…

Ma allora chi è quest’uomo che ha attraversato e continua ancora per un po’ ad attraversare questo pianeta? Un sadico e un masochista, figlio di un Dio minore? Un animale più crudele che, a un certo punto, si è evoluto pensando di governare su tutto? O solo la maschera di un’energia immateriale che gira come girano i soldi?

Nessuno può dire cosa sarà domani; però tutti, piccoli, grandi uomini, piccoli grandi esseri, possiamo dire di aver assaporato almeno una volta il sapore della vita.
Tutti possiamo dire di sapere cos’è la paura, la sete, l’angoscia, il brivido, la gioia.
Forse non ricorderemo i nomi delle persone che abbiamo incontrato nella nostra vita, forse non ricorderemo neanche il nostro di nome, ma prima di chiudere gli occhi per sempre ricorderemo quelle impressioni, quelle sensazioni vissute…
Ora, io mi chiedo: sono i soldi che ci hanno fatto provare quelle sensazioni?
Oppure il vento che passa?

 


Photo by Chris Curry

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