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De Giorgi | Il punto estremo

Cantava arie antiche, minuetti del diciassettesimo secolo, ma aveva anche una forte conoscenza della realtà intorno tanto da trattenere mentalmente minuscoli segmenti di vita quotidiana per ricordarli nei luoghi e nelle occasioni più improbabili. Restava al pianoforte per ore ed ore, con una lunga vestaglia grigia e delle pantofole bianche. Sul piano spesso giaceva languida una tazza da tè, che si tratteneva lì anche più giorni o mesi. Accanto allo strumento c’era il suo cane, un pastore maremmano, dai lunghi occhi con forma di fusi che anelavano al padrone e che lo seguivano nelle sue improvvisate estemporanee. Una parete a vetri era esattamente alle spalle del pianoforte. Da lì si poteva guardare il giardino che si risvegliava intontito ogni mattina, mentre il sole infallibile fiammeggiava sul prato. Suonava con una pulizia estrema e con una caparbia impressionante le Partite di Bach, ossessionato dalle sfumature impercettibili che avrebbero potuto devastare il suono. Vivisezionava ogni nota e la spogliava di vibrazioni incomplete e di echi corrotti. Esplorava così la marginalità del suono, anche nelle particelle infinitesime, inebetito e orecchie tese, pronto alla modificazione istantanea della distorsione. Voleva acchiappare il falso, concentrando tutto in melodia conforme, doppia solo a se stessa, rafforzata dalla millimetrica affondatura del tasto, incapsulare i vuoti in bombe sonore. Era il suo primo obiettivo: concentrarsi su una linea cristallina, come fosse di vapori sottili e cere pendenti, fragile e formata, minuziosa di sensi, composta da pareti vitree, incastrata tra lumi adamantini in morbida sintonia polare. La melodia veniva fuori come se fosse di materia improducibile, non partorita dalla terra, ma sottilmente chimica, una alchimia di forze impure e imbattibili, come una danza tra luci candide e sideree. Le mani scorrevano elastiche e versatili, non più di ossa, nessun attrito, nessun incrocio di nervi contrastanti. Le vene erano tanto grosse che avrebbero potuto sembrare un reticolato in sostegno al corpo e il busto era ripiegato sulla tastiera con il viso che a volte sfiorava le mani. Ma nel complesso il portamento era quasi regale, da lord o da re, e lui quasi ignorava che qualcuno lo potesse guardare, tanto da rasentare l’indifferenza o il fastidio per eventuali ascoltatori. Ogni tanto si fermava, si alzava, faceva un giro risolutore intorno al piano e riprendeva la melodia certo e sicuro, come se avesse semplicemente interrotto un discorso. Suonava moltissimo e parlava pochissimo, d’altronde quando era piccolo gli avevano diagnosticato una forma leggera di autismo, che spiegava la scarsa vita sociale e le ore intense passate al pianoforte.

     La sindrome di Asperger è un disturbo generalizzato dello sviluppo, ritenuto solitamente una forma di autismo “ad alto funzionamento”. È percepito dagli studiosi come un tipo di autismo contrassegnato da comportamenti che si ripetono, dalla difficoltà nei rapporti sociali e da un’eccessiva attenzione per specifici settori.(1)

Più o meno queste parole le aveva sentite ripetere spesso, o meglio continuamente, da dottori, amici, genitori; le aveva anche semplicemente lette sul dizionario, non soffermandosi mai troppo su di esse. Spesso pensava a quello che gli aveva detto sua madre tanti anni prima, quando aveva cercato di spiegargli perché lui non riusciva a restare a lungo con i suoi coetanei. Le parole erano state pronunciate chiare e secche: “Caro Jean, tu non sai leggere tra le righe”. E lui ci aveva pensato per giorni e giorni, aveva perfino tentato di riprodurre sul pianoforte quelle parole, con la stessa incisività e con la stessa nettezza con cui erano state pronunciate. Ma per Jean restava un mistero tutto ciò che navigava intorno a quella rivelazione e non riusciva a tradurre né con la musica né con la testa il significato di essa. Allora dall’adolescenza in poi si era fatto una ragione di quel subbuglio e aveva iniziato ad ignorare qualsiasi riferimento all’argomento.
Un giorno gli proposero di suonare per un nobile in una casa antica nella periferia di Parigi, lontana dal traffico della città e dal turbinio delle strade. Il conte Leopoldo Berthier era un uomo distinto che amava la musica. Jean era entusiasta di andare lì tanto che scelse anche di vestirsi più elegantemente del solito. Il giorno prestabilito per il concerto si recò nella casa di Berthier ed entrò trionfalmente impettito, attirando l’attenzione della piccola folla che lo aspettava. La casa aveva le fattezze di un castello, una tenuta leggermente diroccata ma imponente e severa sullo sfondo di un cielo grigio e nuvoloso, la cui compattezza era interrotta da rami snelli e neri. La porta principale dava accesso immediato alla sala principale, che aveva un altissimo soffitto e al centro c’era un lampadario di cristallo di Boemia che imponeva di essere ammirato prima di ogni altro oggetto. Avanzò lentamente e salutando cortesemente il padrone di casa, uomo dalla barba scura e dagli occhi appuntiti. Salutò con un cenno distratto il pubblico composto da parenti e amici del nobile e si diresse verso il pianoforte a coda, immenso delfino nero con denti di avorio, apprestandosi ad addomesticarlo.

Si concentrò sulla tastiera e sentì la dentiera del delfino venirgli addosso, incitandolo a difendersi attraverso un uso saggio delle mani. Doveva acquietare l’animale con il ritmo, premendo con le dita gli aspri rettangoli neri e bianchi. Ogni volta che si sedeva al piano gli sembrava di dover decifrare un rebus sonoro e di subentrare solo dopo alcuni minuti in un gioco primordiale tra uomo e animale. Aveva la ferma intenzione di stemperare la rigidità della bestia musicale.

Si sedette di fronte allo strumento tra soffi di voci e mormorii di approvazione. Gli sembrava di udire i fruscii dei fili d’erba che si accavallano e il fischio del vento attraversare violentemente l’aria. Guardò nuovamente il pianoforte, dopo alzò lo sguardo e vide un orologio a pendolo dorato, con rifiniture d’oro e nere. Percepito immediatamente il ticchettio dell’orologio, capì che era un 2/4 e che sul battere il pendolo oscillava esattamente su uno dei due lati del vetro. Pensò al tempo binario, a due accenti, al numero due in sé e alla presenza simultanea di una parte forte e di una parte debole. Sentì nel suo corpo la suddivisione e la assimilò come se avesse ingoiato il pendolo. Iniziò a suonare. Pensò al tre, volle procedere per espansione e sovrapposizione ed incastrò sul tempo del pendolo un ¾, una misura ternaria. Anticamente la misura a tre tempi era considerata la misura perfetta per la sua analogia con la Trinità e veniva rappresentata graficamente con un cerchio, era il tempus perfectum. Lo sapeva bene Jean. Continuò suonando un pezzo che si reggeva su una sovrapposizione di un tempo ternario su un tempo binario, consapevole di essere così arrivato al cerchio, a quello stesso cerchio che faceva fisicamente parte del pendolo. Dunque dal cerchio al cerchio, era facile.
Coloro che sono affetti dalla sindrome di Asperger prediligono argomenti legati alla logica e ai sistemi, come la matematica. In alcuni casi, se hanno interessi che possono essere utili e apprezzati socialmente, è possibile che abbiano una vita di successo. Al fine di sviluppare nel migliore dei modi tali attitudini, spesso le persone con Asperger ragionano in modo assai elaborato, sviluppando un approccio ossessivo alla disciplina.

Jean ora suonava, attentissimo al nitore del suono, alle immagini che venivano fuori dall’armonia complessiva, teso a disegnare un pendolo in tutti i suoi dettagli con note appuntite e fini, precise e nette, a riprodurre le rifiniture e a colorarle di nero e d’oro. I suoni si agglomeravano e si comprimevano, come poteva avvenire nell’assemblaggio dei pezzi di un oggetto da parte di un artigiano meticoloso o semplicemente come nel mistero degli atomi che formano la materia, senza alcun intervallo rilevante, se non quello determinato dal confine della forma stessa con il nulla, con l’aria. Jean sentiva le note risalire dal centro del suo ventre e trovare un baricentro all’altezza dei tasti, dava loro poi un ordine, una sistemazione, un posto nell’universo, non le lasciava mai sfumare irrisolte. Mai le disperdeva come si disperdono gli effluvi primaverili o il fumo grigio d’un comignolo, le tratteneva e le comprimeva nella memoria, non permetteva l’annullamento. Agiva sempre come se avesse voluto ridimensionare a tutti i costi il naturale annullamento di materia “gassosa-musicale”, trascinando i segmenti sonori in magnifiche e fasulle opere d’arte immaginative. Oggetti, quadri, piante erano le sue riproduzioni preferite. Le note disegnavano con attenzione i dettagli, gli orpelli, l’inessenzialità della materia, quasi a volerne estirpare l’aspetto irriproducibile e autenticare il surplus. Le mani erano voraci e prensili, come di lattice, morbide e flessuose, ma avevano anche una certa risolutezza che non concedeva alcun logorio inutile o sporcizia vana.
Jean quella sera conobbe una donna, la quale si avvicinò al termine del concerto, quando il pubblico già frusciava di ammirazione e applaudiva estasiato. Fu Lilian a rivolgergli la parola. Bianca ed esile, apparve nella sua immagine carica di luce, pesante di oro in accumulo sul collo. Jean pensò che potesse essere trascinata giù al centro della terra dal peso spropositato della collana aurea ancor prima di aprire bocca. Invece il corpo resse e ne uscì una voce graffiante: “Buonasera. La sua musica è sublime. Mi ha ricordato i campi della Bretagna, nei quali ho trascorso la mia infanzia”.
Jean la guardò per qualche secondo, cercando di mettere a fuoco il volto femminile di un’austerità che copriva ogni possibile smorfia di dolcezza, e le rispose: “Buonasera. La Bretagna è un gran bel posto. Non credo che ci andrò mai. Ma avrebbe un quadro, o un’immagine di questi campi?”. E la donna: “Certo. Ho molti dipinti. Potrei invitarla nella mia casa per mostrarglieli, sarei onorata se le andasse di suonare”.

Jean accettò sospeso ancora nell’immagine del pendolo, non troppo cosciente di sé e la donna gli diede un appuntamento per il giorno dopo. Aveva avuto una percezione di familiarità, di unione, aveva pensato al volto niveo femminile come ad uno specchio ovale sonoro, privo però di riflesso, con una grande capacità di accogliere la luce e di trattenerla.

Aveva udito nella voce della donna il rumore di un vetro che si infrange sul pavimento e adesso echeggiava nella sua testa una melodia che proveniva da cristalli ambrati spinti dal vento, i quali si erano incontrati sotto la testa di un grande lampadario a cascata. Note così alte erano state emesse solo da sua madre e le aveva udite solo da lei. Ora ritrovava lo stridere delle porte antiche di ferro nella donna sconosciuta, come anche il canto della civetta e assieme a questo il fruscio del bosco, alto e sibilante. Tutti elementi distintivi della casa di campagna in cui era cresciuto.
Il giorno dopo Lilian lo accolse con un grande sorriso nella sua casa ma lui non disse una parola. Si sedette immediatamente al pianoforte. Aveva in testa la voce della donna e quella della madre. Il pubblico discreto nel numero attendeva la sua esecuzione. L’aria fremeva di vibrazioni in embrione. Jean appoggiò un dito su un tasto dell’ultima ottava del pianoforte. Ne uscì una flebile nota acuta. Continuò ininterrottamente a toccare il tasto con una pressione moderata, producendo un sottile e sommesso suono intervallato da piccole pause. Questa volta la lotta con il pianoforte era anche la lotta con la donna. Trovò la melodia. Continuò a suonare incalzando sui tasti delle ultime due ottave, disegnando un’impalcatura sottile ed eliminando qualsiasi accenno roboante e cavernoso delle prime ottave. Dall’impalcatura sgorgò una serie di frasi musicali veloci e galoppanti, leggere e fluttuanti. In quel momento sentì l’essenza della donna che lo guardava tra il pubblico estasiata. Un’essenza apparentemente morbida, sinuosa, complessa, reggentesi su note acute e taglienti come armi, tanto alte quanto grottesche. La musica gli provocava visioni di monti oscillanti di vetro composti da pezzi prodotti per gemmazione, che proliferavano alla velocità della luce per diventare verso l’alto neri e rossi.
Pensò che sarebbe bastato sottrarre una nota, una sola nota per far cadere il monte di cristallo. Ebbe un sussulto. Non smise però di suonare. Percepì che era possibile con un solo errore smontare un’opera complessa e continuò fino alla fine, finché l’altura non si assestò bene nella sua immaginazione. Poi finì. Una valanga di applausi lo coprì. La donna si alzò e si complimentò con lui. Jean annuì senza proferire parola e riconobbe in Lilian i tratti della madre. Pensò che fosse proprio sua madre. La guardò a lungo, evitando di raccogliere la naturale austerità del volto come un’offesa. Un’offesa a lui ben nota, che aveva conosciuto in passato e che era entrata silenziosamente nella sua vita, nascondendosi tra le note acute. Aveva sollecitato finalmente una visione a lui familiare, riposta tra le piaghe della memoria, che non si era mai rivelata prima di quel momento. L’ombra materna tornava a far presente la finitudine dell’immaginazione, l’impossibilità della costruzione chimerica connessa alle melodie. Contemplò per qualche secondo l’eventualità di non mandare via immediatamente il ricordo, di trattenerlo per qualche secondo nella mente, così come si fa con un’idea perfetta. E così avvenne.
Dopo qualche secondo Jean salutò Lilian e andò via, appesantito da una fittizia percezione di irreversibilità. Aveva raggiunto un punto estremo, superato il quale la discesa è terribilmente ripida e al tempo stesso faticosa, ma è pur sempre una discesa. Fu inondato da una nuova sensazione di leggerezza. Si ripromise di non sollecitare più quella visione. Almeno per qualche tempo.

 


(1) Riprendo la definizione di “Sindrome di Asperger” anche dall’enciclopedia on line “Treccani” e dal sito web dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss).

Photo by ian dooley

 

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