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Diodato | Sul caso Fritzl

Non mi è possibile avvicinarmi al caso Fritzl. Non credevo in questa impossibilità quando ho accolto l’invito a scrivere su di lui. Mi pare un evento insondabile. Incute timore e rispetto per l’abisso. Quindi come tale devo metterlo da parte. Mi allontanerò scrivendo , in modo rapsodico e per il tramite di altre scritture, qualcosa sulle parole che compaiono nel testo presentazione in Monolith: male, perdono, espiazione ecc. aggiungerò soltanto la parola amore. Goethe, Werther: «Noi siamo i nostri demoni, noi ci espelliamo dal nostro paradiso». Non si tratta soltanto, io credo, di un “demone del linguaggio” (Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi 1979, 70-71), ma di un demone al tempo stesso anteriore e interiore (biblicamente: il Nahas). Demone insinuato e incarnato nel corpo-mente umano all’origine, pretende che l’uomo non sia a immagine di Dio ma sia come Dio, sia principio della vita. Impadronirsi dell’albero della vita è tradimento dell’essere immagine-di Dio, che implica l’abitare una distanza nell’indirizzo, e nella speranza, della possibilità di un’unione che mantenga in sé la differenza. Il demone vuole invece l’identità, l’immagine mimetica perfetta, la simulazione definitiva che implica il controllo della morte, della possibilità di andare nel nulla. È la negazione del simbolico, e quindi dell’amore come ricerca della metà perduta: il demone tenta il raddoppio, stringe insieme il maschile e il femminile (sotterra il femminile in se stesso, lo chiude nella sua casa), si duplica internamente per avere quella completezza che è potenza di sfidare il divino. Comprendere e costringere in sé l’altro da sé amato è infatti manifestazione di potenza per il terrore dell’impotenza, negazione della possibilità stessa della perdita e quindi della ricerca. Il controllo dell’albero della vita si configura quale dominio dell’amore eterno, amore che non fugge, che riceve in dono la vita stessa da ciò da cui dipende, dal Padre.

Quindi ci “espelliamo dal nostro paradiso” perché non lo comprendiamo, perché mangiando dell’albero proibito vogliamo portare a controllo della nostra conoscenza ciò che più desideriamo.

Questo potere è l’annullamento del tempo, del fuggire di ciò che amiamo, di ciò che vogliamo trattenere: il figlio deve rimanere presso il padre, per sempre. Ma il paradiso è invece contingente, effimero, sempre gratuito, come dire che l’amore è senza causa, senza ragione, incontrollabile, dono del Padre al figlio che ritorna. Voler essere come Dio senza comprenderlo è annullare la sofferenza, e quindi la possibilità del paradiso. L’incomprensione del divino è radicale: colto nell’ottica di un’onnipotenza che annulla il tempo, la libertà, il dolore, giunge ad annullare l’amore.

Lo prendo in custodia – lo amo. Lo prendo in custodia perché lo amo. L’onnipotenza come costrizione e non come libertà (essere immagine-di Dio vuol dire essere liberi) stilizza il tempo, lo fa essere come presente assoluto, come ora eterno. Infatti controllare la possibilità di andare nel nulla significa cancellare il tempo, che altro non è che il precipitare nel nulla delle cose, dei pensieri, di tutto ciò che è. Vuol dire non accettare il divenire, il cambiamento, la differenza, la nascita e la morte. Assicurazione di non tradimento, assimilazione, estrema gelosia: io sono il tuo dio, ma solo Dio è amore che non tradisce, proprio in quanto è libertà. Si tratta allora della conquista effimera di un’eternità provvisoria, di un’irrisolta eternità quotidiana e, in quanto segregata, segreta. La verità è celata, è qualcosa che mi appartiene, qualcosa di cui io, solo io, ho conoscenza. Si delinea così, per negazione, la struttura ontologica della libertà e la sua relazione col plesso nulla-male-necessità: la libertà emerge come scelta nella opposizione al negativo, opposizione a una necessità che schiaccia e che attrae, al dominio pervasivo di quel positivo-negativo che è il dominio dell’alterità, la sua agghiacciante fissazione eterna.

È insomma il male, il quale di per sé non ha alcun senso, ma che qui compare nella sua maschera demonica di conservazione, protezione della vita, garanzia della persistenza di un oggetto d’amore che non si consuma, che non sfugge.

Dunque libertà è, per contrario, possibile decisione per Dio “nonostante”, nonostante l’apparire del non-senso, nonostante il ritrarsi del Padre. Non si comprende che il ritrarsi del Padre è in realtà denso di senso, perché inciso dal dolore per la morte del Figlio, morte che è il darsi mondano, nell’economia della salvezza, della kenosi divina, di quel dono originario che costituisce in radice la struttura del Dio trinitario, l’autoriginarsi stesso del divino, il dinamismo che il divino è. Il Figlio a sua volta, nella propria sofferenza per il ritrarsi del Padre, è simbolo della libertà propriamente umana: decisione “nonostante” il tragico del dramma per un senso possibile. Ma il figlio, nella nostra vicenda, viene sbarrato. Almeno fino a un certo punto…

Il perdono è sempre e soltanto personale, non si può perdonare per altri. Anche Dio: come potrebbe perdonare il dolore di altri? Solo chi è vittima può perdonare e solo per sé. E io, il terzo, posso non accettare che il carnefice risulti perdonato anche se è la vittima stessa a perdonarlo. Il perdono è una relazione singolare tra due, ma in cosa consiste?

Cosa accade quando dico: ti perdono? Non viene rimesso nulla, se non a fronte di un desiderio di espiazione. Ma questo desiderio che origine ha? Siamo a una fragilità che è condizione di possibilità del male ma anche di ciò, assolutamente sconosciuto, che sta oltre il male.

[Mi pare, per tornare soltanto per un attimo alla vicenda di Josef Fritzl, che il punto più misterioso sia l’accompagnamento della figlia/nipote all’ospedale: per evitare che morisse ha rinunciato a essere il dio, il padre; ha forse compreso per un attimo l’impossibilità di esserlo: la possibilità della morte ha rivendicato il suo potere, ha sconfitto la sua hybris, lo ha reso di nuovo umano. Con quel gesto Fritzl rinuncia al sogno dell’unione totale: «Definizione di unione totale: è l’ “unico e semplice piacere”, “la gioia senza neo e senza mescolanza, la perfezione dei sogni, il fine ultimo di ogni speranza”, “la magnificenza divina”, essa è: il riposo indiviso. O anche: l’appagamento della possessione», così Roland Barthes (Frammenti di un discorso amoroso, 203) attraverso Aristotele, Ibn Hazm, Novalis]. [Sembra quasi che il limite del demone sia la pietà: se per un attimo c’è pietà, almeno in quell’attimo il demone deve allontanarsi e il tempo riprende respiro. Pietas traduce eusebeia: da sebomai, ritrarsi, arretrare con timore; è un doppio legame: posso arretrare perché di fronte al sacro il demone che sono arretra, ma è perché arretro che il sacro può manifestarsi. In questo impossibile movimento accade il rispetto, e viene in qualche misura bilanciata la violenza].

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