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Ernesti | Una nuova ultima storia

Dodici anni. E il primo pensiero è averli ancora a disposizione per una nuova e ultima storia, ancora vaga, volutamente vaga, come se non volessi pianificare il tempo. È un’intenzione che può apparire paradossale per un urbanista, un pianificatore territoriale. Il fatto è che questa pretesa della previsione e della sua retorica (esortativa, persuasiva, finalistica, dimostrativa) non fa parte di me. Non lascia spazio all’inatteso.
Così inizio a pensare ai miei dodici anni, a quella dolorosa sfasatura fra corpo e mente, tra l’eruzione del corpo oltre ogni riguardo e l’accelerazione con cui la mente si avvicina a prendere possesso del mondo e delle sue relazioni. Era il 1961 e dal mondo incantato, aperto all’esplorazione delle prime passioni creative, transitavo alla durezza di una consapevole operazione di selezione che la scuola media di allora scientemente conduceva.
Il sottile incrinarsi del sorriso, della fiducia in se stessi, lo smarrimento improvviso dello stupore nel sentire i discorsi e le dispute fra i genitori, sono momenti che rivivo nella memoria come quei nomi e quelle sigle che andavano imponendosi nella quotidianità come Fanfani, Nenni, Lombardi, Malagodi, Mattei, ENI, IRI, e poi il quotidiano “Il Giorno” che leggeva mio fratello con i fumetti di Jacovitti e gli articoli di Arbasino, Pasolini, Cassola, Soldati e ancora, le canzoni di Gino Paoli, il jazz, un po’ di Tristano e Isotta da un vecchio 78 giri…

Tutto si accumulava e si depositava in quella mente di dodicenne che urgentemente aveva bisogno di una personalità.

La consapevolezza di una grande fatica, questo si impone oltre al ricordo di via Ripamonti, dove abitavo, poco oltre la fine del cavalcavia. Di quel balcone della camera dei miei genitori, dal quale vedevo in lontananza il campo di calcio della “Forza e coraggio” e sull’altro lato, gettando lo sguardo oltre la strada, un grande prato con piccole fabbriche dove talvolta pascolavano le pecore e in estate compariva il tendone del circo, con il suo chiasso e gli animali che, liberi, giravano nel verde. Ho disegnato e acquarellato per almeno tre anni la crescita disordinata di un frammento di città, di periferia, il ridursi veloce di quella vista, con la fine del campo e delle partite, con la fine del prato e del circo dove al loro posto hanno costruito un edificio industriale.
Oltre al guardare dall’altezza di casa, ho vagato fra periferia e centro, attraversando spazi diversi: dalle vecchie corti a ballatoio alle case di Caccia Dominioni, Ponti e De Finetti, BBPR e Gardella fino alla Torre Velasca dove mio padre aveva il suo ufficio e io mi appropriavo del ciclostile per riprodurre le orchestrine jazz che disegnavo.
Dalle circonvallazioni alle strade del centro dunque, osservando il tempo passato e un presente che sfioravo in tutto il suo volume ma che ancora non capivo.

Avrei compreso anni dopo che tutti quegli spazi che si riempivano, quel costruire denso, disordinato e sproporzionato, esprimevano un preciso ruolo del settore edilizio, di volano della ripresa economica, di contenimento della disoccupazione, di risposta ad un acuto bisogno di benessere, di mobilità sociale, di affermazione di uno status, di proprietà. Che quel settore, molto differenziato al suo interno, era il perno di un blocco sociale eterogeneo che avrebbe frustrato qualsiasi progetto di controllo, disciplinamento dello sviluppo urbano, del rapporto città /campagna, di conservazione o trasformazione razionale dei tessuti storci delle città, dei paesaggi, delle risorse e bellezze naturali, degli assetti idrogeologici.
Era il modello della “mobilitazione individualista”, che occorreva per alimentare un mercato interno; mantenere dunque in vita sacche di rendita (dall’edilizia al piccolo commercio, alla piccola impresa, all’agricoltura) mentre si riassestava la grande industria, la produzione per i mercati esteri di beni di consumo, mentre si ponevano cioè le basi per lo sviluppo del neocapitalismo o capitalismo dei monopoli, vagamente democratico, manageriale, tecnocratico, capace di influenzare desideri, stili di vita, valori della società di massa che quello stesso capitalismo formava.
Perché in quel pacchetto di anni (1961/1963) si tentava di pianificare lo sviluppo produttivo e la distribuzione della ricchezza per non aggravare gli squilibri tra nord e sud, tra aree sviluppate e non, tra città e campagna, tra industria e agricoltura, tra settori produttivi forti e deboli. Si tentava di dare una direzione politica della produzione adeguata alle esigenze della collettività. Un tentativo da parte dello stato di orientare i propri investimenti e quelli privati secondo priorità compensatrici di quegli squilibri.
Mi riferisco quindi alla programmazione economica a cui veniva strettamente connessa la necessità di una pianificazione urbanistica e territoriale. Più in generale, del tempo in cui si chiudeva il centrismo del governo Tambroni e con il monocolore di Fanfani iniziava la svolta della DC e l’apertura a sinistra verso il PSI sostenuta dal PRI di La Malfa. Sono gli anni della riforma della scuola media, unificata e obbligatoria fino a 14 anni; della nazionalizzazione dell’industria elettrica; dell’imposta diretta sui redditi azionari.

Così, mentre io camminavo in una inconsapevole flânerie, tra le mie vie e le strade si tentava di sciogliere il nodo stretto negli anni ’50.

Detto con colpevole sintesi, era il problema delle aree fabbricabili, ovvero delle politiche e degli strumenti (anche i piani regolatori) per limitarne il prezzo, indirizzarne l’uso per fini di pubblica utilità, limitarne l’accaparramento, recuperarne in parte gli incrementi di valore prodotti dalla collettività. Era il punto centrale che il governo urbano e urbanistico si proponeva di risolvere procedendo lungo due assi. Il primo: l’imposizione fiscale, la riduzione dei prezzi, la maggiore immissione delle aree sul mercato. Il secondo: il vincolo pluriennale su vaste porzioni di suolo urbano, le pratiche agevolate di espropriazione, i comuni finalmente in grado di pianificare secondo gli interessi della collettività. Detto altrimenti, il controllo pubblico del mercato delle aree fabbricabili era l’architrave di un progetto che voleva garantire programmazione, coordinamento degli interventi nel tempo e nello spazio, eliminare diseconomie e squilibri prodotti da un non controllato sviluppo delle aree urbane.
La legge 167 per l’edilizia popolare tentò di sperimentare settorialmente l’impianto. Il progetto Sullo tenta di estendere la portata all’ intera gamma delle possibilità dell’edificazione attraverso la concatenazione di diversi tipi di piano e scala di azione, tracciando le coordinate per un futuro sviluppo equilibrato del territorio e delle città in funzione dei contenuti e degli obiettivi della programmazione.

L’ urbanistica dunque come braccio fondamentale della programmazione per guidare il capitalismo italiano, facendo leva sulla sua componente più avanzata e risolvendo gli storici problemi di disequilibrio del paese.
La posta in gioco era una alleanza fra neocapitalismo e riformismo attraverso l’eliminazione della rendita, del suo blocco sociale, sottovalutando l’intreccio fra settori avanzati e arretrati del nostro capitalismo. In particolare a scatenare la rabbiosa reazione del blocco fu il principio del diritto di superficie, troppo distante dai desideri delle famiglie, di vasti strati della società, della loro voglia di “proprietà “, certamente impreparati ad acquistare solo un diritto temporaneo. Come è noto, la programmazione non verrà mai utilizzata, la riforma urbanistica non verrà mai approvata, il riformismo verrà sconfitto anche con il ricatto di un possibile colpo di stato (il piano Solo) e svanì anche la possibilità per l’urbanistica di ottenere una riconoscibile legittimazione come sapere socialmente utile.
Ripenso oggi a quegli anni di trasformazione dove io ero lì senza capire, cercando di orientarmi, nutrendomi già di case, spazi, architetture, soprattutto di città.
Ero lì con solo quel tipico segreto adolescenziale che spesso guida oltre il disorientamento. Un riconoscimento impulsivo dell’ingiustizia e che forse è ancora oggi l’oggetto propulsivo che mi porta a studiare il 1961 e quello che gli gravita attorno.

 

 

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