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Grasso | Un ponte tibetano

C’è qualcosa, quando pensiamo alla lingua, che richiama in noi, immediatamente, in modo ancestrale, l’idea di caverna, di utero buio. Un luogo-non-luogo dove è avvenuto il principio, dove il logos ha preso forma, nelle sue dimensioni ontologica, logica e linguistica, indissolubilmente intrecciate. Saranno stati l’intuizione dei presocratici prima e il mito della caverna di Platone poi, ad averci ispirato questa sensazione; sarà stato aver visitato le grotte ed aver perso e ritrovato le tracce di noi, di una voce, che rimbombava tra le pareti. Sarà probabilmente il ricordo di quella vita che precede il parto, in un ambiente liquido e caldo, che è ritmo del cuore e sentore di parole che avvengono oltre, chissà dove.
Avviene così il primo incontro con la vita delle parole. In uno spazio che ci precede, dove ci aspettavano già con il loro portato, con la loro struttura del mondo, a parlarci di cose già viste da altri. Sapir e Whorf studiarono a lungo il rapporto che lega una lingua e il suo lessico al tessuto esperienziale di chi li usa, indagando anche le complesse interazioni tra il pensiero e la lingua, le eventuali modifiche che un idioma può apportare alle strutture cognitive dei suoi parlanti. I popoli dell’ Artide hanno numerosi lessemi per indicare il ghiaccio, è un esempio classico. I termini siciliani ormai desueti, che sentivo pronunciare dai miei quando ero bambina, mi fanno ancora accedere ad un mondo che ho visto, che ricordo, ma che non c’è più. Innescano un cortocircuito potente, in absentia. Le parole abruzzesi che mio padre pronunciava con tenerezza, quando ogni mattina ci svegliava con un bacio e un “Buongiorno, vagliù”, mi riportano ad un luogo dove non sono mai stata ma dove sarà custodito per sempre l’amore tra i miei genitori, siciliani emigrati in Abruzzo.
E’ quella sensazione di cui parla Natalia Ginzburg all’inizio del suo Lessico familiare, quando si riferisce proprio all’immagine di una grotta buia nella quale immagina di ritrovarsi con i suoi quattro fratelli, i quali, non potendosi vedere, si riconoscono dai loro “messaggi in codice”, dalle parole della loro infanzia comune. La Ginzburg ricostruisce attraverso i modi di dire, i refrain familiari, gli idioletti una storia privata che si mostra indissolubilmente legata ad una dimensione pubblica, innestata com’era nella storia della società nei difficili anni del fascismo, della seconda guerra mondiale e del dopoguerra. E’ il filo rosso della lingua e del potere evocativo delle parole, attraverso epiteti, motteggi, frasi idiomatiche e slang di gruppi familiari, che introduce persone ed eventi, tanto quelli della sfera privata, insignificanti per gli altri, quanto quelli attinenti alla Grande Storia, che si intreccia prepotentemente con la dimensione familiare e personale.

Senza alcuna distinzione tra alto e basso, pubblico e privato, quotidiano e magniloquente, in Lessico familiare la realtà prende forma ai nostri occhi sempre e solo attraverso le parole, il loro gioco bizzarro e sfacciato, l’energia creatrice che le rende collante in grado di annullare le distanze e rito che si ripete.

Il carattere rituale delle parole legate all’affetto è stato al centro di riflessioni di antropologi e di scrittori. Alla fine dell’Ottocento, un romanzo così prepotentemente innovativo dal punto di vista dell’uso della lingua come I Malavoglia tesse l’ordito di una comunità, dei suoi stigmi e dei suoi tabù, della sua percezione degli eventi, proprio attraverso l’uso delle parole da parte della comunità stessa (assurta a singolare voce narrante). Un uso spesso spregiudicato, sferzante, spietato, di un codice che sa anche farsi, a tratti, tenero, intimo e viscerale. Nei proverbi e nei modi di dire che scandiscono la narrazione nei Malavoglia, inoltre, è racchiusa tutta la sapienza cinica e disillusa dei pescatori siciliani, ultimi come tanti ultimi della storia: un patrimonio che si tramanda alle generazioni e che si coagula in formule brevi, perentorie, senza replica e, spesso, senza speranza.
Un secolo dopo Clarissa Pinkola Estés, in Donne che corrono coi lupi, riallaccia i fili dell’immaginario e della sapienza delle donne attraverso i topoi e le formule che le madri tramandavano alle figlie, medaglioni di una coperta cucita da ogni generazione, retablos (nella tradizione ispanica, come in quella siciliana dei cantastorie e dei carretti) che dall’oralità sono passati al segno grafico e alla scrittura, all’insegna del potere conoscitivo e affabulatorio della parola.
Il valore affettivo della lingua – tanto nel suo aspetto luminoso, quanto in quello oscuro, dell’attrito, dello scontro, del corpo a corpo – si sprigiona con forza a prescindere dal codice utiizzato. Quello che diciamo della lingua verbale vale per altri codici, altrettanto potenti benché a lungo misconosciuti, quando non addirittura proibiti. Mi riferisco alle lingue dei segni, utilizzate dalle comunità dei sordi in tutto il mondo e a lungo sottovalutate, stigmatizzate da una distorta interpretazione dell’ ”effatà” evangelico. Da bambina osservavo a lungo due sorelle, mie compagne di giochi, che segnavano tra loro e ridevano all’unisono. In quel caso ero io la diversa, l’esclusa. Capivo come si sentivano loro in un ambiente di parlanti. Da adulta ho voluto imparare quella lingua e ho scoperto un mondo che continua ad affascinarmi.
Nel suo romanzo La straniera, uscito nel 2019, Claudia Durastanti, figlia udente di genitori sordi, descrive questo sentirsi stranieri e a casa in ogni luogo: la lingua (italiano, inglese, lingua dei segni…) è sempre un’erma bifronte, un mezzo e un muro, accomuna e distingue, avvicina e isola. La sua ambiguità intrinseca permette di raccontare e di “raccontarsela”, aderire alla verità o mentire, a se stessi prima che agli altri. I genitori di Claudia raccontano, ognuno per proprio conto, di avere incontrato per la prima volta l’altro mentre questi cercava di suicidarsi, e di averlo dissuaso dal farlo. Non è noto cosa sia avvenuto realmente durante quel primo fatidico incontro, ma di certo l’amore ha salvato loro la vita.
Ecco, le parole funzionano così, come pietre, talvolta, ma anche come ponti. Non proprio una struttura robusta, invalicabile. Piuttosto un ponte tibetano, sospeso nel vuoto, da percorrere lentamente, accarezzando la stessa vertigine, soppesando il nostro essere fragili. Per arrivare a sfiorare e, qualche volta, a incontrare chi è altro da noi, a toccare chi è a noi così caro.



Photo by Erik Mclean

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