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Guarini | Anime randagie

I

Maurizio è una persona gentile.
“Sai già sgrossare le vigne?”, gli ho chiesto.
“Ho imparato in comunità di recupero”, mi ha risposto.
Quindi gli ho solo spiegato velocemente le regole d’ingaggio dell’azienda presso la quale lavoriamo entrambi e ci siamo messi all’opera. Io da una parte e lui dall’altra del vigneto.
Alle due meno dieci mi fa: “Io vado, devo andare a mangiare”. E se ne va.
Il giorno dopo arriva, come un fantasma, in mezzo ai filari avvolti dalla foschia dell’alba e si mette a lavorare, da solo.
Zac – zac – zac.
Lo sento e basta, immersi come siamo nel latte della nebbia della pianura padana.
Il lavoro non è duro, basta prenderci la mano. Comunque diversissimo da ciò che ti spiegano su libri e manuali.
Le viti dopo la bella stagione sono un intrico di robuste funi di legno che si abbarbicano ai fili zincati delle spalliere. Poche foglie giallomarroni sono rimaste attaccate ai tralci fulvi che piovono da tutte le parti, come cime di velieri fantasma alla deriva. Bisogna educare quell’intrico selvatico e muscoloso nel suo avvilupparsi, affinché le piante, una volta tornata la bella stagione, pensino a produrre aspra e zuccherosa uva, invece di continuare a crescere e crescere.
Bisogna lasciare tre o quattro tralci buoni. Scelgo i più vicini al ceppo, li isolo dal resto del groviglio mozzando di netto con le robuste forbici il “capo a frutto” dal quale i tralci scaturiscono.
Zac.
Poi si può pensare a demolire tutte quelle vigorose spire che tentano invano di strangolare a morte il filo metallico.
Zac – zac – zac – zac – zac.
Stando molto attenti a non rovinare le forbici mordendo il filo.
Zac – zac – zac.
Infine bisogna rimuovere tutto ciò che si è tagliato, strappando con forza, spezzando la resistenza degli ultimi viticci rimasti tenacemente aggrappati ai cavi superiori della spalliera. Bisogna stare molto attenti. Tralci e viticci non cedono senza combattere. Se si perde la pazienza e si strattona senza troppo calcolo, il viticcio decide di spezzarsi in un momento esatto, determinato scientemente da un ipotetico ingegnere balistico. Il tralcio liberato di colpo sibilerà nell’aria come un obice e precipiterà sulla faccia dello sgrossatore frettoloso. Una scudisciata che può lasciare segni. Arrossamenti lineari sul viso, o capillari esplosi in un occhio, che regalano sguardi di orrore e pietà frammista, da parte di altre persone ignare, quando si va al supermercato a fare la spesa. Quando si scatenano i tralci tagliati dalla spalliera si sente come un trillo di campanelle prodotto dai fili e dai paletti di ferro che compongono la struttura, suonati come un enorme e sperimentale strumento a corda da queste lunghe dita vegetali.

Il groviglio ipertrofico non c’è più. Sono rimasti solo quei tre-quattro tralci buoni. La vite ora è nuda. Stremata. Supplice. Ma capace di fare gli interessi di chi ha deciso di piantarla.

I trilli lontani prodotti da Maurizio smettono di rispondere ai miei, e dopo poco sento dei passi nell’erba resa croccante dal freddo.
Emerge dalla nebbia a lunghi passi. Sta finendo di rullare una sigaretta, la mette nella bocca sdentata e l’accende. Fa una boccata, il fumo che conseguentemente emette si mischia alla densa foschia.
Come se stesse continuando il discorso del giorno prima dice: “Adesso fumo soltanto, solo sigarette. Te fumi?”.
“No, ho smesso.”
“Bravo.” E mi sorride.
Maurizio non ha nemmeno dieci anni più di me. Ha gli occhi grandi di chi ha visto l’inferno, ma non lo racconterà mai, per gentilezza.
È stato tanti anni lontano da casa, in esilio, a raccogliere i cocci rimasti dalla tragedia della sua esistenza.
Avrà ripercorso la sua strada tante volte, mentalmente, con dolore.
Ora è tornato. Ha una compagna ed è felice.
Si è perdonato.

 

II

Brambilla non è originario di questa città, come non lo sono neanche io.
Lui però viene dalla parte opposta rispetto alla mia. Ed è venuto qui tanti anni fa. Di notte. Durante una forte nevicata. A cavallo di un motorino, di quelli che andavano con la miscela.
Scappava.
Dio sa da cosa, ma non è difficile da immaginare.
Ho conosciuto Brambilla all’inizio dell’estate, nel parco. Lui è stato mandato lì dai servizi sociali per finire di scontare una condanna giudiziaria. Mi ha stretto la mano e ha buttato il mozzicone della sigaretta che stava fumando per terra, sul vialetto che di lì a poco avrebbe dovuto spazzare. Quando la responsabile del parco gliel’ha fatto notare, lui ha risposto che fuma sigarette rullate senza filtro, che non inquinano. E di non rompere i coglioni.
La faina è un mammifero predatore. Assomiglia ad un furetto. Di solito vive nei boschi, ma, di questi ultimi, ce ne sono sempre di meno. Se l’habitat naturale si riduce, le soluzioni sono due: o ci si estingue, o ci si accontenta.
Spesso, l’uomo, con il progresso e con i suoi piani regolatori, conquista spazi, costruisce, crea sviluppo economico. Si indebita per innalzare palazzi dove un giorno si spera venga ad abitare qualcuno. Oppure per edificare capannoni dove produrre beni che la gente, anche quella che vive nei menzionati palazzi, possa comprare.
Ma a volte va male. La gente non vuole andare a vivere in quei fabbricati, perché sorti in mezzo al nulla, oppure l’impresa di costruzione frega sui materiali, o semplicemente i soldi finiscono prima di intonacare i muri. Che rimangono nudi, scuoiati come cadaveri senza nome al centro di un teatro anatomico. Oppure accade che nei capannoni sia stato prodotto qualcosa per un certo periodo, forse per decenni, forse solo per qualche mese, poi non più.
Così le alberature abbandonate, acquistate in vivaio per decorare i parcheggi di questi postmoderni mausolei ormai deserti, si rinselvatichiscono. Non potate per anni, ricoprono il suolo con rami che pendono fino a terra. Le foglie cadute e non raccolte creano uno strato di humus, fertile per ogni tipo di pianta infestante. Le radici squarciano l’asfalto, sfondano e ribaltano marciapiedi e cordoli in cemento, per dare opportunità all’apparato radicale di quelle malerbe di arrivare fino al terreno, ingrandirsi, prosperare. E quell’umido, quell’ombra torna ad essere un ottimo rifugio per tante specie più o meno selvatiche. Sempre meglio di quei frutteti a perdita d’occhio, puliti e rasati come i panni verdi dei tavoli da biliardo, irrorati con ogni tipo di veleno. O di quel grande parco oltre la ferrovia, che ha tanti alberi e animali, anche dei laghetti, ma è affollato di persone per tutto il giorno, non ci si può rifugiare.
Però almeno di notte non c’è nessuno, ci si può andare a mangiare.
La faina ha trasformato quella piccola riserva suburbana a base di scarti e abbandono nel suo regno, e il grande parco nella sua dispensa. Durante le notti senza luna, si muove rapidamente sulle sue brevi ma energiche zampe. Zigzagga tra macchinari industriali arrugginiti e tubi catodici sfondati, supera altre rovine contemporanee fino a superare la recinzione che delimita la ferrovia. Supera i binari, lucidi come specchi e addormentati, si infila nella ringhiera che circonda il parco attraverso uno squarcio provocato dalla non troppo recente caduta di un tiglio. Ora è dentro. Sente lo stomaco che borbotta, ma più che avere una vera e propria fame, ha solo la consapevolezza che l’ora di cena è vicina. Punta ai cedri del libano vicino al laghetto. Va a colpo sicuro.

Arrivata a pochi centimetri dalle fronde più basse degli alberi, rallenta di colpo. Non emette un suono. Come una recluta durante la naja, ma estremamente più motivata, fa il passo del leopardo strisciando sotto i bassi rami. Lì dietro dorme un coniglio. Con uno scatto fulmineo punta al collo della sua vittima, che non ha neanche il tempo di capire che sta succedendo. Sa solo che sta morendo.

La faina trascina il corpo della sua preda in un posto tranquillo, su un ponticello in legno diroccato che collega il vialetto asfaltato ad un’isoletta artificiale. Rapidamente sorbisce al capo il coniglio, sgranocchiandone il cranio per assaporarne la dolce materia grigia. Poi si fa strada nella pelliccia divorando i nutrienti muscoli pettorali della sua vittima. Arriva al diaframma. Si ferma. Non ha voglia di compromettere il suo pasto mordendo le viscere. Troppo amare. Nascondono pericoli che l’istinto conosce.
Soddisfatta, lascia cadere quello che resta del coniglio nell’ansa del laghetto perpendicolare al ponticello. Rapidamente torna indietro. Non vuole diventare a sua volta il pasto di qualche rapace notturno. Esce da dove è entrata, attraversa i binari e torna nella sua tana fatta di rifiuti e abbandono.
Così un animale si trasforma da selvatico e boschivo a randagio e suburbano. Senza neanche essere stato mai domestico.
Brambilla parla a ruota libera. Racconta tanto di sé. Nessuno con un minimo di sale in zucca lo farebbe, visto il tenore delle cose che racconta. Ma lui lo fa. Dice di avere il foglio di via da diversi paesi europei. Alterna momenti di scherzo e di leggerezza a feroci incazzature, senza motivo. Mentre parla mi punzecchia di continuo con le sue mani indurite dai vari lavori manuali che ha fatto. Lasciano i lividi.
Se al mattino gli porto un caffè, si incazza perché non è corretto con la grappa. Quando arriva al parco completamente ubriaco e ingestibile, lo lascio seduto tranquillo su di un pezzo di tronco d’albero, a fumare le sue sigarette rullate senza filtro e a dar da mangiare del becchime a quello che ha eletto suo gallo personale. A vederlo da lontano, piccoletto com’è, sembra una specie di saggio scimpanzé, così sapiente da aver scelto di perdere il senno e vivere alla giornata, al minuto. Con il primate condivide lo sguardo nero e profondo da bestia raminga, capace di farti del male, ma anche in grado di volerti bene.
Un giorno viene con dei fogli in mano: “Te che sei tènnico, che vuol dire qua?”.
Sono analisi del sangue. Piene di asterischi. Non dicono nulla di buono.
“Dicono che devi fare il bravo”, gli rispondo.
Lui mi guarda col suo profondo sguardo da ominide ancestrale, ma con un luccichio e un sorriso, che senza parole pronunciate sembrano dire: “Ma fai il bravo te e non rompere i coglioni”.
Non sa neanche cosa sia il perdono.

 


Foto di Maja Petric

 

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