Interview | Daìmon
Daìmon: A scuola per restare. Ci racconti come è nata questa scuola, se ha una collocazione geografica e perché si chiama così?
Inclusiva, gratuita, itinerante, senza banchi, senza porte e finestre, accessibile a chiunque abbia voglia di parteciparvi. Così ci siamo presentati. Senza confini né collocazioni geografiche situate. A scuola per restare nasce a cura del gruppo de La scatola di latta, già operante soprattutto sul territorio salentino ma non solo, con la volontà di continuare a tessere relazioni tra territori e comunità. Soprattutto alla scoperta di territori che oggi sono annoverati in quelle che vengono definite aree interne, interessate sempre più dal fenomeno dello spopolamento, che coinvolge non solo, come talvolta erroneamente si pensa, le regioni meridionali italiane. Abbiamo scelto di dare alla nostra scuola il nome Daìmon, dal lessico del sentire greco. Era lo spirito guida che accompagnava gli eroi greci a compiere il loro destino, a realizzare pienamente la loro individualità, il loro essere eccezione; nel caso di Antigone era Filía: Amore. Daìmon era ed è il nostro demone: lo sguardo interiore che porta al riconoscimento; viatico e volano per la realizzazione della nostra pienezza. I segni di daìmon poi sono gli stessi che definiscono (con l’aggiunta di una congiunzione) la parola diaméno, che in greco classico significa restare. Dunque l’atto del restare seguendo il nostro demone, nella piena realizzazione –anche civica- della nostra singolarità. Personalmente l’atto del restare è esso stesso un viaggio nel contesto della scoperta di una conoscenza mai data, mai certa e scontata, mai immobile e statica, mai assoluta. L’atto di chi resta edelle comunità che restano avviene nelle radici, nelle relazioni e nei processi che hanno coinvolto il territorio di appartenenza.
A colpirmi particolarmente è il verbo restare. Nelle sue sillabe l’abbandono finale e dolce a una certezza, quella di poter prolungare all’infinito la consuetudine del già conosciuto, del familiare, di ciò che, appunto, dopo gli eccessi e le impudenze, resta… Ma in questa restanza, per citare l’antropologo Vito Teti, come si incontrano tradizione e innovazione?
Mutuando l’antropologo Teti, al quale la nostra scuola deve parte della sua visione, restare non èrimanere, che è associabile al concetto di stasi e di immobilità. Restare è stare di nuovo, dunque anche nello stare e nel restare è compreso un concetto di trasformazione e non di staticità. Restare è un atto di coraggio, di accoglienza, di custodia, di sensibilità per i propri luoghi; è un atto che implica sicuramente anche sperimentare la solitudine o l’incomprensione di chi se ne è andato,mentre il Paese tutto in qualche modo cambia. Restare implica, soprattutto in alcune aree più che in altre, sperimentare l’isolamento oltre che la solitudine. Isolamento ben evidente in questo periodo se si pensa ai territori deficitari per infrastrutturazione digitale, per servizi educativi, per servizi nei trasporti, per servizi socio-sanitari. Le aree interne patiscono una narrazione che le vuole ora spazi incantati esistiti nelle Bucoliche e nelle Georgiche virgiliane, ora spazi marginali ed esclusi dal mondo della vita che va avanti. Dunque, a mio avviso, la prima urgenza è proprio nella contro-narrazione che deve partire dal solo nominare i paesi che incontriamo, dal solo camminarli senza calpestarli, dal rivolgere ai territoriuno sguardo apprezzativo. Nei prossimi mesi avremo modo di allargare lo sguardo dalle nostre case ai nostri paesi. È un esercizio che possiamo praticare tutti alla scoperta degli angoli nei nostri stessi condomini, quartieri, isolati, aree più prossime. La prima innovazione è nello sguardo generativo, nell’attenzione alle persone, nelle relazioni e dunque nei legami fiduciari, nei ponti e nelle reti che possono attivarsi per esercitare e innaffiare l’immaginazione di futuri possibili. Il capitale sociale, il patrimonio culturale umano, dunque anche le tradizioni, le storie, le identità locali sono fattori strategici ed innovativi per una politica di sviluppo sostenibile. Fattori che, tra tradizione e innovazione, costituiscono un valore competitivo difficilmente riproducibile.
Il sentire mediterraneo è restanza. Tra i suoi chiari e i suoi scuri, nell’acerbo o maturo stato del suo cuore, il vivere mediterraneo, profondamente etico ed estatico, invoca ovunque la restanza: i piccoli paesi che lo abitano ne sono il grido, la supplica. Sei d’accordo con me?
I paesi gridano prima di tutto alla conoscenza dei territori e delle loro peculiarità identitarie, gridano alla ri-conoscenza del capitale materiale e immateriale, delle risorse e delle competenze visibili ma anche di quelle tacite e nascoste. Nei paesi ci sono persone che stanno, persone che restano o che ritornano, migranti, persone che scelgono stili di vita in linea con economie sostenibili. I paesi chiedono di essere abitatipoeticamente e civicamente prendendo in prestito le parole dello scrittore e poeta francese Christian Bobin. I paesi chiedono di essere ri-abitati anche da chi vi risiede. I paesi invocano l’ascolto ma la loro narrazione non può esaurirsi nel solo racconto. I paesi chiedono di partecipare e di prendere parte ai processi decisionali per ridisegnare geografie culturali sostenibili che tengano conto anche dei rischi di diseguaglianza, di emarginazione e di marginalità.
La scuola è il luogo del mutamento, nella migliore delle intenzioni. È il luogo della trasformazione e della fioritura in una forma adulta. Questo spazio di passaggio, che oggi siamo abituati a vedere in una veste istituzionalizzata, può assumere i tempi e i ritmi di un cammino in dialogo, in coesistenza e in comunione? In questo senso, allora, perché Daìmon è scuola itinerante che non finirà mai?
La scuola, nella sua accezione più ampia, porta sempre con sé il seme del cambiamento. In linea con i cambiamenti sociali, culturali ed economici, il carattere della fluidità interessa i processi dell’apprendimento, lungo l’arco di tutta la vita e in più contesti esperiti. Lifelong learning, lifewide e deep learning sono le espressioni che esprimono in maniera approfondita questa prospettiva di apprendimento formale, informale e non formale, ormai da molto tempo disciplinata anche normativamente a livello europeo. L’apprendimento non è un processo situato ma diffuso e per questo è sempre più urgente una collaborazione tra i soggetti deputati in contesti differenti per un laboratorio evolutivo. La nostra scuola itinerante non si sottrae e accoglie i cambiamenti e le collaborazioni con altre agenzie educative formali, non formali e informali, rivolgendosi alla comunità intera, senza ordini e gradi di istruzione.
I vostri luoghi di apprendimento sono i campi, le strade, le spiagge, le pietre, la mescita sensuale del mondo che raccoglie saggezza dalla storia e la rimesta nella presenza viva della natura. Quanto si impara attraverso i sensi?
‘Se l’occhio non si esercita, non vede,
se la pelle non tocca, non sa,
se l’uomo non immagina, si spegne.’
Questi versi di Danilo Dolci rispondono per me. Potrei solo aggiungere che anche i sensi richiedono esercizio ed un modus educandi per impratichirsi e ri-conoscere il profumo del pane che viene dalla bottega del vecchio fornaio.
Penso ai paesi del Sud Italia, che insieme compongono un unico, grande organo metaforico e dissidente, perché insistono nel respiro di un ossigeno diverso e impopolare, quello della resistenza poetica nella rovina e della permanenza simbolica oltre i dati, le cronache, l’effimero della contemporaneità. Nell’abbandono dei borghi calabresi, lucani, per certi tratturi sconnessi e sconosciuti della Puglia, in alcuni dei paesaggi deserti del Molise o alle soglie della Via Appia, non c’è forse il vostro Daìmon? E con lui, con il Daìmon, quale ricostruzione è possibile per promettere il perpetuarsi di generazioni che sappiano condividere questo ecopatrimonio, curarlo, assimilarlo in una – citando Leonardo Sinisgalli – “memoria attaccata ai soffitti”?
Quei paesi abbandonati e sconosciuti profumano di visioni di straordinaria bellezza e ricchezza al pari di altri spazi urbani altrove situati. Da più parti si sollecita l’intervento dell’expertise nelle aree interne. Il fenomeno dello spopolamento stimola la tensione verso un nuovo modo di vivere, verso nuove connessioni tra gli spazi. Occorre allontanarsi da una visione economicistica e compiere un superamento della logica delle vecchie dicotomie, incapaci di leggere la complessità delle dinamiche nei territori. Riformuliamo le domande, senza letture pre-confezionate, prima di cercare risposte che pensiamo di conoscere già. Un modello di sviluppo responsabile e sostenibile aderisce alla capacità di coniugare heritage e valore (non nella sola accezione economica del termine), creando connessioni strategiche che recuperino la funzione rivitalizzante dei territori. La cura dei territori è un processo delicato e decisivo che va dallo sguardo generativo alla costruzione dei patti di collaborazione, ma chiama in ogni sua forma alla responsabilità civica dei singoli e delle comunità, non di meno alla sostenibilità delle condizioni e delle azioni. L’oblio della memoria è sempre in agguato, bisogna capire che impegno vogliamo prenderci nei confronti di questo ecopatrimonio. Dunque che comportamenti vogliamo agire.
Ed infine, la vostra scuola come si approccia all’Europa, al suo tentativo di essere insieme unità e pluralità di culture? O perlomeno, come vorreste che fosse accolto il vostro sguardo nazionale su un orizzonte di possibilità internazionali?
Un’osservazione attenta, responsabile e consapevole non può sottrarsi ai cambiamenti in atto, investiti dagli eventi rispetto al periodo pandemico che viviamo ora. Quello che stiamo sperimentando cambierà i nostri punti di vista, sia per il carattere inedito, sia per una forma coercitiva di riflessione a guardarci dentro le nostre case, sia per le dinamiche socioculturali, economiche e politiche pienamente coinvolte e travolte. Se guardare all’Europa significa guardare agli obiettivi per lo sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030, noi ci siamo. Siamo tutti chiamati ad agire fermenti con urgenza. Senza confini. E anche noi, nel rispetto delle comunità che incontriamo. In questo periodo di distanze fisiche agiamo nei nostri duecento metri o nei nostri duecento kilometri ma lavoriamo e progettiamo per immaginare futuri possibili di prossimità.
Intervista a Claudia Ferrari | Sociologa, animatrice territoriale, docente in una scuola primaria.